Diritto di accesso e riservatezza. Limiti e mezzi di tutela del cittadino nei confronti della Pubblica Amministrazione.

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Introduzione – Rapporto tra diritto di accesso e tutela dei dati personali – Evoluzione storica. La legge 241/90 – La cd. legge sulla
privacy ed i rapporto con il diritto di accesso – Il D.Lgs. 196/03 e la l. 15/05 – I limiti e mezzi di tutela alla luce delle ultime riforme
legislative – La natura della situazione giuridica soggettiva sottostante al diritto di accesso – La legittimazione a richiedere
l’accesso agli atti – La legittimazione all’accesso alla luce della l. 15/05 e del d.lgs. 196/03 – Le tutele concesse al diritto di accesso e al diritto alla privacy – Il trattamento dei dati effettuato per scopi storici – Quadro normativo – L’emanazione del codice deontologico in materia di trattamento di dati personali per scopi storici – Conclusione.

Introduzione

Questo elaborato si occupa, nel quadro della traccia oggetto della seconda edizione del premio “Ego et Lex”, del complesso rapporto che intercorre tra la disciplina dettata dal Legislatore in materia di trasparenza dell’attività amministrativa, di cui l’istituto dell’accesso agli atti costituisce la principale applicazione, e la normativa in materia di tutela dei dati personali (cd. legge sulla privacy). Entrambe costituiscono sul piano legislativo l’attuazione di principi di rango costituzionale: da un lato i principi di imparzialità e di buon andamento della pubblica amministrazione, il diritto all’informazione, il diritto alla libera manifestazione del pensiero; dall’altro i principi di eguaglianza e di non discriminazione, e il diritto alla riservatezza[1].

Le “zone grigie” in cui questi due complessi di norme entrano in contrasto tra loro rappresentano perciò momenti di forte attrito nell’ordinamento, e su di esse la dottrina, la giurisprudenza e il legislatore hanno sentito il bisogno di intervenire ripetutamente.

Ed è soprattutto su questa successione di interventi che si concentra gran parte dei paragrafi seguenti.

La prima parte si occupa in particolare della “tormentata coesistenza” tra la normativa sull’accesso, e quella sulla tutela dei dati personali. Nel secondo capitolo vengono invece passati in rassegna i vari strumenti messi a disposizione del privato sia a tutela del proprio diritto all’informazione, sia di quello alla segretezza dei dati inerenti alla sfera più intima della propria personalità.

Il terzo capitolo infine affronta la tematica del trattamento dei dati personali per finalità di ricerca storica. L’approfondimento di questo aspetto (di cui si è occupato anche il Garante della privacy con il codice di deontologia per il trattamento di dati in materia di studi storici) è stato reso possibile grazie anche alla disponibilità delle strutture del Ministero per i Beni e le Attività Culturali, presso le quali chi scrive ha svolto un periodo di tirocinio formativo nel quadro della convenzione tra l’Amministrazione e l’Università degli Studi “Roma Tre”.

1. Evoluzione storica. La Legge 241/90. La problematica relativa al bilanciamento fra diritto di accesso agli atti amministrativi e diritto alla riservatezza ha fatto il suo ingresso nel nostro ordinamento in età relativamente recente. Più precisamente, se ne può far risalire la nascita all’art. 24, 2° comma, lettera d), della legge 7 agosto 1990, n. 241, come formulato in origine[2], che inseriva la riservatezza di terzi, persone, gruppi ed imprese tra le aree che l’esecutivo era chiamato a salvaguardare, tolto il caso in cui la stessa fosse di intralcio alla cura o alla difesa di interessi giuridici.

Per meglio comprendere il perché il Legislatore avesse avvertito la necessità di tutelare eventuali terzi dal rischio che la loro sfera personale venisse violata, bisogna ricordare come la L. 241 si prefiggesse il fine di ribaltare il rapporto tra segretezza e pubblicità dell’azione amministrativa, consentendo al privato di partecipare attivamente al procedimento amministrativo e di contribuire a promuovere e ad assicurare l’imparzialità e il buon andamento dell’azione amministrativa[3]. Tutto ciò sarebbe stato realizzato mediante la partecipazione dei privati al procedimento e il diritto di accesso ai documenti posseduti dall’amministrazione.

La norma in sé non suscitò particolare clamore in ambito dottrinale e giurisprudenziale, viste la chiarezza dell’enunciato e la sostanziale solitudine che la caratterizzava allora all’interno dell’ordinamento, né diede particolari grattacapi alla prassi amministrativa, stante anche la circostanza che il regolamento di attuazione della 241 venne emanato solamente due anni dopo con il D.P.R. 27 giugno 1992, n. 352, e che i casi di contrasto tra diritto di accesso e privacy non avevano e non hanno tuttoggi una frequenza elevata.

Ci si limitò a considerare, infatti, che la formulazione dell’art. 24, L. 241/90, laddove garantiva la visione degli atti la cui conoscenza fosse necessaria per curare o per difendere interessi giuridici, sembrava risolvere il problema a vantaggio del diritto di accesso in caso di conflitto con le esigenze di riservatezza configurando quest’ultimo come un limite non assoluto[4].

2. La cd. legge sulla privacy e il problema del rapporto con il diritto di accesso. A sollevare prepotentemente la questione fu invece l’approvazione della L. 31 dicembre 1996, n. 675 (cd. legge sulla tutela delle persone e di altri soggetti rispetto al trattamento dei dati personali) la quale all’art. 43, comma 2, aveva previsto che restassero ferme, in quanto compatibili, le norme in materia di accesso ai documenti amministrativi[5].

Divenne chiaro perciò che l’art. 24, 2° comma, lettera d), non conteneva alcun criterio per risolvere il conflitto tra i due diritti, mentre il rinvio implicito ad esso effettuato dall’art. 43, 2° comma, imponeva di contemperare il diritto di accesso nella stessa legge configurato con la vecchia esigenza di tutela della riservatezza, adesso elevata al rango di vero e proprio diritto soggettivo dalla L. 675/96: il nuovo diritto alla “privacy”.

Il quadro normativo così aggiornato vedeva infatti il contestuale operare di due principi alquanto diversi: il principio della trasparenza, ex lege n. 241 del 1990, e il principio di riservatezza, ex lege n. 675 del 1996[6]. Ciò implicava anche la contemporanea esistenza di due differenti modi di tutela, il primo contenuto nella legge 675/96 che offriva una protezione generalizzata della riservatezza, il secondo di carattere eccezionale nella legge 241/90, che consentiva il superamento del diritto alla privacy di fronte al diritto di difesa, mentre la legge 675/96 stabiliva a sua volta una graduazione dei livelli di tutela da una soglia minima inerente i cd. dati personali a una soglia massima di inaccessibilità inerente i cd. dati sensibili. Abbattuta la vecchia barriera della generale segretezza dell’azione amministrativa, un’altra se ne era alzata questa volta a tutela della sfera individuale dei privati.

Come interpretare ora l’art. 24, 2° comma, lettera d) davanti alle differenti ipotesi che un documento contenga dati personali o dati sensibili?

Per quanto riguarda i primi, l’art. 27, 3° comma, della L. 675/96 stabiliva che i dati personali potessero essere comunicati e diffusi da parte di soggetti pubblici a privati o a enti pubblici economici soltanto nelle ipotesi previste da norme di legge o di regolamento. E’ stato a proposito osservato che sulla base di questa riserva di legge nell’area dei dati personali non ritenuti sensibili avrebbero dovuto continuare ad essere operativi i principi in materia di accesso definiti dalla 241/90 e dal D.P.R. 352/92, e questo perché tali principi ben potevano rientrare in tale riserva, essendo contenuti proprio all’interno di norme rispettivamente di rango primario e secondario[7].

