È possibile estendere l’esdebitazione alle procedure di amministrazione straordinaria? Una recente pronuncia tra passato e futuro della disciplina fallimentare (Tribunale di Torino, Sez. fall., decreto 12 febbraio 2019)

Redazione 04/04/19
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di Mattia Polizzi*

* Dottorando di ricerca presso l’Università degli Studi dell’Insubria

Sommario

1. Introduzione: il caso

2. L’iter argomentativo

3. Spunti di riflessione in tema di esdebitazione. Generalità introduttive

4. (segue) Nozione, effetti ed ambito operativo

5. (segue) I requisiti

6. (segue) Il procedimento

7. Osservazioni sulla nuova disciplina del codice della crisi d’impresa e dell’insolvenza

1. Introduzione: il caso

Il recente decreto 12 febbraio 2019 reso dalla Sezione fallimentare del Tribunale di Torino si impone all’interesse dell’operatore non solo per l’assenza di precedenti pronunce pretorie sul tema dell’applicabilità dell’esdebitazione al soggetto sottoposto alla procedura di amministrazione straordinaria; ma anche per l’attento iter argomentativo e la sensibilità sistematica che ha portato il giudicante ad esprimersi in senso favorevole alla estensione dell’ambito operativo dell’istituto.

Nel corso di una procedura di amministrazione straordinaria viene proposta istanza per la ammissione al beneficio della liberazione dai debiti residui nei confronti dei creditori non soddisfatti. La Sezione fallimentare lo concede, dichiarando la non esigibilità nei confronti della parte dei debiti concorsuali non integralmente soddisfatti, dopo aver rilevato che nel caso di specie sussistevano tutti i presupposti richiesti dagli artt. 142 ss. l. fall. per accordare l’esdebitazione: l’istanza è stata presentata prima della dichiarazione di chiusura della procedura; il parere del Commissario Straordinario, depositato in uno alla valutazione del Comitato di Sorveglianza, è risultato non ostativo; l’istante ha cooperato con gli organi della procedura, in quanto ha fornito le informazioni e le documentazioni utili per l’accertamento del passivo, non ha provocato ritardi nello svolgimento del procedimento e non ha distratto l’attivo della procedura né esposto passività inesistenti; il medesimo istante non ha beneficiato di altra esdebitazione nei dieci anni precedenti la richiesta; inoltre non risultano sentenze penali di condanna passate in giudicato nei suoi confronti, in ragione della intervenuta declaratoria di estinzione di un reato precedentemente oggetto di applicazione della pena su richiesta delle parti exart. 444 c.p.p.

A prescindere dalle evenienze del caso concreto, il vero punto focale della decisione è, come anticipato, la affermata compatibilità dell’istituto dell’esdebitazione con il sistema delle procedure di amministrazione straordinaria: la soluzione favorevole, invero non scontata, è frutto di argomentazioni di varia natura e di una visione ben definita del sistema fallimentare.

2. L’iter argomentativo

Il percorso decisorio del tribunale parte da una constatazione di base: il d.lgs. 8 luglio 1999, n. 270 (recante, come noto, la “nuova disciplina dell’amministrazione straordinaria delle grandi imprese in stato di insolvenza, a norma dell’articolo 1 della legge 30 luglio 1998, n. 274”) non contiene una regolamentazione dell’istituto dell’esdebitazione; né presenta una norma di richiamo alle disposizioni contenute nella legge fallimentare.

Da ciò deriva una evidente lacuna nell’ordinamento che conduce, nell’opinione del giudicante, ad una disparita di trattamento: difatti, la persona fisica potrebbe beneficiare degli effetti favorevoli dell’esdebitazione solo nel caso in sui sia assoggettata ad una procedura fallimentare. Una disparità, questa, in contrasto con la ratio sottesa alla procedura dell’amministrazione straordinaria, posto che ai sensi dell’art. 1 d.lgs. 270/1999 detta procedura è stata predisposta dal legislatore per rispondere a “finalità conservative del patrimonio produttivo, mediante prosecuzione, riattivazione o riconversione delle attività imprenditoriali”. L’irragionevolezza del trattamento emergerebbe altresì dalla circostanza per cui sono sottoponibili ad amministrazione straordinaria i soggetti che già dispongano dei requisiti soggettivi propri del fallimento, così da rendere possibile, anche in via officiosa, il passaggio dall’una all’altra procedura. Gli ammessi all’amministrazione straordinaria, difatti, potrebbero ben essere dichiarati falliti qualora risultino mancanti i requisiti richiesti per l’ammissione all’amministrazione straordinaria (art. 11, comma 2, d.lgs. 270/1999) ovvero qualora non sussistano prospettive concrete per il recupero dell’equilibrio economico dell’attività di impresa (arg. ex artt. 27, comma 1, e 30, comma 1, d.lgs. 270/1999) ovvero ancora qualora l’amministrazione straordinaria non possa essere “utilmente proseguita” (art. 69, comma 1, d.lgs. 270/1999). Sicché è consentito concludere che la lacuna normativa non costituisca espressione del principio ubi lex voluit dixit, ma si sostanzi in una vera e propria lacuna tecnica, in contrasto con il principio costituzionale di eguaglianza-ragionevolezza in forza del quale, come noto, situazioni analoghe devono essere sottoposte ad un analogo trattamento normativo.

