Dopo Mirafiori, verso il dualistico renano?

Scafidi Andrea 16/02/12
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Nel 2003 il legislatore, introducendo in Italia (in via opzionale) il sistema dualistico di amministrazione e controllo della società per azioni, ha precisato di aver tratto ispirazione dalla disciplina comunitaria della Società Europea (SE), oltre che dalle esperienze di vari paesi che adottano forme più o meno simili di “governance duale”. Il riferimento storicamente più importante resta, in ogni caso – in ragione della sua diffusione e rilevanza socio-economica – il sistema tedesco o “renano” di disciplina della società per azioni (Aktiengesellschaft). Vale dunque la pena fare alcune riflessioni comparative con il dualistico italiano, onde comprendere quali peculiarità e potenzialità tipiche del modello caratterizzato dalla più significativa esperienza applicativa in Europa sono state recepite, ed in che misura.

Separazione tra proprietà e potere, nonché giustizia sociale

Come in Germania, il modello dualistico di cui agli artt. 2409-octies e ss. del nostro codice civile ricalca in linea di principio lo schema del two-tier system, mirante a perseguire l’obiettivo della separazione tra proprietà e potere all’interno della S.p.A. Tale assetto prevede l’interposizione tra i soci (Assemblea) e gli amministratori (il Consiglio di Gestione, corrispettivo del Vorstand tedesco) di un organo di controllo (il Consiglio di Sorveglianza, Aufsichtsrat in Germania), in capo al quale alle “tradizionali” competenze di vigilanza sulla gestione dell’impresa si assommano quelle di nomina e revoca degli amministratori, di approvazione del bilancio e di esercizio dell’azione di responsabilità nei confronti dei membri del Consiglio di Gestione, oltre ad alcune funzioni di supervisione strategica di possibile attribuzione statutaria. La separazione tra proprietà e potere nell’ambito delle relazioni tra organi di governance, realizzata molto incisivamente nel sistema tedesco, lo è meno in Italia.

Nell’ordinamento tedesco, peraltro, il sistema dualistico è da lungo tempo utilizzato anche allo scopo di perseguire obiettivi di carattere latu sensu sociale. Esso è infatti il terreno sul quale si innesta l’applicazione dell’istituto della “codecisione a livello di impresa” (Mitbestimmung auf Unternehmensebene), vale a dire della rappresentanza dei dipendenti negli organi di governance della società.

La Mitbestimmung realizza una soluzione di compromesso fra le istanze delle diverse classi sociali in un contesto fortemente industrializzato come quello tedesco, attraverso una pragmatica mediazione fra proprietà e lavoro, obiettivi del capitalismo e giustizia sociale, principi della massimizzazione del profitto e protezione di una serie diritti ed interessi dei dipendenti: alla sicurezza del posto di lavoro, a migliori condizioni di prestazione della propria opera, e così via.

Ma come funziona in pratica la Mitbestimmung? Essa va innanzitutto tenuta distinta dall’analoga forma di compartecipazione dei lavoratori che si esplica all’interno delle varie unità aziendali, mediante il riconoscimento di diritti di rappresentanza ed informativa sulla gestione del personale in seno al c.d. Consiglio di Azienda (Betriebsrat).

La codecisione capitale-lavoro viene da lontano

La codecisione a livello di impresa, in applicazione della quale i rappresentanti dei lavoratori partecipano in varie proporzioni alla composizione del Consiglio di Sorveglianza, si è sviluppata in Germania sin dagli anni ’20 del Novecento ed è attualmente regolamentata da una serie di leggi speciali, per effetto delle quali nelle società che impiegano da 500 a 2000 lavoratori un terzo del Consiglio di Sorveglianza è eletto tra i rappresentanti dei lavoratori e due terzi fra i rappresentanti degli azionisti; per contro, le imprese di maggiori dimensioni sono soggette ad una disciplina più stringente, che impone il principio della pariteticità tra rappresentanti di lavoratori ed azionisti, salvo il voto prevalente del Presidente, il quale è solitamente espressione della proprietà.

L’intenso dibattito a livello politico, economico ed imprenditoriale che da tempo, in Germania, investe la Mitbestimmung sfocia periodicamente in riflessioni su possibili riforme per la rivisitazione del sistema attuale.

Alcuni osservatori ne individuano un punto debole nel ruolo “frenante” verso gli investimenti esteri nel paese. Altri puntano il dito sul complesso sistema di interrelazioni tra management e sindacati generato dalla Mitbestimmung, che ha fatto registrare negli anni scorsi alcuni gravi – sebbene inconsueti – casi di corruzione in primarie aziende tedesche, allorché la dirigenza è caduta nella tentazione di “comprare” il consenso dei sindacati su scelte aziendali importanti.