Questa interpretazione ha avuto come logica conseguenza che l’eccezione contenuta nell’art. 27 della 675/96, è divenuta la regola in materia di accesso agli atti in virtù del fatto che è una legge a stabilire che tutti gli atti siano conoscibili salvo eccezioni e che in difetto di un’espressa sottrazione di particolari categorie se ne deve consentire la conoscibilità da parte dei soggetti privati.

Giova comunque sottolineare come un’eventuale sottrazione di tipologie di documenti da parte di singole amministrazioni sarebbe destinata a non avere comunque effetti a fronte di una richiesta di accesso per esigenze di tutela giuridica dato che una norma secondaria, come un regolamento, soccomberebbe inevitabilmente davanti alla fonte primaria dell’art. 24, 241/90[8].

Diverso discorso meritava il caso dei cd. dati sensibili. L’art. 22 della L. 675/96 disponeva infatti che fosse la legge ad individuare i dati che potessero essere trattati e quali operazioni fossero consentite per tali fini, escludendo innanzitutto le fonti secondarie, e richiedendo che tale legge individuasse le rilevanti finalità di interesse pubblico da perseguire mediante l’autorizzazione all’accesso. Orbene, elementi di questo genere non erano riscontrabili né nel Capo V della L. 241/90, né nel regolamento di attuazione, il D.p.r. 352/92[9].

La dottrina concludeva perciò che i documenti amministrativi contenenti dati sensibili erano sottratti sempre alla possibilità di essere conosciuti da terzi, anche quando la conoscenza del loro contenuto fosse stata in ipotesi l’unica via per esercitare il diritto di difesa.

Per quanto riguarda le modalità di tutela dei dati sia sensibili che personali nella vigenza della vecchia normativa, merita di essere ricordata la soluzione adottata dall’Adunanza Plenaria del Consiglio di Stato, n. 5 del 1997, con la quale il supremo consesso della giustizia amministrativa stabilì che l’accesso ai dati cd. personali non sensibili dovesse essere consentito nella sola forma della visione, di per sé ritenuta in grado di effettuare un bilanciamento tra i due opposti interessi, consentendo la cura o la difesa degli interessi giuridici sottesi all’istanza di ostensione , ma impedendo la divulgazione dei relativi dati (cd. tutela modale)[10].

3. Il D.lgs. 196/03 e la l. 15/05. L’assetto complessivo della normativa non ha subito modificazioni significative con l’approvazione del d.lgs. n. 196 del 2003, anche in virtù anche del mantenimento del rinvio alla l. 241/90 contenuto nell’ art. 59[11].

Il nuovo decreto legislativo sulla privacy ha però introdotto nuove categorie di dati personali da tutelare: i dati comuni, i dati sensibili, i dati giudiziari e i dati ipersensibili. Relativamente alle prime tre categorie, come è stato già detto, l’art. 59 ha previsto espressamente che ad esse si applichi la disciplina dettata dalla L. 241/90 e successive modifiche.

Il successivo art. 60[12], ha invece stabilito che in materia di dati ipersensibili “il trattamento è consentito se la situazione giuridicamente rilevante che si intende tutelare con la richiesta di accesso ai documenti amministrativi è di rango almeno pari ai diritti dell’interessato, ovvero consiste in un diritto della personalità o in un altro diritto o libertà fondamentale e inviolabile”.

Questa norma è stata interpretata dalla giurisprudenza [13]come un’attribuzione all’amministrazione del potere discrezionale di valutare se la posizione soggettiva dell’istante sia o meno di rango uguale o superiore a quella concessa dall’art. 60 del d.lgs 196/03 ai dati cd. ipersensibili. Com’è ovvio, tale valutazione discrezionale della P.A. sarebbe successivamente impugnabile davanti al giudice competente, il quale avrebbe il compito di valutare nel merito se la P.A. abbia o meno effettuato un bilanciamento degli opposti interessi non in astratto ma in concreto, e nel caso sostituirsi ad essa in tale valutazione[14].

Il completamento dell’odierno panorama legislativo è avvenuto prima con l’entrata in vigore della L. 11 febbraio 2005, n. 15, e poi del D.L. 14 marzo 2005, n. 35, convertito dalla Legge 14 maggio 2005, n. 80. Con essi l’istituto dell’accesso ai documenti amministrativi ha subìto una completa rivisitazione finalizzata anche al coordinamento dell’istituto dell’accesso con la riforma del Titolo V della Costituzione e con il d.lgs 30 giugno 2003, n. 196.

Con particolare riferimento a quest’ultimo è stata inserita la norma contenuta all’art. 22, 4° comma[15], in base alla quale “non sono accessibili le informazioni in possesso di una pubblica amministrazione che non abbiano forma di documento amministrativo”. Essa però fa salve le previsione contenute dal codice della privacy in materia di accesso. In questo modo si sono voluti tenere distinti gli ambiti di applicazione delle due leggi perché, mentre la L. 241/90 novellata si preoccupa di disciplinare l’accesso ai documenti amministrativi, alla nozione dei quali bisogna quindi richiamarsi, il codice della privacy si preoccupa di tutelare i dati personali, siano essi o no contenuti in documenti amministrativi[16].

Altra norma cruciale nei rapporti tra accesso è privacy all’interno della 241/90 novellata è l’art. 24, 7° comma[17], il quale dispone che “nel caso di documenti contenenti dati sensibili e giudiziari, l’accesso è consentito nei limiti in cui sia strettamente indispensabile e nei termini previsti dall’articolo 60 del decreto legislativo 30 giugno 2003, n. 196, in caso di dati idonei a rivelare lo stato di salute e la vita sessuale” imponendo così all’amministrazione, questa volta a livello normativo e non più giurisprudenziale, di valutare il rango del diritto che si intende tutelare fornendo così un criterio con cui risolvere i potenziali conflitti.

1. La natura della situazione giuridica soggettiva sottostante al diritto di accesso. La disamina sui limiti e i mezzi di tutela predisposti a favore del privato nei confronti della P.A. richiede che venga preliminarmente affrontata la questione relativa alla natura della posizione giuridica sottostante al diritto di accesso.

Subito dopo la approvazione della L. 241/90 venne sollevata la questione, sia in dottrina che in giurisprudenza, riguardo al fatto che il diritto di accesso andasse considerato alla stregua di un interesse legittimo o se fosse un vero e proprio diritto soggettivo. I sostenitori della tesi che voleva vedervi un semplice interesse legittimo sostenevano che il termine “diritto” fosse stato utilizzato in senso atecnico dal Legislatore (per sottolinearne la natura costituzionale), ma ciò di per sé non bastava a conferirgli la qualità di diritto soggettivo. Tale tesi ebbe anche l’avallo del Consiglio di Stato[18].

Dottrina e giurisprudenza inizialmente minoritarie sostenevano invece che la ratio della l. 241/90 fosse di rendere paritario il rapporto tra cittadino e P.A., il che escludeva in nuce la configurabilità dello stesso come interesse legittimo, posto che questi ultimi si caratterizzano per la posizione preminente assunta dalla P.A. che agisce come autorità mentre una posizione paritaria non può essere definita altrimenti se non diritto soggettivo[19].

Logico corollario di ciò era poi che il diritto di accesso, proprio perché avente natura di diritto soggettivo, non si estingueva per effetto della scadenza del termine di 30 giorni stabilito dall’ art. 25, 5° comma, nella sua originaria formulazione. La domanda di accesso avrebbe potuto essere quindi ripresentata anche una volta sopravvenuta l’inoppugnabilità espressa o tacita del diniego all’accesso[20].