A sostegno della propria tesi il Tribunale torinese valorizza, oltre che il piano dello stretto diritto positivo (e la disparità di trattamento ad esso conseguente), anche una argomentazione di carattere teleologico. Difatti, nell’opinione dei giudici, qualora la possibilità di usufruire dell’esdebitazione non fosse ammissibile per le procedure di amministrazione straordinarie, la persona fisica insolvente si troverebbe nella situazione di preferire il ricorso alla procedura fallimentare, potendo solo in tale ambito concorsuale beneficiare del fresh start.

Infine, in un’ottica sistematica, il giudice rileva come l’ordinamento vigente sia caratterizzato da un favor esdebitatorio, frutto di una concezione moderna del fallimento, da intendersi non più come momento sanzionatorio, ma – almeno per quanto riguarda le evenienze non criminose – come strumento di riequilibrio e, ove possibile, di rinascita dell’attività imprenditoriale. Diversi gli indici da cui trarre tale conclusione. Si pensi al disposto di cui all’art. 14 terdecies l. 27 gennaio 2012, n. 3 che ha introdotto l’istituto dell’esdebitazione anche nell’ambito della procedura di composizione della crisi da sovraindebitamento. Ancora, una spinta in tal senso proviene dalle istituzioni eurounitarie. Viene presa in considerazione, in particolare, la Raccomandazione della Commissione europea 2014/135/UE del 12 marzo 2014 che, partendo dalla considerazione per cui “gli effetti del fallimento, in particolare la stigmatizzazione sociale, le conseguenze giuridiche e l’incapacità di far fronte ai propri debiti sono un forte deterrente per gli imprenditori che intendono avviare un’attività o ottenere una seconda opportunità, anche se è dimostrato che gli imprenditori dichiarati falliti hanno maggiori probabilità di avere successo la seconda volta”, afferma chiaramente l’opportunità che gli Stati membri si adoperino “per ridurre gli effetti negativi del fallimento sugli imprenditori, prevedendo la completa liberazione dai debiti dopo un lasso di tempo massimo” (così il considerando n. 20). La pronuncia, emessa ratione temporis sotto il vigore della legge fallimentare di cui al r.d. 16 marzo 267, n. 267, non manca tuttavia di operare un richiamo alla legge 19 ottobre 2017, n. 155 di delega al Governo per la riforma delle discipline della crisi di impresa e dell’insolvenza che, all’art. 8, dispone una revisione della materia incentrata su tre principi tesi ad implementare il ricorso alla esdebitazione: la possibilità di richiedere l’applicazione dell’istituto entro tre anni dall’apertura della procedura; l’introduzione, per le insolvenze minori, di forme di esdebitazione c.d. di diritto; l’estensione del beneficio anche alle formazioni societarie (e non solo alla persona fisica). Indicazioni che, come sarà possibile osservare infra sono state recepite nel codice della crisi d’impresa e dell’insolvenza di cui al d.lgs. 12 gennaio 2019, n. 14 (pubblicato nella G.U. n. 38 del 14 febbraio 2019).

Le tre argomentazioni richiamate consento, pertanto, al Tribunale fallimentare di Torino di concedere il beneficio esdebitatorio al ricorrente, affermando la possibilità di applicare in via analogica gli artt. 142 ss. l. fall. alla procedura di amministrazione straordinaria.

3. Spunti di riflessione in tema di esdebitazione. Generalità introduttive

La pronuncia in nota consente di spendere alcune parole in merito all’istituto dell’esdebitazione, che ha conosciuto nel corso degli anni una p>[1]; peraltro, pare opportuno muovere dalla disamina dell’esdebitazione così come risultante dalla legge fallimentare – in quanto è questo il contesto normativo nel quale ha operato il decreto del Tribunale – senza però perdere l’occasione di formulare alcuni rilievi conclusivi in merito alla “nuova” disciplina di cui al codice della crisi di impresa e dell’insolvenza, di prossima vigenza (d’ora in avanti, per comodità espositiva: c.c.i.).

