Disciplina dell’efficacia della legge penale nel tempo

Calabrò Arles 21/03/17
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Disciplina dell’efficacia della legge penale nel tempo: fondamento normativo, distinzione delle ipotesi di “abolitio criminis” e “abrogatio sine abolitione” e successione delle leggi penali processuali, con particolare riferimento alle misure cautelari personali.

 

La tematica dell’efficacia della legge penale nel tempo, dal punto di vista dogmatico ed operativo, si presenta ricchissima di profili problematici di ampio spessore che da sempre hanno animato vivaci dibattiti dottrinali e contrasti giurisprudenziali. Diverse, pertanto, le prospettazioni che si sono affacciate sullo scenario dell’ermeneutica penalistica.

Ai fini della disamina di tali ricostruzioni, è opportuno distinguere tra leggi penali sostanziali e norme processuali e, di conseguenza, è necessario tracciare una netta linea di demarcazione tra i principi enucleati dall’art. 2 c.p. e, sul versante processuale, il canone proclamato dall’art 11, preleggi.

I principi summenzionati, discendenti dal diritto sostanziale, trovano il proprio ancoraggio costituzionale di disciplina, in primis, nell’art. 25 della carta fondamentale e, quindi, nel principio d’ irretroattvità della norma penale.

Quest’ultimo è enunciato, altresì, dall’art 7 CEDU, dal Patto internazionale per i diritti civili e politici stipulato a New York e ratificato anche dal nostro Paese, dal Trattato sul Funzionamento dell’Unione Europea, nonché, sul versante codicistico, dall’art 2, comma 1, c.p.

Alla stregua di tale ultima disposizione, nessuno può essere punito per un fatto che, secondo la legge del tempo in cui fu commesso, non costituiva reato.

Secondo l’impostazione maggioritaria, il canone d’irretroattività della norma penale non riguarda solo le leggi ordinarie (nonché i decreti legge, o i decreti legislativi), ma concerne, altresì, le fonti normative secondarie integrative del precetto penale: si pensi, a tal proposito, alle norme penali in bianco il cui comando, nei limiti e secondo le modalità predefinite dalla legge, viene generalmente integrato da un successivo regolamento o provvedimento amministrativo. Anche in relazione a tali fonti normative secondarie o provvedimentali, quindi, trova applicazione la regola dell’irretroattività della norma penale, non potendosi applicare gli stessi atti da ultimo citati a fatti antecedenti la loro entrata in vigore.

Il fondamento del canone in esame è tradizionalmente individuato nella necessità di garantire la libertà dei consociati da eventuali arbitri di potere da parte del potere giudiziario ed è intimamente connesso ad una visione strettamente personalistica della colpevolezza. Non pare potersi revocare in dubbio, infatti, come, ai fini della configurabilità della responsabilità penale, occorra muovere un giudizio di rimproverabilità nei confronti del soggetto agente. Laddove quest’ultimo non versi in una situazione di dolo o di colpa, rispetto a determinate condotte da egli poste in essere, allora, in tale circostanza, non si può pretendere di muovere, nei suoi confronti, un giudizio di rimproverabilità penale.

Dalle riflessioni dianzi svolte è facile dedurre come nel nostro ordinamento vi sia un’intima connessione e interrelazione tra il principio dell’irretroattività della norma penale e i canoni della colpevolezza (art 27, c. 1, Cost.), della funzione rieducativa della pena (art. 27, c. 3, Cost.) e della materialità (art . 25, c. 2, Cost).

Preme ribadire (anche se si avrà modo di tornare più approfonditamente sull’argomento) che il principio in esame, secondo l’impostazione tradizionale, può trovare applicazione solo in relazione agli istituti di diritto sostanziale e non anche in riferimento alle misure di sicurezza, ovvero alle norma processuali.

Nell’ambito del codice penale, in riferimento alla tematica che ci occupa, un ulteriore principio cardine del nostro ordinamento è rappresentato dal canone dell’ abolitio criminis.

Pur non trovando esplicita copertura costituzionale, è pacifico, nel panorama dottrinale e giurisprudenziale, come esso trovi un indiretto ancoraggio con la carta fondamentale mediante gli artt. 3 e 117. Sul versante codicistico, invece, esso è attratto nella sfera di disciplina di cui all’art. 2, c. 2, cp, a tenore del quale nessuno può essere punito per un fatto che, secondo una legge posteriore, non costituisce reato. Se vi è stata condanna, soggiunge la medesima disposizione, ne cessano l’esecuzione e gli effetti penali.