2. La legittimazione a richiedere l’accesso agli atti. Per ciò che riguarda l’area dei legittimati a richiedere e ad ottenere l’accesso agli atti è necessario tenere a mente che ai sensi dell’art. 22 come novellato dalla L. 15/2005 al 1° comma, lettera b), definisce interessati “tutti i soggetti privati, compresi quelli portatori di interessi pubblici o diffusi, che abbiano un interesse diretto, concreto e attuale, corrispondente ad una situazione giuridicamente tutelata e collegata al documento al quale è chiesto l’accesso”.

La nuova formulazione ha delimitato meglio l’area dei legittimati, considerando che, in base alla vecchia nozione, il diritto di accesso veniva riconosciuto a chiunque vi avesse interesse per la tutela di situazioni giuridicamente rilevanti[21], che il d.p.r. 352/92 aveva definito come la sussistenza di un interesse personale e concreto[22].

La giurisprudenza degli anni successivi all’entrata in vigore della L. 241/90 e del d.p.r. 352/92 si preoccupò di dare un contenuto a questa nozione. In primis venne stabilito che questo interesse non doveva necessariamente essere identificato con un interesse legittimo o con un diritto soggettivo immediatamente azionabile. La legittimazione all’accesso venne infatti riconosciuta anche per la tutela di posizioni giuridiche non ancora azionabili in sede processuale, e per la giurisprudenza potevano farvisi rientrare anche quelle situazioni giuridiche soggettive come la cd. chance o gli interessi diffusi, cui l’ordinamento riconosce comunque forme di tutela. La personalità era stata definita invece come la riferibilità immediata delle situazioni giuridiche soggettive al soggetto interessato e a tutela delle quali è azionato il diritto di accesso. Da ultimo, la concretezza venne interpretata come tangibilità della posizione soggettiva cui è collegata la motivazione della richiesta d’accesso[23].

3. La legittimazione all’accesso alla luce della l. 15/05 e del d.lgs. 196/03. Con la riforma, perché si abbia legittimazione all’accesso, è stato reso necessario che l’interessato sia titolare di una posizione avente il carattere dell’attualità, e che il documento di cui si chiede l’ostensione sia collegato a tale posizione soggettiva, con consistenti ricadute sull’obbligo di motivazione della richiesta di accesso da parte dell’interessato[24], dato che mentre nella vigenza del vecchio testo era ritenuto sufficiente indicare soltanto l’interesse e le finalità che si intendevano perseguire, sembra ora di potersi dire che per poter legittimamente accedere ad un documento amministrativo sia necessario poter vantare anche i requisiti per ricorrere in sede giurisdizionale[25].

Se da questo lato la riforma sembra ristretto il novero dei soggetti legittimati all’accesso, da un altro lo ha però apparentemente esteso, laddove ha ricompreso tra gli interessati “tutti i soggetti privati, compresi quelli portatori di interessi pubblici o diffusi”, inserendovi quindi anche singoli individui, anche non appartenenti a comitati o associazioni, ma comunque portatori si situazioni giuridiche soggettive di un certo rilievo, contrariamente al passato, quando era necessario che l’interesse si elevasse almeno sopra la soglia degli interessi di mero fatto[26].

Ma ciò che interessa ai fini del presente lavoro a proposito di procedimento di accesso e privacy è l’introduzione alla lettera c) del 1° comma dell’art. 22[27] della figura dei controinteressati alla domanda di accesso, qualificati come “tutti i soggetti, […], che dall’esercizio dell’accesso vedrebbero compromesso il loro diritto alla riservatezza”.

Anche per risolvere i problemi collegati alla definizione dei confini tra accesso e riservatezza posti da quest’ultima norma, sono state previste forme di consultazione istituzionale tra Garante e Commissione per l’accesso al fine di circoscrivere i margini di discrezionalità che il d.lgs. 196/2003 gli concede nella verifica della rilevanza dell’interesse pubblico al trattamento dei dati. Questo avviene mediante la richiesta di pareri obbligatori non vincolanti tra la Commissione e il Garante a seconda che ad una delle due sia stato presentato ricorso per questioni che coinvolgono il diritto all’accesso, e la riservatezza dei “controinteressati”. Assume tra l’altro particolare rilievo ai fini del presente lavoro quanto stabilito dall’ultima parte del 5° comma dell’art. 25, l. 241/90[28], a mente del quale il coordinamento tra le funzioni della Commissione e del Garante viene attuato mediante la richiesta di pareri obbligatori non vincolanti tra i due enti.

Infatti “se l’accesso è negato o differito per motivi inerenti ai dati personali che si riferiscono a soggetti terzi, la Commissione provvede, sentito il Garante per la protezione dei dati personali, il quale si pronuncia entro il termine di dieci giorni dalla richiesta, decorso inutilmente il quale il parere si intende reso”, mentre qualora un procedimento davanti al Garante “interessi l’accesso ai documenti amministrativi, il Garante per la protezione dei dati personali chiede il parere, obbligatorio e non vincolante, della Commissione per l’accesso ai documenti amministrativi “.

4. Le tutele concesse al diritto di accesso e al diritto alla privacy. Merita a questo punto ripercorrere le discipline dettate rispettivamente per il procedimento di accesso agli atti (art. 25, 4° comma, l. 241/90) e per la tutela dei dati personali (artt. 145-151, d.lgs 196/03). La prima è stata modificata in più punti dalla L. 15/05, e tra questi vi è il criterio per identificare il difensore civico competente che andrà individuato in quello costituito nell’ambito dello stesso ente territoriale di riferimento, quindi quello comunale avverso il diniego il differimento pronunciati dagli organi comunali, e quelli provinciale e regionale per i corrispondenti provvedimenti emanati da Provincia e Regione, mentre, in ossequio al principio di sussidiarietà verticale, nel caso in cui uno di questi enti non abbia provveduto ad istituire il proprio ufficio del difensore civico, la competenza sarà dell’ufficio istituito presso l’ente territoriale immediatamente superiore[29]. Il difensore civico regionale inoltre si è visto privare del potere di riesame avverso i provvedimenti degli enti periferici dello stato operanti nel territorio regionale, di competenza ora della Commissione per l’accesso.

Sia quest’ultima, che i difensori civici, sono tra l’altro stati assoggettati ad un nuovo termine di 30 giorni per pronunciarsi sui ricorsi a loro presentati, spirato il quale, sul ricorso si formerà il silenzio-rigetto ricorribile in sede giurisdizionale amministrativa. E’ rimasto invece immutato il termine di 30 giorni concesso all’amministrazione cui viene richiesto l’accesso per provvedere a riguardo, ed evitare che operi il silenzio-rigetto, così come è stata conservata l’alternatività della tutela esperibile contro di esso, o in sede giurisdizionale o al difensore civico / commissione per l’accesso[30].

Analogo principio vale per il ricorso al Garante per la tutela dei dati personali. Stabilisce infatti l’art. 145 del d.lgs. 196/2003 che "I diritti di cui all’articolo 7 possono essere fatti valere dinanzi all’autorità giudiziaria o con ricorso al Garante. Il ricorso al Garante non può essere proposto se, per il medesimo oggetto e tra le stesse parti, è stata già adita l’autorità giudiziaria.

La presentazione del ricorso al Garante rende improponibile un’ulteriore domanda dinanzi all’autorità giudiziaria tra le stesse parti e per il medesimo oggetto.

Maggiore attenzione è invece rivolta ai requisiti di forma del ricorso[31] e al procedimento davanti al Garante, dinanzi al quale è prevista l’instaurazione di una vera e propria fase contenziosa ricalcata sulla falsariga dei procedimenti davanti all’autorità giudiziaria[32], al termine della quale il Garante ha il potere di emanare provvedimenti aventi natura di titolo esecutivo ai sensi del codice di procedura civile[33].