L’istituto de quo è stato introdotto ad opera dell’art. 128 d.lgs. 9 gennaio 2006, n. 5 (recante la “riforma organica della disciplina delle procedure concorsuali a norma dell’articolo 1, comma 5, della legge 14 maggio 2005, n. 80”) e trova la propria disciplina di riferimento negli artt. 142 ss. l. fall.: in particolare l’art. 142 l. fall. disciplina i requisiti necessari per accedere al beneficio; l’art. 143 l. fall. tratta del relativo procedimento; l’art. 144 l. fall. estende l’operatività dell’esdebitazione ai “creditori anteriori alla apertura della procedura di liquidazione che non hanno presentato la domanda di ammissione al passivo” (creditori non concorsuali), seppur nel limite della parte di credito eccedente la percentuale attribuita ai creditori concorsuali di pari grado.

A norma dell’art. 142, comma 1, l. fall. l’esdebitazione consiste nel beneficio, concesso alla sola persona fisica, della liberazione dai debiti residui nei confronti dei creditori concorsuali non soddisfatti, purché sussistano determinate condizioni. Come autorevolmente affermato in dottrina, tale meccanismo non era ignoto all’impianto originario della disciplina fallimentare: sia il concordato fallimentare sia il concordato preventivo, difatti, presentano tra i propri effetti quello della esdebitazione rispetto ai creditori anteriori, rispettivamente all’apertura del fallimento ovvero a quella della procedura concordataria (cfr. artt. 135, comma 1, e 184, comma 1, l. fall.). Tuttavia, se queste tipologie di liberazione dai debiti costituiscono un aspetto di istituti di natura pattizia (e dell’accordo, lato sensu inteso, ai medesimi sotteso), l’esdebitazione ex artt. 142 ss. l. fall. rappresenta invece “un effetto […] accessorio ed eventuale della chiusura della procedura liquidativa[2].

L’istituto, che trova la propria origine nella discharge di derivazione anglosassone[3], risponde alla ratio del c.d. fresh start del fallito, al quale si reputa debba essere consentito di riprendere ad operare nel contesto economico, privo del fardello dei debiti precedenti, qualora abbia “lasciato il proprio attuale patrimonio ai creditori e non abbia compiuto atti di frode”[4]. Una considerazione, questa, che ha assunto una rinnovata vis alla luce della crisi economica degli ultimi anni: l’osservazione della realtà macro e micro economica, difatti, ha evidenziato la fallacità della mera distinzione tra debitori solventi e debitori insolventi, in quanto la solvibilità è, in molti casi, non una questione di semplice volontà dell’obbligato, ma “è legata a fattori esterni alla sfera di controllo del debitore che opera in un settore del mercato in crisi, che si trova ad essere creditore di debitori operanti a loro volta in settori del mercato in crisi, che ha investito in settori del mercato imprevedibilmente caduti in default”[5]. In altri termini, l’istituto ben può essere qualificato come uno tra gli indici del mutato angolo visuale sotto il quale opera il fallimento, non più visto come strumento di mera punizione, ma – almeno con riferimento alle ipotesi non fraudolente – come ausilio per un auspicabile ritorno alla normalità operativa o, quantomeno, per (un tentativo di) riequilibrare la realtà economica perturbata dalla crisi dell’imprenditore, senza stigmatizzazioni in danno del fallito. Indicazioni, queste, che provengono anche dalla realtà sovranazionale. Oltre alla già menzionata Raccomandazione della Commissione UE, è possibile altresì ricordare che la Corte di Strasburgo ha in diverse occasioni sanzionato l’Italia non solo con riferimento alla durata eccessiva delle procedure fallimentari, ma anche in ragione della violazione di altri diritti fondamentali conseguente ai risvolti afflittivi per il fallito contenuti in diverse disposizioni nostrane[6].

Il legislatore pare non essere stato sordo a tali moniti, tanto da aver esteso – con l’introduzione nella l. 3/2012 dell’art. 14 terdecies ad opera dell’art. 18, comma 1, lett. s), d.l. 18 ottobre 2012, n. 179, conv. in l. 17 dicembre 2012, n. 221 – l’esdebitazione anche alle procedure di sovraindebitamento del debitore civile nonché – con l’entrata in vigore del codice della crisi d’impresa – alle società, con un intervento auspicato anche da parte della dottrina[7].

