Divieto del patto commissorio e alienazione a scopo di garanzia

Redazione 19/02/04
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di Valentina Amelia Maria Balbo

Premessa

L’art. 2744 c.c., rubricato “divieto del patto commissorio”, vieta le pattuizioni in cui, in caso di inadempimento del credito garantito, si conviene che la cosa data in pegno o in ipoteca passi in proprietà del creditore.

Il principio espresso da questa disposizione è poi ribadito dal legislatore, con riferimento al contratto di anticresi, nell’art. 1963, norma che contiene il divieto del patto che sancisce, in caso di inadempimento del debito, il passaggio della proprietà dell’immobile del debitore o del terzo al creditore, immobile consegnato perché il creditore ne percepisca i frutti e li imputi agli interessi e al capitale.

La norma in esame (e di riflesso anche l’art. 1963) è una delle norme su cui maggiormente si è attagliato il dibattito dottrinario e giurisprudenziale degli ultimi tempi, non solo perché numerosi nodi interpretativi sorgono in relazione al suo stesso fondamento, ma anche per la necessità di operare una reductio ad unum del suo disposto con numerosi altri istituti presenti nel sistema civilistico (si pensi ad es. agli artt. 1500 e ss. del c.c. che disciplinano la c.d. vendita con patto di riscatto e agli artt. 1523 e ss. del c.c. che disciplinano la vendita con riserva di proprietà).

E si tratta di problemi esegetici di non poco conto e che non si attestano su un piano meramente dogmatico e speculativo, ma la cui soluzione si riflette poi sulla stessa soluzione di numerosi casi pratici, soprattutto a fronte di una prassi contrattualistica fortemente tesa all’elusione del divieto attraverso combinazioni negoziali assolutamente inimmaginabili per il legislatore del 1942.

Quello della ricerca di soluzione pratiche alternative per aggirare l’ostacolo dell’art. 2744 c.c. è, infatti, un problema ben noto alla dottrina e alla giurisprudenza che nel fissare i confini della norma, fissano anche i confini tra lecito e illecito in una materia dove frequentemente la posizione del creditore (e in particolare degli istituti bancari) consente l’imposizione al debitore di regolamenti contrattuali ai limiti della liceità.

La ratio dell’art. 2744

Come accennato, già sulla stessa ratio della norma si registrano le oscillazioni di dottrina e giurisprudenza e questo è un problema di non poco momento, se si tiene conto del fatto che è alla luce della ragione giustificativa che si vuole individuare a fondamento dell’art. 2744 c.c. che vanno poi risolti i problemi di natura pratica: se una determinata operazione negoziale, nella sua valutazione complessiva, è diretta a violare la ratio che sta alla base del divieto del patto commissorio, allora si può agevolmente concludere che si tratta di una operazione compiuta in spregio a tale divieto e pertanto nulla e improduttiva di effetti.

Secondo l’impostazione tradizionale il divieto del patto commissorio è espressamente sancito a tutela dell’interesse di quella che tradizionalmente viene considerata la parte debole del rapporto obbligatorio, i.e. il debitore, affinché questo soggetto, trovandosi in una situazione di coazione morale nei confronti del creditore , non subisca gli effetti di quella coazione e accondiscenda a sottostare all’altrui volontà, accettando il trasferimento in proprietà al creditore del bene ipotecato o dato in pegno in caso di mancato adempimento del debito[1].

Seguendo questa impostazione la giurisprudenza[2] ha talora accostato la posizione del debitore nel patto commissorio a quella del contraente legittimato all’azione generale di rescissione del contratto per lesione con la precisazione, a volerne marcare le differenze, che, mentre ai sensi dell’art. 1448 c.c., gli effetti della subalternità si producono sempre al momento della conclusione del contratto, nel patto commissorio, invece, gli effetti pregiudizievoli sono, da un lato, eventuali perché si producono solo in caso di inadempimento dell’obbligazione garantita e, dall’altro, successivi alla conclusione del patto.

Alla ricostruzione tradizionale si obietta, tuttavia, che l’impostazione in termini di tutela dell’interesse del debitore urterebbe contro lo stesso dettato dell’articolo in esame che sancisce la nullità di tali patti anche se posteriori alla costituzione della garanzia reale: sarebbero, pertanto, nulli anche i patti commissori stipulati in un momento successivo all’assunzione dell’obbligazione e alla concessione del credito, momento in cui, secondo la tesi tradizionale, il debitore sarebbe maggiormente “vulnerabile” alle richieste del creditore.

La ratio prospettata, insomma, sarebbe in chiaro contrasto con il dettato della stessa norma che vuole spiegare.