1. Quadro normativo. La normativa sulla privacy si è dovuta confrontare fin dall’inizio con le necessità fisiologiche di trattamento dei dati personali nell’esercizio di particolari attività. Basti ricordare a riguardo il caso del trattamento dei dati in ambito giornalistico, o quello del trattamento dei dati per scopi statistici o in materia di affidabilità e puntualità dei pagamenti.

Una però in particolare è ad andata ad inserirsi nell’ambito del delicato rapporto fra diritto all’informazione e diritto alla riservatezza: quella del trattamento dei dati personali per scopi storici. Trattandosi di una materia che coinvolge eminentemente la consultazione di documenti contenuti in archivi, la sua disciplina è per lo più sottratta a quella dettata dall’art. 25, l. 241/90 a favore di norme dettate espressamente per il settore, in primis il d.lgs 29 ottobre 1999, n. 490, artt. 107 e ss. (accesso agli archivi di Stato), mentre il Garante per la protezione dei dati personali, con provvedimento n. 8/P/2001 del 14 marzo 2001 (codice di deontologia e di buona condotta per i trattamenti di dati personali per scopi storici) ha dettato un codice di condotta specifico in materia che deve essere osservato da tutti coloro che svolgono attività di ricerca in ambito storico, sulla scorta di quanto previsto dal d.lgs. 281/1999, le cui norme sono state poi recepite dagli artt. 97 e ss. del d.lgs. 196/2003.

La normativa previgente, cioè il D.P.R. 1409/1963 (e in particolare l’art. 21[34]), contemplava un regime generale di libera consultazione degli archivi, salvo casi specifici individuati dalla medesima norma. Tale impianto subì una radicale revisione con l’entrata in vigore della l. 675/96 che previde invece, in via generale, che la documentazione contenente informazioni qualificate dalla stessa legge come riservate, non potesse essere consultata né diffusa.

Anche qui, nel primo periodo di vigenza della l. 675/96, si pose il problema di un ragionevole bilanciamento tra differenti principi e diritti costituzionali, apparentemente di eguale valenza, che però finivano per entrare in contrasto tra loro, nel caso specifico il diritto all’informazione e la libertà di espressione del pensiero da un lato, e il diritto alla riservatezza dall’altro[35], cui il Legislatore sembrava aver allora voluto dare maggior risalto rispetto alle istanze della ricerca storica.

La legge infatti non elaborava il contenuto del concetto di riservatezza , su cui si basavano i limiti alla consultabilità, né ne definiva gli ambiti, anche cronologici, in cui questa si manteneva inalterata, scaricando così la soluzione del problema sul decreto integrativo da emanare in un secondo tempo (che in materia archivistica fu il d.lgs. 30 luglio 1999, n. 281), e facendo sì che il “fatto riservato relativo a situazioni puramente private di persone” contenuto nell’art. 21 del d.p.r. 1409/63[36] finisse per espandersi a dismisura sino a corrispondere alle categorie di “dato sensibile” contenute nell’art. 22 della l. 675/96, anziché in quelle dell’art. 25 (cd. “nocciolo duro” coincidente con le sfere del sesso e della salute)[37].

A porre rimedio a questo stato di cose intervenne appunto il d.lgs. 281/1999 che, modificando l’art. 21 del d.p.r. 1409/63, stabilì che i documenti contenenti i dati di cui agli artt. 22 e 24 della l. 675 fosse consultabili dopo 40 anni, mentre quelli inerenti lo stato di salute e la vita sessuale lo diventassero dopo 70, e che anteriormente al decorso di tali termini l’accesso agli stessi sarebbe stato consentito a norma della l. 241/90[38].

La norma in realtà ha avuto vita breve, dato che a distanza di pochi mesi entrò in vigore il d.lgs. 490/1999 (cd. Testo unico delle disposizioni legislative in materia di beni culturali e ambientali) che è intervenuto, all’art. 107, anche sulla materia degli Archivi di Stato, sostituendosi all’art. 21 del d.p.r. 1409/63 e agli artt. 1 e 6 del d.p.r. 854/75.

Nell’art. 107 scompare nuovamente ogni riferimento agli artt. 22 e 24 l. 675/96 e al loro diverso regime cronologico di diffusione (40 anni), nonché ogni richiamo all’accesso agli atti amministrativi, a vantaggio della vecchia formula delle situazioni puramente private di persone, e viene conferito alla P.A. il potere discrezionale di dichiarare riservato il contenuto di un documento, a prescindere dalle categorie indicate dalla normativa sulla privacy.

I documenti contenuti negli Archivi di Stato vengono così tutti ripartiti entro tre sole categorie: quelli dichiarati di carattere riservato a norma del successivo art. 110, che diventano consultabili dopo 50 anni, quelli relativi a situazioni puramente private, che lo diventano dopo 70 e i documenti dei processi penali che lo diventano anch’essi dopo lo stesso arco di tempo[39]. Venne così ripristinato in toto il vecchio dettato dell’art. 27 del d.p.r. 1409/63 con la sola aggiunta del riferimento all’art. 110.

Infine, sia la dichiarazione di riservatezza dei documenti indicati nel 1° comma, sia l’autorizzazione alla loro consultazione, la cui disciplina è contenuta nel 2° comma, divennero di competenza del Ministero dell’Interno d’intesa con il Ministero per i Beni e le Attività Culturali.

2. L‘emanazione del codice deontologico in materia di trattamento di dati personali per scopi storici. Questo immediata e repentina restaurazione sembrerebbe apparentemente inspiegabile. In realtà non c’è alcun ritorno all’ ancient regime, perché le modifiche che il d.lgs. 281/1999 aveva apportato al d.p.r. 1409/63 riappaiono all’interno del “Codice di deontologia e di buona condotta per i trattamenti di dati personali per scopi storici” del 14 marzo 2001. A tale provvedimento del Garante, emanato nella vigenza della l. 675/96, fa esplicito riferimento però anche il d.lgs 196/03, che all’art. 102 indica gli aspetti che tale codice deve individuare, fra cui in particolare “le regole di correttezza e di non discriminazione nei confronti degli utenti da osservare anche nella comunicazione e diffusione dei dati, […] applicabili ai trattamenti di dati per finalità giornalistiche o di pubblicazione di articoli, saggi e altre manifestazioni del pensiero anche nell’espressione artistica” e soprattutto “le particolari cautele per la raccolta, la consultazione e la diffusione di documenti concernenti dati idonei a rivelare lo stato di salute, la vita sessuale o rapporti riservati di tipo familiare, identificando casi in cui l’interessato o chi vi abbia interesse è informato dall’utente della prevista diffusione di dati[40].

La normativa sulla privacy delega così al codice deontologico larga parte della disciplina a riguardo, e chiude il Capo II del Titolo VII con l’art. 103 che rinvia al d.lgs. 490/1999 per la consultazione dei documenti contenuti negli Archivi di Stato[41].

Di particolare importanza anche l’art. 98, che qualifica come di rilevante interesse pubblico il trattamento dei dati per scopi storici, legittimandone così l’ostensione in tutti i casi previsti dalla legge[42].