[1] Numerosi ed autorevoli i contributi sul tema. Per una prima indicazione bibliografica si v., senza pretesa di esaustività alcuna, Aa. Vv., Diritto fallimentare. Manuale breve, Giuffrè, Milano, 2008, 205 ss.; Ambrosini S., L’esdebitazione del fallito fra problemi interpretativi e dubbi di incostituzionalità, in Fallimento, 2009, II, 129 ss.; Castagnola A., L’esdebitazione del fallito, in Giur. comm., 2006, I, 448 ss.; Ficarella G., L’esdebitazione, in Trisorio Liuzzi G. (a cura di), Manuale di diritto fallimentare e delle procedure concorsuali, Giuffrè, Milano, 2011, 297 ss.; Guglielmucci L., Diritto fallimentare (a cura di Padovini F.), Giappichelli, Torino, 2017, 294 ss.; Jorio A., voce Fallimento (diritto privato e processuale), in Enc. dir., Ann. III, Giuffrè, Milano, 2010, 387 ss.; Landini S., voce Esdebitazione, in Enc. dir., Ann. VII, Giuffrè, Milano, 2014, 429 ss.; Letizia D., Vassalli F., L’esdebitazione, in Aa. Vv., Gli effetti del fallimento, Giappichelli, Torino, 2014, 791 ss.; Nigro A., Vattermoli D., Diritto della crisi delle imprese. Le procedura concorsuali, Il Mulino, Bologna, 2017, 275 ss.; Presti G., Rescigno M., Corso di diritto commerciale, I, Zanichelli, Bologna, 2009, 307 ss.; Sciuto M., La chiusura del fallimento e l’esdebitazione, in Cian M. (a cura di), Diritto commerciale, Giappichelli, Torino, 2018, 130 ss.

[2] Nigro A., Vattermoli D., op. cit., 275.

[3] Per un’analisi dei profili storici-comparatistici della discharge e, più in generale, degli strumenti ad esso affini, si v. in particolare Letizia D., Vassalli F., op. cit., 791 ss. V. altresì Nigro A., Vattermoli D., op. cit., 275-276.

[4] Jorio A., op. cit., 388.

[5] Landini S., op. cit., 430.

[6] Cfr., a titolo di esempio, CoEdu, Sez. III, Bassani c. Italia, 11 dicembre 2003, ric. 47778/99; CoEdu, Sez. III, Peroni c. Italia, 6 novembre 2003, ric. 44521/98; CoEdu, Sez. I, Luordo c. Italia, 17 luglio 2003, ric. 32190/96; CoEdu, Sez. I, Bottaro c. Italia, 17 luglio 2003, ric. 56298/00. Tutte le pronunce citate sono liberamente consultabili nel sito www.echr.coe.int.

[7] Cfr. Ambrosini S., op. cit., 130, che sottolineava i dubbi in merito alla compatibilità del previgente sistema con il principio di uguaglianza.

4. (segue) Nozione, effetti ed ambito operativo

Venendo ora ai principali profili di interesse degli artt. 142 ss. l. fall. è possibile osservare in primo luogo che, come accennato supra, il primo allinea dell’art. 143 l. fall. dispone che a seguito del decreto di esdebitazione i residui debiti concorsuali non soddisfatti integralmente diventano “inesigibili” nei confronti del debitore. Ciò significa, pertanto, che tali obbligazioni non vanno incontro ad estinzione, ma ad un quid differente. La dottrina maggioritaria reputa che tale inesigibilità consista in una sorta di trasformazione dell’obbligazione giuridica in una obbligazione naturale (o morale), con conseguente applicazione dell’art. 2034 c.c.[8]: dunque, qualora l’ex fallito si determini nel senso di pagare il debito oggetto di esdebitazione (ad esempio per recuperare la propria reputazione commerciale o per ri-presentarsi al mercato con una positiva immagine di “buon debitore”) non potrà poi ripetere quanto versato, stante l’operatività del meccanismo di soluti retentio di cui alla citata disposizione codicistica.

Come è stato possibile più volte affermare, l’esdebitazione è foriera di indubbi vantaggi per il fallito, tanto da potersi parlare di un vero e proprio beneficio. Si tratta, tuttavia, di una utilità sottoposta a diverse condizioni e limiti, accordata solo in seguito ad un “giudizio positivo di meritevolezza”[9] rimesso al giudice del caso concreto.

Prima di esaminarle, pare opportuno soffermarsi su di un tema sinora solo adombrato, ossia quello del (non da tutti condiviso) ambito di operatività dell’istituto in parola. A norma del primo comma dell’art. 142 l. fall., difatti, afferma che l’ammissione al beneficio sia consentita al “fallito persona fisica”, ivi compresi i soci illimitatamente responsabili falliti in estensione.