Ecco perché altra parte della dottrina e della giurisprudenza hanno inteso ricostruire il motivo di fondo dell’art. 2744 c.c. in termini di tutela dei creditori ed, in particolare, della par condicio creditorum, visto che l’attribuzione definitiva ed esclusiva del bene oggetto di pegno o di ipoteca ad un solo creditore, potrebbe, nel caso in cui il valore della res superi l’ammontare del credito, frodare l’interesse degli altri creditori a rivalersi in via sussidiaria sull’eccedenza.[3]

Si è anche osservato che la liceità del patto commissorio, consentendo forme di soddisfazione dei crediti in via autonoma, contrasterebbe con l’attribuzione esclusiva dell’azione esecutiva allo Stato.[4]

Tale ricostruzione sarebbe, secondo i suoi fautori, perfettamente in linea con il disposto della norma che sancisce la nullità del patto commissorio.

Altra parte della dottrina, poi, movendosi nella stessa ottica della tutela della par condicio creditorum ha ritenuto che il divieto fosse posto a presidio del divieto di cumulo della garanzia generica ex art. 2740 c.c. e di quella specifica derivante dal pegno o dall’ipoteca, visto che nulla impedirebbe al creditore fortemente tutelato da un eventuale patto commissorio di aggredire, dopo essersi appropriato della res, il restante patrimonio del debitore.[5]

Il divieto di cumulo della garanzia specifica e generica sarebbe inoltre desunto dal dettato dell’art. 2911 c.c. che vieta al creditore, che ha un pegno o una ipoteca sui beni del debitore, di pignorarne altri senza aver prima sottoposto ad esecuzione i beni gravati dalla garanzia reale.

Nell’ambito di questa ricostruzione, poi, la giurisprudenza[6] ha sottolineato che il divieto dell’art. 2744 c.c. prescinde dalla ricorrenza di un pregiudizio del debitore e pertanto non si deve necessariamente registrare la sproporzione tra il valore del bene dato in garanzia e l’importo del debito.

Passando, poi, ad esaminare le applicazioni pratiche del divieto attuate dalla giurisprudenza, va preliminarmente sottolineato come più volte la Cassazione abbia ribadito l’applicabilità dell’art. 2744 c.c., non solo a qualsiasi negozio[7] , ma anche alle ipotesi di collegamento negoziale[8], purché il trasferimento del bene non integri in realtà gli estremi di una datio in solutum, successiva alla nascita dell’obbligazione e volta, invece, a soddisfare un precedente debito, appunto, rimasto insoluto[9], mostrando così di avere a cura la tutela del debitore.

Altre volte, invece, la Cassazione, trovandosi di fronte a fattispecie particolari, ha utilizzato il criterio della tutela dei creditori escludendo la violazione del divieto in esame ogni qual volta risultasse esclusa la lesione delle ragioni degli altri creditori[10].

Alienazione a scopo di garanzia

Nell’ambito della prassi negoziale volta alla indiretta elusione del dettato dell’art. 2744 c.c., norma considerata unanimemente a carattere imperativo, vanno segnalate per importanza e diffusione le c.d. alienazioni a scopo di garanzia.

Si tratta, in particolare, di ipotesi realizzate attraverso gli strumenti normativi predisposti dal codice civile come ad es. quelli della vendita con patto di riscatto o di retrovendendo (artt. 1500 ss. c.c.) e della vendita con riserva di proprietà (artt.1523 ss. c.c.), negozi leciti sic et simpliciter e nei limiti della normativa per essi predisposta dal legislatore del 1942, ma usati per aggirare il divieto del patto commissorio ogni qual volta la vendita del bene mascheri, in realtà, la volontà di attribuire il bene in maniera definitiva al creditore al solo verificarsi dell’inadempimento di un debito.

Un simile effetto potrà ad esempio essere ottenuto attraverso un contratto di compravendita di un bene in cui l’acquisto sia condizionato risolutivamente all’adempimento del venditore o ancora nel caso in cui il riscatto del bene venduto sia subordinato, non tanto alla restituzione del prezzo o dei rimborsi ex art. 1500 c.c., quanto piuttosto alla restituzione di una somma ricevuta a mutuo con palese violazione dell’art. 2744 c.c.

In quest’ultima ipotesi, invero abbastanza frequente nella prassi, le parti, per evitare di incorrere nella sanzione della nullità dei patti che sanciscono la restituzione di un prezzo superiore a quello stipulato per la vendita ex art. 1500, capoverso c.c., stabiliscono già al momento della conclusione del contratto un prezzo del bene che sarà equivalente alla somma ricevuta a mutuo, maggiorato di spese ed interessi dovuti fino al termine per l’esercizio del riscatto.