Gli articoli del codice deontologico che si occupano dell’accesso ai documenti e della loro fruibilità sono invece il 10 e l’11. Va prima di tutto sottolineato che l’art. 10 disciplina l’accesso agli archivi pubblici in generale mentre sembra doversi ritenere, in virtù di un’espressa disposizione di legge, che l’accesso agli Archivi di Stato rimanga assoggettato all’art. 107 del d.lgs. 490/1999, con i relativi criteri per la consultazione e la diffusione dei documenti ivi contenuti. Come già detto comunque, l’art. 10 richiama le formulazione dell’art. 27 del d.p.r. 1409/63 come modificato dal d.lgs. 281/99. L’accesso agli archivi pubblici è quindi libero. Fanno eccezione i documenti di carattere riservato relativi alla politica interna ed estera dello Stato che divengono consultabili cinquanta anni dopo la loro data e quelli contenenti i dati di cui agli art. 22 e 24 della legge n. 675/1996, che divengono liberamente consultabili quaranta anni dopo la loro data, mentre il termine è di settanta anni se i dati sono idonei a rivelare lo stato di salute o la vita sessuale oppure rapporti riservati di tipo familiare.

Inoltre, l’autorizzazione alla consultazione dei documenti di cui al comma 2 può essere rilasciata prima della scadenza dei termini dal Ministro dell’interno, previo parere del direttore dell’Archivio di Stato o del sovrintendente archivistico competenti e udita la Commissione per le questioni inerenti alla consultabilità degli atti di archivio riservati istituita presso il Ministero dell’interno, secondo la procedura dettata dagli artt. 8 e 9 del decreto legislativo n. 281/1999[43].

Di particolare importanza anche il 1° comma dell’art. 11, che sancisce il rango costituzionale, nell’ambito della sfera della libertà di parola e di manifestazione del pensiero, del diritto dell’utente di tali dati a fornirne una libera interpretazione, nel rispetto diritto alla riservatezza, del diritto all’identità personale e della dignità degli interessati[44].

Il bilanciamento fra il diritto all’informazione, da esercitare attraverso l’istituto dell’accesso, e il diritto alla riservatezza appare ancora come un processo in fieri,e sebbene il punto di equilibrio sembra a portata di mano, probabilmente non è stato ancora raggiunto. Se sul piano normativo non sembrano però al momento necessarie grandi innovazioni (salvo eventuali interventi in sede comunitaria), importante sarà nei prossimi anni soprattutto la “giurisprudenza” che la Commissione per l’accesso agli atti e il Garante della privacy produrranno, ciascuno nei rispettivi ambiti di competenza, sul rapporto tra i due sistemi di norme, con la conseguenza che se ciò effettivamente si verificasse, la materia del rapporto accesso-privacy potrebbe diventare la prima a consolidarsi completamente al di fuori del tradizionale circuito giudiziario.

Lo stesso invece non sembra potersi dire per la tutela della riservatezza in materia di accesso per fini di ricerca storica, specialmente in virtù del fatto che quest’ultima è attualmente disciplinata da un lato dal codice deontologico, con cui il Garante per la privacy si è di fatto espresso sulla materia una volta per tutte lasciando così poco spazio per un eventuale ricorso davanti a sè, e dall’altra dal d.lgs. 281/99, col risultato che la funzione di controllo sulla sottrazione di documenti alla libera consultazione ex art. 110 del d.lgs. 281/999, o sulla loro “declassificazione”, rimarrà incardinato davanti alla giustizia amministrativa.

ALFREDO DI LORENZO


[1] Tali principi sono tra l’altro riconosciuti anche in molte dichiarazioni di principio di organizzazioni internazionali o sopranazionali.

[2] “Il Governo è autorizzato ad emanare, ai sensi del comma 2 dell’articolo 17 della legge 23 agosto 1988, n. 400, entro sei mesi dalla data di entrata in vigore della presente legge, uno o più decreti intesi a disciplinare le modalità di esercizio del diritto di accesso e gli altri casi di esclusione del diritto di accesso in relazione alla esigenza di salvaguardare: […]; d) la riservatezza di terzi, persone, gruppi ed imprese, garantendo peraltro agli interessati la visione degli atti relativi ai procedimenti amministrativi, la cui conoscenza sia necessaria per curare o per difendere i loro interessi giuridici.”

[3] T. NICOLAZZI, L’accesso ai documenti amministrativi dopo la L. 11 febbraio 2005, n. 15 , in Studium Iuris 2005, pag. 825, nota sub 1.

[4] V. Cons. Stato, Sez. IV, 4 febbraio 1997, n. 82.

[5] “Restano ferme le disposizioni della legge 20 maggio 1970, n. 300 (27), e successive modificazioni, nonché, in quanto compatibili, le disposizioni della legge 5 giugno 1990, n. 135 (28), e successive modificazioni, del decreto legislativo 6 settembre 1989, n. 322 (29), nonché le vigenti norme in materia di accesso ai documenti amministrativi ed agli archivi di Stato. Restano altresì ferme le disposizioni di legge che stabiliscono divieti o limiti più restrittivi in materia di trattamento di taluni dati personali.”

[6] G. ARENA, La tutela della “privacy” informatica, in Giornale di Diritto Amministrativo, 1997, pag. 517.

[7] R. FERRARA, Premesse ad uno studio sulle banche dati della pubblica amministrazione: fra regole della concorrenza e tutela della persona, in Diritto Amministrativo.

[8] R. FERRARA, op. cit. sub 6.

[9] In realtà l’art. 8, 5° comma, lettera d), del d.p.r. 352/92, assoggetta al medesimo regime normativo tanto i cd. dati personali quanto i dati sensibili, il che cozza radicalmente con quanto disposto dall’art. 22 della l. 675/96.

[10] T. NICOLAZZI, L’accesso ai documenti amministrativi dopo la L. 11 febbraio 2005, n. 15 , in Studium Iuris 2005, pag. 830.

[11] Art. 59. Accesso a documenti amministrativi. Fatto salvo quanto previsto dall’articolo 60, i presupposti, le modalità, i limiti per l’esercizio del diritto di accesso a documenti amministrativi contenenti dati personali, e la relativa tutela giurisdizionale, restano disciplinati dalla legge 7 agosto 1990, n. 241, e successive modificazioni e dalle altre disposizioni di legge in materia, nonchè dai relativi regolamenti di attuazione, anche per ciò che concerne i tipi di dati sensibili e giudiziari e le operazioni di trattamento eseguibili in esecuzione di una richiesta di accesso. Le attività finalizzate all’applicazione ditale disciplina si considerano di rilevante interesse pubblico.

[12] Art. 60. Dati idonei a rivelare lo stato di salute e la vita sessuale. Quando il trattamento concerne dati idonei a rivelare lo stato di salute o la vita sessuale, il trattamento è consentito se la situazione giuridicamente rilevante che si intende tutelare con la richiesta di accesso ai documenti amministrativi è di rango almeno pari ai diritti dell’interessato, ovvero consiste in un diritto della personalità o in un altro diritto o libertà fondamentale e inviolabile.

[13] Tra le tante v. Cons. St., sez. VI, 1882/01 e 2542/02.

[14] T. NICOLAZZI, L’accesso ai documenti amministrativi dopo la L. 11 febbraio 2005, n. 15 , in Studium Iuris 2005, pag. 831.

[15]4. Non sono accessibili le informazioni in possesso di una pubblica amministrazione che non abbiano forma di documento amministrativo, salvo quanto previsto dal decreto legislativo 30 giugno 2003, n. 196, in materia di accesso a dati personali da parte della persona cui i dati si riferiscono.”

[16] Tale norma sarebbe stata introdotta dal Garante per la protezione dei dati personali al fine di armonizzare le due discipline. A riguardo si veda Studium Iuris 2005, pag. 831.

[17] “7. Deve comunque essere garantito ai richiedenti l’accesso ai documenti amministrativi la cui conoscenza sia necessaria per curare o per difendere i propri interessi giuridici. Nel caso di documenti contenenti dati sensibili e giudiziari, l’accesso è consentito nei limiti in cui sia strettamente indispensabile e nei termini previsti dall’articolo 60 del decreto legislativo 30 giugno 2003, n. 196, in caso di dati idonei a rivelare lo stato di salute e la vita sessuale.”