Come è stato autorevolmente affermato, la limitazione in parola rappresenta un indice di una sorta di atteggiamento prudenziale mostrato dal legislatore, in quanto non è possibile non ricordare che il meccanismo in esame costituisce una vistosa deroga al principio generalissimo per cui pacta sunt servanda[10]. Un atteggiamento che, pur in astratto condivisibile, ha portato ad escludere dall’ambito di applicazione de quo non solo le vicende estranee al fallimento, ma anche – all’interno dell’habitat operativo di tale procedura – una pletora decisamente ampia di soggetti, come l’insolvente civile (almeno prima dell’introduzione dell’art. 14 terdecies l. 3/2012), nonché i debitori non fallibili (imprenditori agricoli e piccoli imprenditori), con tutto ciò che ne consegue in termini di dubbi sulla legittimità costituzionale della disciplina in parola. Dubbi che, come sarà possibile osservare, appaiono meno pressanti alla luce della recente riforma del sistema regolatorio delle cristi.

[8] Ex pluris Ambrosini S., op. cit., 132; Landini S., op. cit., 443 ss., la quale dà conto anche di una diversa opinione, invero minoritaria, secondo cui la condizione de debito oggetto di esdebitazione sarebbe da ricondurre alla figura del debito prescritto, con applicazione dell’art. 2940 c.c.

[9] Così Guglielmucci L., op. cit., 294.

[10] Cfr. Jorio A., op. cit., 387-388.

5. (segue) I requisiti

Venendo ora ai requisiti necessari per godere del beneficio dell’esdebitazione, questi possono essere distinti in oggettivi e soggettivi.

Per quanto attiene questi ultimi, oltre alla citata natura di persona fisica dell’istante, vengono in rilievo una condizione positiva e diverse condizioni negative. Quanto alla prima, ai sensi dell’art. 142, comma 1, n. 1), l. fall., è necessario che il fallito abbia cooperato con gli organi della procedura, fornendo tutte le informazioni ed i documenti utili per l’accertamento del passivo e adoperandosi per il proficuo svolgimento delle operazioni concorsuali. La norma è stata interpretata come presidio teso a “scongiurare – come si legge nella Relazione illustrativa – «distorsioni nei comportamenti del debitore insolvente»”[11].

Le condizioni negative sono invece elencate dai successivi numeri della disposizione da ultimo citata. Il n. 2 dispone che il fallito non debba aver ritardato (o contribuito a ritardare) in alcun modo lo svolgimento della procedura. La dottrina ha chiarito che non ogni attività od omissione che possa aver anche minimamente ostacolato la procedura integri un comportamento contrario alla norma: piuttosto, tale condotta deve essere ravvisata in “ogni comportamento antigiuridico di ostacolo alla ragionevole durata della procedura, prescritta dagli art. 6 Cedu e 111 cost.”[12]. Il n. 3 afferma che osta alla concessione del beneficio la violazione ad opera del fallito della regola di cui all’art. 48 l. fall., avente ad oggetto – come noto – l’obbligo di consegnare la propria corrispondenza al Curatore fallimentare. Altra condizione per l’ammissione all’esdebitazione (prevista dal n. 4) è che il fallito non abbia beneficiato della misura nei dieci anni precedenti la nuova richiesta. In merito al dies a quo dal quale decorre il termine decennale sono state avanzate due tesi: la data di emissione del provvedimento ovvero il momento in cui lo stesso diviene definitivo. Il primo comma dell’art. 142 l. fall. prevede poi, al n. 5, che il fallito da un lato non deve aver distratto l’attivo o esposto passività inesistenti, così cagionando (o aggravando) la situazione di dissesto e rendendo di grave difficoltà “la ricostruzione del patrimonio e del movimento degli affari” e dall’altro non deve aver fatto ricorso abusivo al credito. Infine, l’ultima condizione negativa prevista dalla norma consiste nel non essere stato condannato (con pronuncia passata in giudicato) per una serie di reati economici, salvi gli effetti di una eventuale riabilitazione.

L’operatività dell’esdebitazione trova, come accennato, limiti anche sul piano oggettivo. Il terzo comma dell’art. 142 l. fall. sancisce infatti che restano esclusi dall’ambito operativo dell’istituto gli obblighi di mantenimento, quelli alimentari e più in generale le obbligazioni derivanti da rapporti estranei all’esercizio dell’impresa[13], nonché i debiti per il risarcimento da fatto illecito extracontrattuale, oltre che le sanzioni pecuniarie penali ed amministrative che non siano accessorie a debiti estinti. L’esdebitazione copre invece, come disposto dal già richiamato art. 144 l. fall., i debiti non concorsuali, sebbene per la sola parte eccedente la “percentuale attribuita nel concorso ai creditori di pari grado”.