La ratio sottesa a tal disciplina affonda le sue radici nella necessità di evitare disparità di trattamento tra i consociati. Il legislatore, pertanto, si preoccupa di evitare che, per un medesimo identico fatto, taluni soggetti debbano essere puniti, mentre talaltri vadano esenti da responsabilità penale sol perché, per una determinata scelta di politica criminale, lo stesso fatto in un determinato momento storico era penalmente perseguibile, mentre, in una fase successiva, si è ritenuto di non doverlo più assoggettare a responsabilità penale.

Tale principio, come già accennato, è presidiato, altresì, dall’art 7 CEDU che, in base all’interpretazione fornita dalla stessa Corte Europea dei Diritti dell’Uomo, rappresenta la fonte normativa a cui, sul punto specifico, i Paese aderenti alla CEDU devono uniformarsi: osta alla disciplina dell’ abolitio criminis, enucleata dall’art. 7 CEDU, una norma (di rango primario o secondario) interna ai Paesi membri che ponga una deroga a tale principio. La stessa Consulta ha più volte precisato come solo il principio dell’abrogatio sine abolitione (di cui si darà conto in seguito) possa essere derogato dal legislatore, a differenza del canone di irretroattività della norma penale e del principio dell‘abolitio crimins, i quali, per converso, essendo, appunto, principi inderogabili, non ammettono alcuna eccezione e, quindi, all’atto della redazione della fattispecie penale, non consentono al normatore alcuna ponderazione comparativa tra le esigenze costituzionali presidiate da tali principi e ulteriori eventuali postulati tutelati dalla carta fondamentale.

Come dianzi anticipato, a tenore dell’articolo 2, comma 4, cp., se la legge del tempo in cui fu commesso il reato e le posteriori sono diverse, si applica quella le cui disposizioni sono più favorevoli al reo, salvo che sia stata pronunciata sentenza irrevocabile.

La norma introduce nel nostro ordinamento, oltre il principio della retroattività penale della norma più favorevole, anche il già rammentato canone sussumibile nel noto brocardo abrogatio sine abolitione.

Quest’ultimo principio è tutelato solo indirettamente dalla carta fondamentale (artt. 3 e 117 Cost) e, come sopra precisato, per eventuali esigenze di carattere costituzionale, può essere derogato dallo stesso legislatore. Ma, a tal fine, rileva la Consulta, è necessario che la deroga sia ragionevole, cioè che venga giustificata da esigenze di carattere primario, a pena di incostituzionalità della norma medesima, ex artt. 3 e 117 Cost. A mero titolo esemplificativo, si ponga mente, a tal proposito, alla disciplina introdotta dalla legge 251/2005, la quale, tra l’altro, disponeva che, se per l’effetto delle nuove disposizioni, i termini di prescrizione risultano essere più brevi, le stesse disposizioni si applicano ai procedimenti  e ai processi pendenti alla data di entrata in vigore della stessa legge, ad esclusione dei processi già pendenti in primo grado, ove sia stato dichiarato aperto il dibattimento, ovvero ad esclusione dei processi pendenti in appello ovvero in Cassazione. Non vi è dubbio come tale legge (nota come ex Cirielli) avesse l’intento di derogare alla regola della retroattività della norma penale più favorevole al reo, in riferimento a quei processi già pendenti nella fase dibattimentale in primo grado, ovvero pendenti in secondo o in ultimo grado. Ebbene, la Consulta ha riscontrato l’illegittimità costituzionale di tale disposizione legislativa (in relazione agli  artt. 3 e 117 Cost.) nella parte in cui essa derogava al principio in esame nell’eventualità in cui il procedimento pendesse in primo grado. Secondo la Corte Costituzionale tale deroga non era ragionevole, in quanto le esigenze che il legislatore intendeva tutelare con quella norma (cioè la preservazione delle attività processuali compiute durante la fase dibattimentale in primo grado) non potevano essere considerate di portata tale da consentire una deroga al principio in esame. E’ stato, per converso, rigettata la questione di illegittimità costituzionale della stessa legge laddove deroga al principio in esame in relazione ai procedimenti pendenti in appello o in Cassazione: in tali casi, rileva la Consulta, la deroga al principio di retroattività della norma più favorevole è ragionevole, quindi la legge non presenta, da tale punto di vista, alcuna censura di illegittimità costituzionale.