[18] Cons. Stato, Ad. plen. 16/1999 e Cons. Stato, sez. V, n. 1725/1998.

[19] A favore della configurazione del diritto di accesso come diritto soggettivo si annoverano invece : Cons. Stato, sez. IV, n. 4092/2000, n. 1137/1998 e n. 693/1998.

[20] Ex multis, Cons. Stato, sez. VI, n. 2938/2003 e n. 3620/2002.

[21] Art. 22. 1. Al fine di assicurare la trasparenza dell’attività amministrativa e di favorirne lo svolgimento imparziale è riconosciuto a chiunque vi abbia interesse per la tutela di situazioni giuridicamente rilevanti il diritto di accesso ai documenti amministrativi, secondo le modalità stabilite dalla presente legge.

2. E’ considerato documento amministrativo ogni rappresentazione grafica, fotocinematografica, elettromagnetica o di qualunque altra specie del contenuto di atti, anche interni, formati dalle pubbliche amministrazioni o, comunque, utilizzati ai fini dell’attività amministrativa.

3. Entro sei mesi dalla data di entrata in vigore della presente legge le amministrazioni interessate adottano le misure organizzative idonee a garantire l’applicazione della disposizione di cui al comma 1, dandone comunicazione alla Commissione di cui all’articolo 27.

[23] Quindi non riducibile a mera curiosità o a un intento riprovevole, o meramente rivolto ad esercitare un controllo sul buon andamento dell’azione amministrativa. Si veda a riguardo Cons. St., sez. VI, n. 1243/1994.

[24] Art. 22 Ai fini del presente capo si intende:

[…]

b) per “interessati”, tutti i soggetti privati, compresi quelli portatori di interessi pubblici o diffusi, che abbiano un interesse diretto, concreto e attuale, corrispondente ad una situazione giuridicamente tutelata e collegata al documento al quale è chiesto l’accesso;

[25] T. NICOLAZZI, v. supra, pag. 827.

[26] M. OCCHIENA, Diritto di accesso, atti di diritto privato e tutela della riservatezza dopo la legge sulla privacy, in Diritto Processuale Amministrativo, 1998, p. 394.

[27] Art. 22 Ai fini del presente capo si intende:

[…]

per “controinteressati”, tutti i soggetti, individuati o facilmente individuabili in base alla natura del documento richiesto, che dall’esercizio dell’accesso vedrebbero compromesso il loro diritto alla riservatezza;

[28] Art. 25

5. […]

Se l’accesso è negato o differito per motivi inerenti ai dati personali che si riferiscono a soggetti terzi, la Commissione provvede, sentito il Garante per la protezione dei dati personali, il quale si pronuncia entro il termine di dieci giorni dalla richiesta, decorso inutilmente il quale il parere si intende reso. Qualora un procedimento di cui alla sezione III del capo I del titolo I della parte III del decreto legislativo 30 giugno 2003, n. 196, o di cui agli articoli 154, 157, 158,159 e 160 del medesimo decreto legislativo n. 196 del 2003, relativo al trattamento pubblico di dati personali da parte di una pubblica amministrazione, interessi l’accesso ai documenti amministrativi, il Garante per la protezione dei dati personali chiede il parere, obbligatorio e non vincolante, della Commissione per l’accesso ai documenti amministrativi. La richiesta di parere sospende il termine per la pronuncia del Garante sino all’acquisizione del parere, e comunque per non oltre quindici giorni. Decorso inutilmente detto termine, il Garante adotta la propria decisione.

[29] T. NICOLAZZI, v. supra, pag. 832.

[30] Art. 25. Modalità di esercizio del diritto di accesso e ricorsi.

[…]

4. Decorsi inutilmente trenta giorni dalla richiesta, questa si intende respinta. In caso di diniego dell’accesso, espresso o tacito, o di differimento dello stesso ai sensi dell’articolo 24, comma 4, il richiedente può presentare ricorso al tribunale amministrativo regionale ai sensi del comma 5, ovvero chiedere, nello stesso termine e nei confronti degli atti delle amministrazioni comunali, provinciali e regionali, al difensore civico competente per ambito territoriale, ove costituito, che sia riesaminata la suddetta determinazione. Qualora tale organo non sia stato istituito, la competenza è attribuita al difensore civico competente per l’ambito territoriale immediatamente superiore. Nei confronti degli atti delle amministrazioni centrali e periferiche dello Stato tale richiesta è inoltrata presso la Commissione per l’accesso di cui all’articolo 27. Il difensore civico o la Commissione per l’accesso si pronunciano entro trenta giorni dalla presentazione dell’istanza.

5. Contro le determinazioni amministrative concernenti il diritto di accesso e nei casi previsti dal comma 4 è dato ricorso, nel termine di trenta giorni, al tribunale amministrativo regionale, il quale decide in camera di consiglio entro trenta giorni dalla scadenza del termine per il deposito del ricorso, uditi i difensori delle parti che ne abbiano fatto richiesta. La decisione del tribunale è appellabile, entro trenta giorni dalla notifica della stessa, al Consiglio di Stato, il quale decide con le medesime modalità e negli stessi termini.

Scaduto infruttuosamente tale termine, il ricorso si intende respinto. Se il difensore civico o la Commissione per l’accesso ritengono illegittimo il diniego o il differimento, ne informano il richiedente e lo comunicano all’autorità disponente. Se questa non emana il provvedimento confermativo motivato entro trenta giorni dal ricevimento della comunicazione del difensore civico o della Commissione, l’accesso è consentito. Qualora il richiedente l’accesso si sia rivolto al difensore civico o alla Commissione, il termine di cui al comma 5 decorre dalla data di ricevimento, da parte del richiedente, dell’esito della sua istanza al difensore civico o alla Commissione stessa. […]

[31] Art. 147. Presentazione del ricorso

1. Il ricorso è proposto nei confronti del titolare e indica:

a) gli estremi identificativi del ricorrente, dell’eventuale procuratore speciale, del titolare e, ove conosciuto, del responsabile eventualmente designato per il riscontro all’interessato in caso di esercizio dei diritti di cui all’articolo 7;

b) la data della richiesta presentata al titolare o al responsabile ai sensi dell’articolo 8, comma 1, oppure del pregiudizio imminente ed irreparabile che permette di prescindere dalla richiesta medesima;

c) gli elementi posti a fondamento della domanda;

d) il provvedimento richiesto al Garante; e) il domicilio eletto ai fini del procedimento.

2. Il ricorso è sottoscritto dal ricorrente o dal procuratore speciale e reca in allegato:

a) la copia della richiesta rivolta al titolare o al responsabile ai sensi dell’articolo 8, comma 1;

b) l’eventuale procura;

c) la prova del versamento dei diritti di segreteria.

3. Al ricorso è unita, altresì, la documentazione utile ai fini della sua valutazione e l’indicazione di un recapito per l’invio di comunicazioni al ricorrente o al procuratore speciale mediante posta elettronica, telefax o telefono.

4. Il ricorso è rivolto al Garante e la relativa sottoscrizione è autenticata. L’autenticazione non è richiesta se la sottoscrizione è apposta presso l’Ufficio del Garante o da un procuratore speciale iscritto all’albo degli avvocati al quale la procura è conferita ai sensi dell’articolo 83 del codice di procedura civile, ovvero con firma digitale in conformità alla normativa vigente.

5. Il ricorso è validamente proposto solo se è trasmesso con plico raccomandato, oppure per via telematica osservando le modalità relative alla sottoscrizione con firma digitale e alla conferma del ricevimento prescritte ai sensi dell’articolo 38, comma 2, ovvero presentato direttamente presso l’Ufficio del Garante.