Il secondo comma dell’art. 142 l. fall. pone una sorta di pre-condizione ostativa alla concessione dell’esdebitazione: questa non può essere accordata “qualora non siano stati soddisfatti, neppure in parte, i creditori concorsuali”. La norma ha prestato il fianco a diverse critiche, in ragione della propria formulazione non cristallina: ci si chiede, tra l’altro, se essa debba essere intesa nel senso che tutti i creditori debbano essere (almeno in parte) soddisfatti ovvero nel senso che almeno una delle compagini creditorie debba trovare (piena) soddisfazione. Di rilievo appare al riguardo una recente sentenza della Cassazione, resa a Sezioni Unite, con la quale la Corte, nel dichiarato intento di estendere il più possibile il campo di applicazione dell’istituto, ne ha affermato che l’operatività anche qualora al termine della procedura sia stata pagata, pur se parzialmente, una sola parte dei creditori; ciò, tuttavia, a condizione che la concessione del beneficio non risulti irragionevole in base ad una valutazione rimessa al giudice di merito e che tenga conto di tutte le circostanze rilevanti del caso concreto[14].

[11] Ambrosini S., op. cit., 131.

[12] Landini S., op. cit., 439. Per conclusioni analoghe in giurisprudenza si v. Cass. Civ., Sez. I, 23 maggio 2011, n. 11279, in DeJure.

[13] L’espressione “obbligazioni derivanti da rapporti estranei all’esercizio dell’impresa” è stata introdotta dall’art. 10, comma 1, d.lgs. 12 settembre 2007, n. 169 ed ha sostituito la precedente che faceva riferimento alle “obbligazioni derivanti da rapporti non compresi nel fallimento ai sensi dell’art. 46”. La modifica è stata salutata con favore da parte della dottrina: v. Ambrosini S., op. cit., 131.

[14] Così Cass. Civ., Sez. Un., 18 novembre 2011, n. 24214, in DeJure. Più di recente si v. altresì Cass. Civ., Sez. I, 1° settembre 2015, n. 17386, in ilFallimentarista.it, 25 gennaio 2016, con nota di Guidotti R., Esdebitazione del fallito: il requisito della soddisfazione dei creditori (e p>; Cass. Civ., Sez. I, 14 giugno 2012, n. 9767, in DeJure.

6. (segue) Il procedimento

Per ciò che attiene ai profili più spiccatamente procedimentali, l’art 143 l. fall. prevede che la esdebitazione venga concessa dal tribunale “con il decreto di chiusura del fallimento o su ricorso del debitore presentato entro l’anno successivo”. La congiunzione “o” porterebbe a concludere del senso della possibilità di una concessione d’ufficio del beneficio, ma la dottrina reputa che sia sempre necessaria una apposita richiesta da parte del fallito, la quale potrà essere presentata contemporaneamente all’istanza di chiusura del fallimento di cui all’art. 119 l. fall. ovvero in un secondo momento, ma entro il termine di un anno dalla chiusura della procedura[15]. Peraltro, a norma dell’art. 118, comma 2, l. fall. (così come modificato dal d.l. 27 giugno 2015, n. 83, conv. in l. 6 agosto 2015, n. 132), qualora a seguito della conclusione dei giudizi proseguiti dopo la chiusura del fallimento si siano verificati dei riparti supplementari idonei ad integrare il presupposto di cui all’art. 142, comma 2, l. fall., il debitore potrà richiedere l’esdebitazione entro l’anno successivo al riparto che ha determinato il sorgere del presupposto medesimo.

Il tribunale provvede sulla richiesta dopo aver verificato la sussistenza dei requisiti richiamati, con una valutazione ritenuta da parte della dottrina “largamente discrezionale”[16]. È obbligatorio (ma non vincolante) il parere del Curatore e del Comitato dei creditori: la dottrina reputa che, qualora esso non sia stato reso, sia necessario che il giudice vi supplisca con una indagine d’ufficio sul fascicolo del fallimento[17].

In caso di accoglimento della richiesta si provvede alla già citata dichiarazione di inesigibilità. Come osservato il letteratura, l’art. 143 non contiene alcuna regola a tutela del diritto al contraddittorio dei creditori, nonostante questi siano destinati a subire gli effetti del meccanismo esdebitatorio. Sul punto è intervenuta la Consulta, che ha dichiarato l’illegittimità costituzionale della disposizione in parola nella parte in cui non prevede la notificazione ai creditori non integralmente soddisfatti (da effettuarsi a cura del debitore ex artt. 137 ss. c.p.c.) del ricorso per l’esdebitazione e del decreto con cui il tribunale abbia fissato l’udienza in camera di consiglio. Il legislatore è intervenuto sul tema, con una aggiunta al primo comma dell’art. 143 l. fall. che ora dispone altresì che “il ricorso e il decreto del tribunale sono comunicati dal curatore ai creditori a mezzo di posta elettronica certificata”[18]. Contro il decreto che provvede sulla richiesta è possibile proporre reclamo exart. 26 l. fall.: legittimati in tal senso sono il debitore, i creditori non integralmente soddisfatti, il P.M. e qualunque interessato.