Come già si è avuto modo di anticipare nel corso della presente indagine, lo ius superveniens con effetti abrogativi delle norme penali consente di attivare lo strumento rimediale offerto dal legislatore mediante l’art 673 cpp, ma solo nelle ipotesi di abolitio criminis.

Tale ultima disposizione, infatti, statuisce che, nel caso di abrogazione o di dichiarazione di illegittimità costituzionale della norma incriminatrice, il giudice dell’esecuzione revoca la sentenza di condanna o il decreto penale di condanna dichiarando che il fatto non è previsto dalla legge come reato.

Giova precisare come l’attivazione di tale rimedio, proponibile a fronte di sentenze passate in giudicato, sia possibile solo allorché ci si trovi al cospetto di una legge sopravvenuta che abbia effettiva efficacia abrogativa del reato. Il giudicato, per converso, non è suscettibile di essere travolto nell’evenienza in cui lo ius superveniens abbia solo effetti favorevoli al reo, ma non abbia una portata abrogativa della norma penale incriminatrice.

Tale ultima ipotesi, invero, come già precisato, è attratta nell’orbita gravitazionale di cui all’art 2, comma 4, cp, ed è nota, nella letteratura penalistica, come abrogatio sine abolitione.

Tracciare una netta linea di demarcazione tra abolitio criminis e abrogatio sine abolitione diventa, allora, fondamentale: lungi dall’acquisire una valenza meramente definitoria o accademica, tale discrimine, a ben vedere, è foriera di conseguenze applicative di non poco momento. Basti pensare, appunto, come solo la prima ipotesi sia suscettibile di travolgere un’eventuale sentenza di condanna definitiva o un decreto penale passato in giudicato.

Al fine di addivenire a tale corretta distinzione dogmatica, nell’elaborazione accademica e giurisprudenziale, si son date vita a diverse teorie. Tra le più note figurano la teoria della “doppia punibilità in concreto”, della “continuità dell’illecito penale” e del “confronto strutturale tra le fattispecie astratte”.

La disamina analitica di tali tesi esula, per ovvie ragioni, dall’economia della presente analisi: si procederà, pertanto, ad illustrare, sia pur con un approccio estremamente sintetico, la più accreditata di tali ricostruzioni. Si allude alla teoria del confronto strutturale tra le fattispecie astratte.

I propugnatori di tale ricostruzione rilevano come, onde verificare se si sia al cospetto di un’ipotesi di abolitio criminis o di abrogatio sine abolitione, occorre confrontare la fattispecie astratta della norma antecedente con quella della norma sopravvenuta. Se tra le due fattispecie vi è un rapporto di species a genus (nel senso che la prima si atteggia come generale nei confronti della seconda, o viceversa), allora, in tale evenienza, si è compiuto un primo passo che conduce verso l’ipotesi di abrogatio sine abolitione. L’ulteriore passo successivo e definitivo è rappresentato dalla sussunzione del caso concreto nella fattispecie astratta delineata dalle due norme: ove la fattispecie concreta fosse effettivamente riconducibile nella sfera di disciplina di almeno una delle due fattispecie astratte, allora, si avrebbe questa ulteriore (necessaria) conferma che, effettivamente, si versa in una mera ipotesi di abrogatio sine abolitione, con conseguente impossibilità di attivare con successo il rimedio di cui all’art 673 cpp.  Occorre rilevare, però, come tale distinzione, sul piano squisitamente operativo, non sempre si sia rivelata di agevole soluzione: si volga lo sguardo, a mò di esempio, alla disciplina del falso in bilancio (così come novellata dalla legge 262/2005) o ancora al reato di bancarotta fraudolenta (art 223 R.D. 267/42), così come modificato dal d.lgs. 61/2002.

Orbene, finora si è tentato di tracciare un inquadramento generale, della tematica in esame, che non fosse privo delle cognizione necessarie a rendere più proficuo lo sviluppo della presente indagine; sviluppo che ora dovrà riguardare il fenomeno della successione nel tempo delle leggi processuali penali .

A tal fine preme evidenziare come l’impostazione tradizionale, in relazione alle norme processuali, propenda per la non applicabilità dell’art 2 cp, bensì dell’art 11 preleggi, in forza del quale la legge non dispone che per l’avvenire; essa non ha effetto retroattivo.