[32] Art. 149. Procedimento relativo al ricorso

1. Fuori dei casi in cui è dichiarato inammissibile o manifestamente infondato, il ricorso è comunicato al titolare entro tre giorni a cura dell’Ufficio del Garante, con invito ad esercitare entro dieci giorni dal suo ricevimento la facoltà di comunicare al ricorrente e all’Ufficio la propria eventuale adesione spontanea. L’invito è comunicato al titolare per il tramite del responsabile eventualmente designato per il riscontro all’interessato in caso di esercizio dei diritti di cui all’articolo 7, ove indicato nel ricorso.

2. In caso di adesione spontanea è dichiarato non luogo a provvedere. Se il ricorrente lo richiede, è determinato in misura forfettaria l’ammontare delle spese e dei diritti inerenti al ricorso, posti a carico della controparte o compensati per giusti motivi anche parzialmente.

3. Nel procedimento dinanzi al Garante il titolare, il responsabile di cui al comma 1 e l’interessato hanno diritto di essere sentiti, personalmente o a mezzo di procuratore speciale, e hanno facoltà di presentare memorie o documenti. A tal fine l’invito di cui al comma 1 è trasmesso anche al ricorrente e reca l’indicazione del termine entro il quale il titolare, il medesimo responsabile e l’interessato possono presentare memorie e documenti, nonchè della data in cui tali soggetti possono essere sentiti in contraddittorio anche mediante idonea tecnica audiovisiva.

4. Nel procedimento il ricorrente può precisare la domanda nei limiti di quanto chiesto con il ricorso o a seguito di eccezioni formulate dal titolare.

5. Il Garante può disporre, anche d’ufficio, l’espletamento di una o più perizie. Il provvedimento che le dispone precisa il contenuto dell’incarico e il termine per la sua esecuzione, ed è comunicato alle parti le quali possono presenziare alle operazioni personalmente o tramite procuratori o consulenti designati. Il provvedimento dispone inoltre in ordine all’anticipazione delle spese della perizia.

6. Nel procedimento, il titolare e il responsabile di cui al comma 1 possono essere assistiti da un procuratore o da altra persona di fiducia.

7. Se gli accertamenti risultano particolarmente complessi o vi è l’assenso delle parti il termine di sessanta giorni di cui all’articolo 150, comma 2, può essere prorogato per un periodo non superiore ad ulteriori quaranta giorni.

8. Il decorso dei termini previsti dall’articolo 150, comma 2 e dall’articolo 151 è sospeso di diritto dal 1 agosto al 15 settembre di ciascun anno e riprende a decorrere dalla fine del periodo di sospensione. Se il decorso ha inizio durante tale periodo, l’inizio stesso è differito alla fine del periodo medesimo. La sospensione non opera nei casi in cui sussiste il pregiudizio di cui all’articolo 146, comma 1, e non preclude l’adozione dei provvedimenti di cui all’articolo 150, comma 1 .

[33] Art. 150. Provvedimenti a seguito del ricorso

1. Se la particolarità del caso lo richiede, il Garante può disporre in via provvisoria il blocco in tutto o in parte di taluno dei dati, ovvero l’immediata sospensione di una o più operazioni del trattamento. Il provvedimento può essere adottato anche prima della comunicazione del ricorso ai sensi dell’articolo 149, comma 1, e cessa di avere ogni effetto se non è adottata nei termini la decisione di cui al comma 2. Il medesimo provvedimento è impugnabile unitamente a tale decisione.

2. Assunte le necessarie informazioni il Garante, se ritiene fondato il ricorso, ordina al titolare, con decisione motivata, la cessazione del comportamento illegittimo, indicando le misure necessarie a tutela dei diritti dell’interessato e assegnando un termine per la loro adozione. La mancata pronuncia sul ricorso, decorsi sessanta giorni dalla data di presentazione, equivale a rigetto.

3. Se vi è stata previa richiesta di taluna delle parti, il provvedimento che definisce il procedimento determina in misura forfettaria l’ammontare delle spese e dei diritti inerenti al ricorso, posti a carico, anche in parte, del soccombente o compensati anche parzialmente per giusti motivi.

4. Il provvedimento espresso, anche provvisorio, adottato dal Garante è comunicato alle parti entro dieci giorni presso il domicilio eletto o risultante dagli atti. Il provvedimento può essere comunicato alle parti anche mediante posta elettronica o telefax.

5. Se sorgono difficoltà o contestazioni riguardo all’esecuzione del provvedimento di cui ai commi 1 e 2, il Garante, sentite le parti ove richiesto, dispone le modalità di attuazione avvalendosi, se necessario, del personale dell’Ufficio o della collaborazione di altri organi dello Stato.

6. In caso di mancata opposizione avverso il provvedimento che determina l’ammontare delle spese e dei diritti, o di suo rigetto, il provvedimento medesimo costituisce, per questa parte, titolo esecutivo ai sensi degli articoli 474 e 475 del codice di procedura civile.

[34] Art. 21. Limiti alla consultabilità dei documenti. I documenti conservati negli archivi di Stato sono liberamente consultabili, ad eccezione di quelli di carattere riservato relativi alla politica estera o interna dello Stato, che diventano consultabili 50 anni dopo la loro data, e di quelli riservati relativi a situazioni puramente private di persone, che lo diventano dopo 70 anni. I documenti dei processi penali sono consultabili 70 anni dopo la data della conclusione del procedimento. Il Ministro per l’interno, previo parere del direttore dell’archivio di Stato competente e udita la Giunta del Consiglio superiore degli archivi, può permettere, per motivi di studio, la consultazione di documenti di carattere riservato anche prima della scadenza dei termini indicati nel comma precedente. I documenti di proprietà dei privati, e da questi depositati negli archivi di Stato o agli archivi medesimi donati o venduti o lasciati in eredità o legato, sono assoggettati alla disciplina stabilita dal primo e dal secondo comma del presente articolo. I depositanti e coloro che donano o vendono o lasciano in eredità o legato documenti agli archivi di Stato, possono tuttavia porre la condizione della non consultabilità di tutti o di parte dei documenti dell’ultimo settantennio. Tale limitazione, come pure quella generale stabilita dal primo comma, non opera nei riguardi dei depositanti, dei donanti, dei venditori e di qualsiasi altra persona da essi designata. La limitazione è altresì inoperante nei confronti degli aventi causa dei depositanti, dei donanti, dei venditori, quando si tratti di documenti concernenti oggetti patrimoniali ai quali siano interessati per il titolo d’acquisto.

[35] Traducibili rispettivamente il processo di comunicazione e consultazione dei documenti d’archivio, e come utilizzo e diffusione delle informazioni contenute in documenti. V. M. GIANNETTO, “Archivi negati?” tutela della privacy e conservazione della memoria, in Notiziario del Ministero dei Beni Culturali, 56-58, 1998, pag. 125.

[36] Vedi nota sub 33.

[37] M. GIANNETTO, “Archivi negati?” tutela della privacy e conservazione della memoria, in Notiziario del Ministero dei Beni Culturali, 56-58, 1998, pag. 126.