In ogni caso i datori di lavoro tedeschi, pur evidenziando i costi rilevanti del sistema della compartecipazione ed i connessi rischi di eccessiva burocratizzazione dei rapporti sociali, ritengono generalmente che certi aspetti critici della Mitbestimmung rappresentino per l’impresa un prezzo da pagare tutto sommato ragionevole, a fronte degli indubbi benefici legati ad un maggiore grado di responsabilizzazione dei lavoratori derivante da un loro coinvolgimento “informato” nella gestione aziendale, con ricadute virtuose in termini di crescita della produttività, della competitività e dei salari, diminuzione del tasso di turnover, maggiore motivazione dei dipendenti e formazione della forza lavoro a livelli eccellenti.

Insomma, il sistema dualistico tedesco, per effetto dell’operatività della Mitbestimmung, è un modello economico e sociale insieme, come tale espressione di una particolare economia di mercato (Soziale Marktwirtschaft) che privilegia le decisioni consensuali a scapito del conflitto aperto. D’altra parte, possiamo credere che l’accordo stipulato anni fa tra la dirigenza ed i lavoratori della Volkswagen relativamente all’incremento dell’orario di lavoro senza aumento salariale sarebbe stato possibile, in Germania, senza la Mitbestimmung? Le recentissime vicende in cui, in Italia, è incorsa la Fiat nell’ambito dell’assai faticosa approvazione del piano industriale per il rilancio dello stabilimento di Mirafiori (coinvolgente tematiche analoghe a quelle oggetto dell’accordo Volkswagen) non fanno che confermare questa impressione.

Il dualistico all’italiana

In Italia il sistema dualistico è stato recepito dal legislatore senza alcun accenno alla possibilità di attuare forme di compartecipazione dei lavoratori alla gestione equiparabili alla cogestione di matrice tedesca. L’art. 46 Cost. recita: “Ai fini della elevazione economica e sociale del lavoro e in armonia con le esigenze della produzione, la Repubblica riconosce il diritto dei lavoratori a collaborare, nei modi e nei limiti stabiliti dalla legge, alla gestione delle aziende”. Ci si chiede: il varo del modello dualistico nel nostro paese poteva forse rappresentare una buona occasione per dare finalmente piena attuazione a tale principio, mediante un adattamento della Mitbestimmung al contesto di governance della S.p.A.? Forse sì, a prescindere dai dubbi sull’adeguatezza del dettato della citata disposizione costituzionale a richiamare un modello di reale compartecipazione alla tedesca. Tuttavia, così non è stato.

Un’indicazione generale circa l’approccio adottato dal nostro legislatore si rinviene nella stessa disciplina degli organi della governance duale contenuta nel codice civile, ai sensi della quale (art. 2409-duodecies, comma X, lett. c), cod. civ.) non possono essere eletti alla carica di consiglieri di sorveglianza “coloro che sono legati alla società o alle società da queste controllate o a quelle sottoposte a comune controllo da un rapporto di lavoro o da un rapporto continuativo di consulenza o di prestazione d’opera retribuita che ne compromettano l’indipendenza”. La dottrina maggioritaria attribuisce alla disposizione appena citata il significato di precludere ai lavoratori dipendenti l’accesso al Consiglio di Sorveglianza. Ciò sebbene la lettera della norma si presti anche un’interpretazione di segno contrario, che non appare peregrina, secondo cui l’inciso finale andrebbe applicato – oltre ai rapporti di consulenza e di prestazione d’opera retribuita – anche allo stesso rapporto di lavoro, con il risultato della possibile designazione del dipendente alla carica di consigliere di sorveglianza qualora, nel caso specifico, la sua posizione non ne comprometta l’indipendenza.

D’altra parte, non sembra neppure da escludersi una lettura della disposizione in questione che – preso atto della pratica difficoltà di ravvisare la necessaria indipendenza in capo ai lavoratori subordinati – lasci comunque spazio alla partecipazione all’organo di controllo del dualistico dei “rappresentanti” di tali lavoratori, intesi come professionisti incaricati della tutela, in quella sede, delle istanze dei dipendenti aziendali ricollegabili alla gestione della società. A tale soluzione, peraltro, andrebbe in ogni caso fatta precedere la messa a punto di un corpus di regole tecniche volte a disciplinare le modalità concrete di tale partecipazione, come avviene in Germania con la normativa speciale di cui si è detto in precedenza.

In ogni caso, quali che siano gli effettivi spiragli ad oggi lasciati aperti dal nostro ordinamento all’introduzione di una qualche forma di partecipazione dei rappresentanti dei lavoratori nell’organo di controllo, va precisato che la struttura del sistema dualistico italiano presenta notevoli elementi di divergenza da quello tedesco a prescindere dall’assenza in Italia di una disciplina della codecisione.