[15] Nigro A., Vattermoli D., op. cit., 278 ss.; in senso contrario, ma al contempo dubitativo, Ambrosini S., op. cit., 132.

[16] Nigro A., Vattermoli D., op. cit., 278.

[17] Ambrosini S., op. cit., 132-133.

[18] Disposizione introdotta dall’art. 17, comma 1, lett. p), d.l. 179/2012.

Sia consentita, in conclusione di questa disamina, una chiosa finale. Non può essere questa la sede per analizzare funditus le rilevanti e recentissime novità introdotte nel sistema dell’insolvenza e della crisi d’impresa dal d.lgs. 14/2019 in tema di esdebitazione. Tuttavia, pare opportuno muovere alcuni rilievi su tali innovazioni, che paiono essere dettate dall’intento (in linea con le raccomandazioni europee) di una decisa estensione dell’operatività del beneficio de quo.

La “nuova” disciplina, che entrerà in vigore – salvo quanto previsto per alcune specifiche disposizioni – decorsi diciotto mesi dalla data della pubblicazione in G.U. (cfr. artt. 389 ss. c.c.i.), tratta dell’istituto che qui ci interessa agli artt. da 278 a 283, in parte ricognitivi del precedente dettato positivo ed in parte innovativi. Tali norme sono state inserite nel Capo X (del Titolo V, dedicato alla “liquidazione giudiziale”) a sua volta diviso in due Sezioni: la prima, avente ad oggetto “condizioni e procedimento della esdebitazione nella liquidazione giudiziale e nella liquidazione controllata”; la seconda che tratta del tema più specifico della “esdebitazione del sovraindebitato”. Per quanto riguarda le norme che ricalcano il modello precedente, può qui ricordarsi, a mero titolo esemplificativo, che sono stati confermati la definizione in termini di inesigibilità degli effetti dell’istituto[19]; la sua estensione ai crediti non concorsuali (e la relativa limitazione quantitativa); l’estensione, altresì, ai soci illimitatamente responsabili; i già richiamati limiti oggettivi.

Resta intatto anche l’impianto di massima in merito alle condizioni richieste per accedere al beneficio (contenuto nell’art. 280 c.c.i.), pur con alcune rilevanti novità. In primo luogo non risulta più espressamente prevista la condizione positiva della collaborazione con gli organi della procedura, che pure può ben essere considerata presupposto imprescindibile dell’esdebitazione da una semplice lettura del dato positivo (cfr., ad esempio, l’art. 280, comma 1, lett. c), c.c.i., a norma del quale il debitore deve fornire agli organi preposti “tutte le informazioni utili e i documenti necessari” per il buon andamento della procedura); è stato inoltre espunto il riferimento alla consegna della corrispondenza; infine l’280, comma 1, lett. d) ed e), c.c.i. dispone che il beneficio non possa essere erogato nel caso in cui il richiedente ne abbia già usufruito nel termine di cinque anni precedenti la scadenza del termine per l’esdebitazione e, in ogni caso, qualora il lo abbia già ottenuto per due volte.

Quanto alle principali differenze rispetto al passato viene in rilievo il disposto dell’art. 278 c.c.i., che da un lato estende la possibilità di richiedere il beneficio a tutte le categorie di debitori indicate dall’art. 1, comma 1, c.c.i. e dall’altro espressamente afferma la possibilità che a fruirne siano anche le società (o altri enti), purché le condizioni di cui all’art. 280 c.c.i. sussistano pure in capo ai soci illimitatamente responsabili ed ai legali rappresentanti (con riferimento agli ultimi tre anni anteriori alla domanda introduttiva di una procedura liquidatoria).

L’art. 279 c.c.i. disciplina invece le “condizioni temporali di accesso” prevedendo che il debitore ha diritto a conseguire il beneficio “decorsi tre anni dall’apertura della procedura di liquidazione o al momento della chiusura della procedura, se antecedente”.

Quanto al procedimento, l’art. 281 c.c.i. pone le seguenti principali novità: introduce espressamente un termine (di trenta giorni) per proporre reclamo avverso il decreto del tribunale; esplicita che “l’esdebitazione non ha effetti sui giudizi in corso e sulle operazioni liquidatorie, anche se posteriori alla chiusura della liquidazione giudiziale disposta a norma dell’articolo 234”; disciplina il caso in cui all’esito di tali giudizi e operazioni si abbia un maggior riparto in favore dei creditori, affermando che in tale evenienza il meccanismo esdebitatorio ha effetti “solo per la parte definitivamente non soddisfatta”.