Dall’esegesi di tale ultima disposizione normativa si ricava il noto canone tempus regit actum, alla cui stregua gli atti processuali trovano la loro fonte di disciplina nella norma processuale vigente nel momento in cui l’atto deve essere adottato, a nulla rilevando l’ipotesi che, nel momento in cui è stato commesso il fatto criminoso, vigesse una norma processuale più favorevole al reo. In tale evenienza, proprio perché si è al cospetto di una norma processuale (e non sostanziale) non troverà applicazione il principio di retroattività della norma più favorevole al reo.

Talvolta, però, per l’esegeta non è tuttavia agevole individuare la natura sostanziale o processuale dell’istituto oggetto d’indagine.

Giova evidenziare, infatti, come una delle questioni problematiche più controverse, concernenti la tematica che ci occupa, sia rappresentata proprio dal corretto inquadramento dogmatico di una molteplicità di istituti sulla cui natura giuridica non vi è tutt’ora concordanza di opinioni: si ponga mente, a mero titolo esemplificativo, alla recidiva, alla prescrizione, alla custodia cautelare in carcere, alla confisca, alla decadenza da determinate cariche pubbliche in seguito ad intervenuta pronunzia passata in giudicato (sanzione, quest’ultima, sulla cui natura penale o amministrativa tutt’ora si discute animatamente, soprattutto in seguito ai noti fatti di cronaca giudiziaria legati alla vita politica del nostro Paese).

Bene, a tal fine soccorre all’interprete una consolidata giurisprudenza della Corte Europea dei Diritti dell’Uomo. La Corte di Strasburgo, in diverse occasioni, non ha mancato di rilevare come, ai fini dell’inquadramento della natura giuridica di un istituto, non debba rilevare in modo particolare la nomenclatura formale attribuita al medesimo, quanto, piuttosto, la portata sostanzialistica dello stesso, ovvero l’eventuale essenza afflittiva e punitiva che esso sprigiona.

Sulla base di tali argomentazioni di ordine teleologico, la Corte di Strasburgo ha concluso nel ritenere che alla confisca per equivalente (misura afflittiva contemplata in diverse disposizioni legislative adottate dal nostro Paese) sia applicabile il principio dell’irretroattività della norma sfavorevole, ex art. 7 CEDU e non, per converso, il canone tempus regit actum.

Le coordinate ermeneutiche di cui sopra, per evidente similitudine applicativa, non possono non tornare utili nella disamina di un’ulteriore questione problematica di ampio respiro, la quale, negli ultimi decenni, ha suscitato molteplici contrasti ermeneutici, intervenuti finanche in seno alla stessa Corte regolatrice: si allude, come è ovvio, alla successione delle leggi processuali concernenti le misure cautelari personali.

Come è noto, queste ultime sono disciplinate dagli artt. 272 e ss. c.p.p. e soggiacciono ai principi di adeguatezza, idoneità ed extrema ratio. Possono essere disposte solo quando sussistono gravi indizi di colpevolezza o esigenze cautelari (quali, l’inquinamento probatorio, il concreto pericolo di fuga, nonché il concreto pericolo di reiterazione del reato).

Per quanto d’interesse in questa sede, l’art. 299, comma 1. cpp, dispone che le misure coercitive (artt. 280 e ss.) e interdittive (artt. 287 e ss.) sono immediatamente revocate quando risultano mancanti, anche per fatti sopravvenuti, le condizioni di applicabilità previste dall’art. 273, ovvero le esigenze cautelari di cui all’art 274 cpp.

Tale comma va letto in combinato disposto con il comma 4 del medesimo articolo, il quale prescrive che quando le esigenze risultano aggravate, il giudice, su richiesta del pm, sostituisce la misura applicata con un’altra più grave.

Ebbene, secondo un orientamento minoritario, la lettura coordinata di tali ultime disposizioni normative, unitamente alla regola del tempus regit actum, fanno propendere nel ritenere che eventuali norme processuali sopravvenute debbano essere applicate anche alle misure cautelari personali ancora in corso di esecuzione e, altresì, nell’eventualità in cui l’effetto di tale applicazione sia sfavorevole al reo.

Il punto nodale, attorno a cui ruota l’intero impianto argomentativo dell’orientamento in esame, è incentrato, oltre che sull’esegesi letterale delle summenzionate norme, anche sul più volte menzionato canone tempus regit actum.

Ne discende, secondo tale ricostruzione, che, nel caso di un siffatto ius superveniens, il giudice sarà chiamato ad applicare la misura cautelare personale contemplata dalla sopravvenuta norma processuale e a revocare l’eventuale misura cautelare applicata in virtù della pregressa disciplina.