Secondo la giurisprudenza prevalente la vendita a scopo di garanzia si verrebbe a configurare come un negozio volto ad eludere l’applicazione della norma imperativa di cui all’art. 2744 c.c. e, in quanto contratto in frode alla legge, nullo ex art. 1344 c.c.[11] Tuttavia non sono mancati, specie in passato, interventi in cui la Suprema Corte ha ritenuto non assimilabile al patto commissorio la vendita con patto di riscatto, anche se stipulata a scopo di garanzia, basandosi sull’immediato trasferimento del bene ex art. 1376 c.c. a seguito del semplice consenso prestato dalle parti, che farebbe configurare in pieno la causa traslativa, relegando la causa di garanzia in secondo piano, visto che il riacquisto del bene da parte del debitore prescinde da qualsiasi incidenza sull’effetto reale della vendita[12].

Secondo un’opinione corrente in dottrina la formula utilizzata dalla giurisprudenza prevalente, sarebbe troppo vaga e contrasterebbe con lo schema previsto dall’art. 1548 c.c. .

Si tratta del contratto di riporto, contratto con il quale una parte trasferisce in proprietà all’altra un tantum di titoli di credito di una determinata specie e per un determinato prezzo e l’altra parte si obbliga a ritrasferirgli ad una certa data il tantundem dei titoli di credito di quella specie a fronte del rimborso del prezzo eventualmente maggiorato o diminuito.

Si è osservato che si tratta di uno schema che, seppure molto vicino a quello della vendita con riscatto in garanzia, è tuttavia predisposto dallo stesso legislatore e non a caso frequentemente utilizzato nella prassi commerciale per assicurare garanzie in sede di finanziamento.

Secondo l’impostazione in esame, pertanto, la validità delle alienazioni in garanzia non dovrebbe essere esclusa a priori sulla base del semplice dettato dell’art. 2744 c.c., eventualmente anche attraverso il richiamo dell’art. 1344: semmai andrebbe condotta una valutazione delle singole operazioni negoziali sul piano della causa in concreto, sicuramente illecita ex art. 1343 c.c. (con conseguente nullità del contratto ex art. 1418, 2° comma c.c.) ogni qual volta le parti hanno voluto costituire una garanzia che permette al debitore di lucrare indebitamente in caso di inadempimento, essendo, tra l’altro, questa la ratio ultima dell’art. 2744 che è posto a tutela delle ragioni dei creditori e non dell’interesse del debitore secondo l’impostazione prevalente in dottrina (ma non in giurisprudenza dove il punto è, come abbiamo visto, controverso

Bisogna infine ricordare che l’aggiramento del patto commissorio è configurabile anche attraverso lo schema di un mandato irrevocabile a vendere un bene conferito al creditore a garanzia dell’adempimento dell’obbligazione e senza obbligo di rendiconto

Va tuttavia segnalato come, coerentemente, la giurisprudenza abbia escluso l’applicabilità dell’art. 2744 c.c. ogni qual volta il mandato abbia lo specifico scopo di soddisfare con il ricavato i creditori in genere del debitore[13].

Sale and lease back

Variazione possibile del contratto di leasing è quella che da origine al c.d. sale and lease back ovvero locazione finanziaria di ritorno.

In tal caso l’imprenditore vende alla società finanziaria di leasing un bene di sua proprietà che poi quest’ultima gli concederà in leasing.

In questo modo l’imprenditore, alienando il bene, si procura una liquidità di cui ha evidentemente bisogno, ma mantiene il godimento del bene e può anche riacquistarne la proprietà al termine del contratto, esercitando l’opzione.

Si tratta di un contratto che, secondo la giurisprudenza, pur potendo, come qualsiasi altro contratto, essere impiegato per scopo illeciti e fraudolenti (e in particolare ai fini della elusione del divieto di patto commissorio) non realizza la suddetta violazione in re ipsa, ma solo se, per le circostanze del caso concreto (difficoltà economiche dell’impresa venditrice legittimanti il sospetto di un approfittamento della sua condizione di debolezza: sproporzione tra il valore del bene trasferito e il corrispettivo versato dall’acquirente che confermi la validità di tale sospetto) l’operazione si atteggi in modo da perseguire un risultato configgente con il divieto sancito dall’art. 2744c.c.[14]

Note:
[1] S.C. 4064/1995.

[2] S.C. 1848/1967.

[3] S.C. 736/1977.

[4] F. Gazzoni, Manuale di diritto privato, Napoli 2001, pag. 641.

[5] L. Barbiera, La responsabilità patrimoniale, CS,1991.

[6] S.C. 736/1977.

[7] S.C. 1233/1997.

[8] S.C. 11638/1991.

[9] S.C. 7585/2001.

[10] S.C.13708/1999.

[11] S.C. Sezioni Unite 1611/1989.

[12] S.C. 7385/1986.

[13] S.C.13708/1999.

[14]S.C. 4095/1998.

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