Come si è già accennato, infatti, se il principale scopo dell’introduzione nel nostro ordinamento del sistema duale nel 2003 era – in linea con il modello tedesco – quello di tracciare una più netta linea di demarcazione tra proprietà e potere nell’ambito del governo societario, tale obiettivo può dirsi in buona parte disatteso, o quanto meno annacquato, soprattutto a seguito dei ritocchi alla disciplina intervenuti con i “decreti correttivi” del 2004. In effetti, il cordone sanitario che dovrebbe garantire il mantenimento della giusta distanza tra la sfera di competenza degli azionisti di controllo e quella del Consiglio di Sorveglianza risulta, nei fatti, incerto ed evanescente, per effetto dell’operare di una serie di ingranaggi normativi che contribuiscono a modellare il Consiglio di Sorveglianza come terzo livello di gestione e controllo societario, espressione – al pari dell’assemblea e del Consiglio di Gestione – del socio o della coalizione di maggioranza (basti pensare alla libera revocabilità dei consiglieri di sorveglianza da parte dell’assemblea, seppur con una votazione a maggioranza rinforzata, oltre al riconoscimento dell’ammissibilità della candidatura alla carica in questione da parte dell’azionista di controllo, a seguito dell’espunzione dall’elenco delle cause di ineleggibilità del riferimento agli “altri rapporti di natura patrimoniale che ne compromettano l’indipendenza“).

Peraltro la configurazione appena descritta – in ciò differenziandosi una volta di più dal modello tedesco – non trova nella struttura del Consiglio di Gestione quel contrappeso che nella Aktiengesellschaft è garantito dall’essere tale organo la sede elettiva del top management aziendale: laddove, nel nostro ordinamento, esso è caratterizzato da composizione e modalità di funzionamento sostanzialmente assimilabili a quelli dell’organo amministrativo tradizionale, seppur con qualche correttivo.

Infine, a margine di quanto appena esposto, non dimentichiamo che le modalità con cui il modello dualistico è stato tradotto in pratica in Italia, nel corso dei suoi primi anni di vita (in prevalenza in occasione di aggregazioni bancarie ed ai fini della distribuzione di poltrone in grosse società partecipate pubbliche) ne hanno spesso accentuato le contraddizioni ed evidenziato alcune criticità applicative, asservendolo a finalità contingenti e distorte rispetto a quelle per cui era stato originariamente pensato.

Insomma, il sistema dualistico di gestione della S.p.A. italiana, nella sua versione vigente, appare per molti aspetti assai distante da quello tedesco, sia sotto il profilo operativo, sia – più significativamente – nella filosofia di fondo. In tale contesto, la scelta del nostro legislatore di non introdurre al suo interno l’elemento della cogestione rappresenta soltanto uno dei fattori di scostamento dal modello originale, per certi versi neppure il più eclatante o controverso.

Tornando a riflettere su tale scelta, essa è probabilmente da ricondursi ad una valutazione di tipo pragmatico, in base alla quale si è ritenuta la Mitbestimmung non confacente al sistema italiano delle relazioni industriali, in linea con un certo scetticismo degli interpreti e soprattutto con la tradizionale, quasi unanime ostilità del mondo politico e sindacale, aduso all’impostazione dei rapporti tra datori di lavoro e rappresentanti dei dipendenti nei termini conflittuali della lotta di classe, piuttosto che in forma di collaborazione tra le parti sociali.

Su posizioni compattamente contrarie alla Mitbestimmung si attesta nel nostro paese il fronte dell’imprenditoria, di Confindustria e dei liberali classici, i quali intravedono nell’istituto un espediente per scaricare sui datori di lavoro i costi della pace sociale, dell’aumento dei salari e della produttività. Tale ostilità trova tradizionalmente una sponda nella posizione dei sindacati più radicali, come la CGIL, i quali hanno da sempre avversato forme di contaminazione fra capitale e lavoro, opponendo – salvo sparute voci fuori dal coro – un fermo niet alla proposta riformista ed assegnando un ruolo di controllo della discrezionalità manageriale allo strumento della contrattazione collettiva.

Diversa è la linea (minoritaria) di altri sindacati quali CISL, UIL e UGL, i quali a varie riprese si sono dichiarati aperti alla proposta di introduzione nel sistema socio-economico italiano di istituti di democrazia industriale, che possano fornire strumenti utili ad allentare il conflitto storico tra capitale e lavoro e sfumare la divisione verticale che da anni oramai attraversa l’Italia, impedendone un reale avanzamento culturale ed economico.