Come è noto, tale questione specifica si è presentata nella realtà giudiziaria in seguito ai molteplici interventi legislativi, susseguitesi nel corso degli ultimi anni, che hanno introdotto ipotesi di presunzione relativa o assoluta di adeguatezza della custodia cautelare in carcere.

Il legislatore, infatti, muovendosi forse più sull’onda di spinte emozional-populistiche, piuttosto che da riscontrate esigenze costituzionali di repressione penale, nel corso degli ultimi anni, in relazione a determinati reati di forte allarme sociale, ha introdotto una disciplina finalizzata alla predeterminazione legislativa della misura cautelare da adottare: così, per reati di cui agli artt. 575, 600 bis, 600 ter, 600 quinquies, 609 bis, 609 quater, 609 ocites cp, nonché per ulteriori fattispecie delittuose, è stata contemplata l’adeguatezza assoluta della custodia cautelare in carcere, sottraendo così al giudicante qualsivoglia spatium decidendi sul punto specifico.

Orbene, l’art. 275 c.p.p., prima di essere falcidiato a più riprese dalla Consulta, aveva posto all’attenzione dell’interprete importanti questioni di diritto intertemporale.

Taluni, in omaggio all’orientamento giurisprudenziale in precedenza evidenziato, rilevavano come la misura della custodia in carcere dovesse essere applicata anche in relazione alle misure cautelari personali ancora in corso di esecuzione: in tal caso, il giudice avrebbe dovuto disporre la revoca della misura cautelare meno afflittiva e applicare immediatamente la misura custodiale più severa, così come introdotta dalla nuova disciplina.

Preme rilevare come sul punto specifico sia intervenuta finanche la Corte regolatrice (nella sua massima espressione nomofilattica), la quale, muovendo dal combinato disposto degli artt. 299, comma 1, 299, comma 4, e 11 preleggi, ha concluso per l’inapplicabilità della norma processuale sopravvenuta alle misure cautelari personali ancora in corso di esecuzione.

In tali ipotesi, rileva la Corte, è proprio il principio tempus regit actum a postulare la non operatività, nel caso di specie, dello ius superveniens: l’atto processuale deve avere come fonte normativa di riferimento unicamente la legge processuale vigente nel momento in cui l’atto viene adottato, a nulla rilevando eventuali successive modifiche normative inerenti le fonti di disciplina del medesimo atto processuale. Tali eventuali modifiche normative, si assume, avranno efficacia applicativa solo in relazione alle misure cautelari che dovranno essere adottate dal momento dell’entrata in vigore delle norme stesse e non anche in riferimento alle misure cautelari ancora in corso di esecuzione, le quali, pertanto, non potranno essere oggetto di revoca e continueranno a trovare la propria fonte di disciplina nella pregressa disciplina processuale di riferimento.

Ora, pur apprezzandosi la conclusione alla quale è giunta la Corte di legittimità, pare non potersi sottacere, però, come la stessa non abbia ben evidenziato ulteriori argomentazioni, forse ancor più convincenti, che, parimenti, avrebbero consentito di approdare alla medesima soluzione: il riferimento, su tale punto specifico, va alla consolidata giurisprudenza della Corte Europea dei Diritti dell’Uomo.

Come si è già avuto modo di anticipare, secondo il giudice di Strasburgo, ciò che rileva ai fini dell’individuazione della natura giuridica di un istituto non è il solo nomem iuris (ovvero la mera nomenclatura formale) dello stesso, quanto, piuttosto, la portata sostanzialistica che esso assume.

Non pare potersi revocare in dubbio, allora, come la misura cautelare personale (soprattutto la custodia cautelare in carcere) abbia anche una funzione afflittiva, punitiva e sanzionatoria che, da un punto di vista squisitamente retributivo, non pare azzardato equiparare alla pena, perlomeno ai fini che qui rilevano.

Ne discende che, nell’eventualità di sopravvenute norme processuali penali riguardanti l’applicabilità di misure cautelari personali, ove la questione di diritto intertemporale non sia risolta dalla medesima sopraggiunta disposizione legislativa, pare potersi accedere a quel minoritario orientamento (di stampo dottrinale) che, in una siffatta evenienza, conclude che possa trovare applicazione l’art 2 cp e, quindi, il canone costituzionale dell’irretroattività della norma penale, ovvero i noti principi della retroattività della norma penale più favorevole, dell’abolitio crimins e dell’abrogatio sine abolitione.

 

Milano, 10 marzo 2017

Calabrò Arles

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