Gli artt. 282 e 283 c.c.i. sono dedicate all’esdebitazione del sovraindebitamento, ossia quella situazione definita dall’art. 2, comma 1, lett. c), c.c.i. come “lo stato di crisi o di insolvenza del consumatore, del professionista, dell’imprenditore minore, dell’imprenditore agricolo, delle start-up innovative di cui al decreto-legge 18 ottobre 2012, n. 179, convertito, con modificazioni, dalla legge 17 dicembre 2012, n. 221, e di ogni altro debitore non assoggettabile alla liquidazione giudiziale ovvero a liquidazione coatta amministrativa o ad altre procedure liquidatorie previste dal codice civile o da leggi speciali per il caso di crisi o insolvenza”. Tale evenienze dà origine all’applicazione della procedura di liquidazione controllata del sovraindebitamento di cui agli artt. 268 ss. c.c.i.(che pare aver dunque sostituito la procedura di cui alla l. 3/2012): al riguardo è opportuno rilevare che gli artt. 282 e 283 c.c.i. introducono due istituti peculiari, ossia l’esdebitazione di diritto e l’esdebitazione del debitore incapiente, che potranno dunque operare solo con riferimento alle anzidette crisi d’impresa, caratterizzate da una (tendenziale) minor portata. La prima consiste in una esdebitazione ex lege ed automatica, che non richiede una pronuncia del giudice se non in seguito ad eventuali opposizioni. La seconda, invece, consente al “debitore persona fisica meritevole, che non sia in grado di offrire ai creditori alcuna utilità, diretta o indiretta, nemmeno in prospettiva futura” di accedere comunque all’esdebitazione, senza automatismi e purché siano rispettate due condizioni: la possibilità è ammessa solo per una volta; è fatto salvo l’obbligo di pagare il debito entro quattro anni dall’emissione del decreto qualora sopravvengano “utilità rilevantiche consentano il soddisfacimento dei creditori in misura non inferiore al dieci per cento“.

A prescindere dalle – pur di p>novella. L’art. 1, comma 1, c.c.i., nell’ottica di una (per quanto possibile) unitaria disciplina delle crisi d’impresa afferma che “il presente codice disciplina le situazioni di crisi o insolvenza del debitore, sia esso consumatore o professionista, ovvero imprenditore che eserciti, anche non a fini di lucro, un’attività commerciale, artigiana o agricola, operando quale persona fisica, persona giuridica o altro ente collettivo, gruppo di imprese o società pubblica, con esclusione dello Stato e degli enti pubblici”; il prosieguo dell’articolo, per converso, fa salve, tra le altre, le disposizioni contenute nelle leggi speciali in materia di amministrazione straordinaria delle grandi imprese[20]. Si potrebbe allora presumere che, anche all’indomani dell’adozione del nuovo codice, l’istituto dell’esdebitazione non possa trovare applicazione al di fuori della liquidazione giudiziale o della liquidazione controllata.

Un dato, tuttavia, appare di decisiva importanza: l’art. 1, comma 2, lett. a), c.c.i., dopo aver fatto salva la disciplina vigente in tema di amministrazione straordinaria delle grandi imprese prevede che “se la crisi o l’insolvenza di dette imprese non sono disciplinate in via esclusiva, restano applicabili anche le procedure ordinarie regolate dal presente codice”. Considerato il tenore letterale di tale disposizione e l’affermazione, generalmente condivisa, per cui il nuovo codice abbia tra i propri criteri ispiratori quello di una differente visione delle crisi d’impresa nonché quello di provvedere ad una razionalizzazione del sistema ed ad una sua riconduzione ad unità (pur nel rispetto delle esigenze specifiche), pare potersi concordare con chi ritiene che il legislatore abbia previsto l’applicazione dei principi generali del codice ad ogni fattispecie di dissesto, purché compatibili con le discipline speciali[21]. Una soluzione, questa, che potrebbe interessare anche l’istituto oggetto della pronuncia del Tribunale di Torino, così consentendo un’applicazione più lata dello strumento esdebitatorio, in linea con il mutato quadro di riferimento in termini non solo tecnico-giuridici, ma anche socio-culturali.

[19] Pur con i necessari adattamenti terminologici. In particolare, ai sensi dell’art. 278, comma 1, c.c.i., l’esdebitazione “consiste nella liberazione dai debiti e comporta la inesigibilità dal debitore dei crediti rimasti insoddisfatti nell’ambito di una procedura concorsuale che prevede la liquidazione dei beni”.

[20] Al riguardo si v. l’art. 350 c.c.i., che si limita ad operare alcune modifiche al d.lgs. 270/1999 per armonizzarne la disciplina in termini di competenza territoriale.

[21] Si v. ad esempio la Relazione illustrativa redatta dall’Osservatorio sulle crisi di impresa in data 2 ottobre 2018, consultabile liberamente in www.osservatorio-oci.org.

Redazione

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