Il progetto legislativo di Pietro Ichino

All’inizio della legislatura in corso sono stati presentati al Senato due disegni di legge in materia di compartecipazione, uno recante la prima firma del sen. Maurizio Castro (Pdl) e uno con la prima firma del sen. Tiziano Treu (Pd), cui ne hanno fatto seguito altri due: il primo dei senatori Anna Bonfrisco e Francesco Casoli (Pdl) ed il secondo del sen. Benedetto Adragna (Pd). Il sen. Ichino, in qualità di relatore su tali progetti, ha redatto su incarico congiunto di maggioranza ed opposizione una bozza di testo legislativo, mirante ad individuare una possibile soluzione “bipartisan“.

La proposta del senatore Ichino prevede la possibilità per le società italiane di stipulare con le organizzazioni sindacali contratti collettivi su base aziendale, volti ad istituire – fra l’altro – forme di partecipazione e coinvolgimento dei lavoratori nell’andamento dell’impresa: così riprendendo in qualche modo l’istituto della Mitbestimmung e mettendo i lavoratori nella condizione di prendere parte alla gestione societaria, con rappresentanza negli organi di amministrazione e controllo, sempre che la codecisione sia previamente accettata in via negoziale dalle parti sociali.

I contenuti della proposta, peraltro, hanno alcuni riflessi sul più ampio dibattito intorno alla stessa natura ed ampiezza dei poteri del Consiglio di Sorveglianza nel dualistico italiano, in quanto i menzionati accordi potrebbero conferire ai rappresentanti dei lavoratori poteri di informativa e di voto persino su temi definiti di “alta amministrazione” della società, come le scelte strategiche ed i piani industriali e finanziari dell’azienda.

Le proposte del testo del senatore Ichino sono fedeli al principio largamente condiviso che, qualora una forma di partecipazione alla governance debba essere promossa in Italia, ciò dovrà necessariamente avvenire “dal basso”, sulla base di una scelta volontaria e negoziale dei soggetti coinvolti nelle relazioni industriali. Al contrario, come si è visto, la Mitbestimmungsgesetz tedesca, ispirata da una forte e radicata cultura di cogestione, prevede semplicemente ed obbligatoriamente che tutte le imprese organizzate sotto forma di società di capitali – ed altre – che impieghino un numero di dipendenti superiore ad una certa soglia siano soggette allo statuto compartecipativo.

Si vedrà quale sarà l’esito dell’iter legislativo del progetto di legge unificato in questione. In ogni caso, la soluzione ivi prospettata appare improntata ad un riformismo graduale e rimesso alla autonomia negoziale, nell’ottica di una valutazione in via sperimentale della reale appetibilità di un sistema ancora piuttosto alieno alla cultura industriale italiana.

In termini più generali, le non trascurabili differenze tra il tessuto economico ed industriale tedesco e quello italiano inducono ad ipotizzare l’applicazione nel nostro paese di una “Mitbestimmung all’italiana” secondo uno schema che privilegi dapprima, nei limiti e nelle forme che si ritengano più opportuni, quelle società di capitali caratterizzate da un significativo numero di addetti e maggiormente interessate da problematiche di delocalizzazione, proprietà estera, latenti conflitti di interessi ed aspri confronti fra sindacati dei lavoratori e proprietà. A questa prima fase potrebbero poi seguire ulteriori applicazioni per realtà diverse.

Nell’ambito dello scenario appena descritto, il tema della compartecipazione dei lavoratori alla gestione potrà trovare spazi di utile sovrapposizione con il diverso modello della c.d. partecipazione agli utili dell’impresa, che com’è noto si basa – se il socio di maggioranza così decide in sede di assemblea straordinaria – sull’eventuale titolarità da parte del dipendente di speciali categorie di azioni oppure di altri “strumenti finanziari partecipativi”, suscettibili di dotare il possessore (oltre che di diritti patrimoniali) anche di diritti amministrativi.

Tale modello prevede una forma di controllo sulla gestione da parte del dipendente-socio soltanto eventuale e remota, che – è evidente – nulla ha di per sé a che vedere con il potere di cogestione attribuito ai lavoratori dalla legge tedesca, trattandosi di una partecipazione all’impresa su base strettamente individuale, senza possibilità di aggregazione in base alle norme in vigore.

Ebbene, su questo versante una strada per promuovere reali forme di coinvolgimento dei dipendenti-azionisti nella gestione societaria potrebbe essere – come suggerito da alcuni osservatori – proprio quella di favorire forme di cogestione indiretta, fondate su modelli aggregativi di partecipazione dei lavoratori al capitale delle società finalizzati ad un coordinamento eteroguidato dell’azionariato aziendale diffuso, che si riveli in grado di condizionare in qualche misura certe decisioni strategiche dell’impresa. 1

1 NOTA: Articolo precedentemente pubblicato su La voce degli Indipendenti, periodico telematico dell’associazione degli amministratori indipendenti Nedcommunity – Non Executive Directors’ Community, n. 7/2011.

Scafidi Andrea

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