[38] L’art. 21 del d.p.r. 1409/63, come modificato dal d.lgs. 281/99, stabilisce quindi che: “I documenti conservati negli archivi di Stato sono liberamente consultabili, ad eccezione di quelli di carattere riservato relativi alla politica estera o interna dello Stato, che diventano consultabili 50 anni dopo la loro data, di quelli contenenti i dati di cui agli articoli 22 e 24 della legge 31 dicembre 1996, n. 675, che diventano liberamente consultabili quaranta anni dopo la loro data. Il termine è di settanta anni se i dati sono idonei a rivelare lo stato di salute o la vita sessuale o rapporti riservati di tipo familiare. Anteriormente al decorso dei termini di cui al presente comma, i documenti restano accessibili ai sensi della disciplina sull’accesso ai documenti amministrativi; sull’istanza di accesso provvede l’amministrazione che deteneva il documento prima del versamento o del deposito. I documenti dei processi penali sono consultabili 70 anni dopo la data della conclusione del procedimento. Il Ministro dell’interno, previo parere del direttore dell’Archivio di Stato competente e udita la commissione per le questioni inerenti alla consultabilità degli atti di archivio riservati istituita presso il Ministero dell’interno, può permettere, se necessario per scopi storici, la consultazione di documenti di carattere riservato anche prima della scadenza dei termini indicati nel comma precedente. In tal caso l’autorizzazione è rilasciata, a parità di condizioni, ad ogni altro richiedente. I documenti di proprietà dei privati, e da questi depositati negli archivi di Stato o agli archivi medesimi donati o venduti o lasciati in eredità o legato, sono assoggettati alla disciplina stabilita dal primo e dal secondo comma del presente articolo, nonché dell’art. 21-bis. I depositanti e coloro che donano o vendono o lasciano in eredità o legato documenti agli archivi di Stato, possono tuttavia porre la condizione della non consultabilità di tutti o di parte dei documenti dell’ultimo settantennio. Tale limitazione, come pure quella generale stabilita dal primo comma, non opera nei riguardi dei depositanti, dei donanti, dei venditori e di qualsiasi altra persona da essi designata. La limitazione è altresì inoperante nei confronti degli aventi causa dei depositanti, dei donanti, dei venditori, quando si tratti di documenti concernenti oggetti patrimoniali ai quali siano interessati per il titolo d’acquisto”.

[39] Art. 107. Accesso agli archivi di Stato. 1. I documenti conservati negli archivi di Stato sono liberamente consultabili, ad eccezione di quelli di carattere riservato a norma dell’art. 110 relativi alla politica estera o interna dello Stato, che diventano consultabili 50 anni dopo la loro data, e di quelli riservati relativi a situazioni puramente private di persone, che lo diventano dopo 70 anni. I documenti dei processi penali sono consultabili 70 anni dopo la data della conclusione del procedimento.

[40] Art. 102. Codice di deontologia e di buona condotta 1. Il Garante promuove ai sensi dell’articolo 12 la sottoscrizione di un codice di deontologia e di buona condotta per i soggetti pubblici e privati, ivi comprese le società scientifiche e le associazioni professionali, interessati al trattamento dei dati per scopi storici.

2. Il codice di deontologia e di buona condotta di cui al comma 1 individua, in particolare:

a) le regole di correttezza e di non discriminazione nei confronti degli utenti da osservare anche nella comunicazione e diffusione dei dati, in armonia con le disposizioni del presente codice applicabili ai trattamenti di dati per finalità giornalistiche o di pubblicazione di articoli, saggi e altre manifestazioni del pensiero anche nell’espressione artistica;

b) le particolari cautele per la raccolta, la consultazione e la diffusione di documenti concernenti dati idonei a rivelare lo stato di salute, la vita sessuale o rapporti riservati di tipo familiare, identificando casi in cui l’interessato o chi vi abbia interesse è informato dall’utente della prevista diffusione di dati;

c) le modalità di applicazione agli archivi privati della disciplina dettata in materia di trattamento dei dati a scopi storici, anche in riferimento all’uniformità dei criteri da seguire per la consultazione e alle cautele da osservare nella comunicazione e nella diffusione.

[41] Art. 103. Consultazione di documenti conservati in archivi

1. La consultazione dei documenti conservati negli archivi di Stato, in quelli storici degli enti pubblici e in archivi privati è disciplinata dal decreto legislativo 29 ottobre 1999, n. 490, di approvazione del testo unico in materia di beni culturali e ambientali, come modificato dal presente codice.

[42] Art. 98. Finalità di rilevante interesse pubblico

1. Si considerano di rilevante interesse pubblico, ai sensi degli articoli 20 e 21, le finalità relative ai trattamenti effettuati da soggetti pubblici:

a) per scopi storici, concernenti la conservazione, l’ordinamento e la comunicazione dei documenti detenuti negli archivi di Stato e negli archivi storici degli enti pubblici, secondo quanto disposto dal decreto legislativo 29 ottobre 1999, n. 490, di approvazione del testo unico in materia di beni culturali e ambientali, come modificato dal presente codice;

b) che fanno parte del sistema statistico nazionale (Sistan) ai sensi del decreto legislativo 6 settembre 1989, n. 322, e successive modificazioni;

c) per scopi scientifici.
[43] Art. 10. Accesso agli archivi pubblici

1. L’accesso agli archivi pubblici è libero. Tutti gli utenti hanno diritto ad accedere agli archivi con eguali diritti e doveri.

2. Fanno eccezione, ai sensi delle leggi vigenti, i documenti di carattere riservato relativi alla politica interna ed estera dello Stato che divengono consultabili cinquanta anni dopo la loro data e quelli contenenti i dati di cui agli art. 22 e 24 della legge n. 675/1996, che divengono liberamente consultabili quaranta anni dopo la loro data. Il termine è di settanta anni se i dati sono idonei a rivelare lo stato di salute o la vita sessuale oppure rapporti riservati di tipo familiare.

3. L’autorizzazione alla consultazione dei documenti di cui al comma 2 può essere rilasciata prima della scadenza dei termini dal Ministro dell’interno, previo parere del direttore dell’Archivio di Stato o del sovrintendente archivistico competenti e udita la Commissione per le questioni inerenti alla consultabilità degli atti di archivio riservati istituita presso il Ministero dell’interno, secondo la procedura dettata dagli artt. 8 e 9 del decreto legislativo n. 281/1999.

4. In caso di richiesta di autorizzazione a consultare i documenti di cui al comma 2 prima della scadenza dei termini, l’utente presenta all’ente che li conserva un progetto di ricerca che, in relazione alle fonti riservate per le quali chiede l’autorizzazione, illustri le finalità della ricerca e le modalità di diffusione dei dati. Il richiedente ha facoltà di presentare ogni altra documentazione utile.

5. L’autorizzazione di cui al comma 3 alla consultazione è rilasciata a parità di condizioni ad ogni altro richiedente. La valutazione della parità di condizioni avviene sulla base del progetto di ricerca di cui al comma 4.

6. L’autorizzazione alla consultazione dei documenti, di cui al comma 3, prima dello scadere dei termini, può contenere cautele volte a consentire la comunicazione dei dati senza ledere i diritti, le libertà e la dignità delle persone interessate.

7. Le cautele possono consistere anche, a seconda degli obiettivi della ricerca desumibili dal progetto, nell’obbligo di non diffondere i nomi delle persone, nell’uso delle sole iniziali dei nominativi degli interessati, nell’oscuramento dei nomi in una banca dati, nella sottrazione temporanea di singoli documenti dai fascicoli o nel divieto di riproduzione dei documenti. Particolare attenzione è prestata al principio della pertinenza e all’indicazione di fatti o circostanze che possono rendere facilmente individuabili gli interessati.

8. L’autorizzazione di cui al comma 3 è personale e il titolare dell’autorizzazione non può delegare altri al conseguente trattamento dei dati. I documenti mantengono il loro carattere riservato e non possono essere ulteriormente utilizzati da altri soggetti senza la relativa autorizzazione.

[44] Art. 11. Diffusione

1. L’interpretazione dell’utente, nel rispetto del diritto alla riservatezza, del diritto all’identità personale e della dignità degli interessati, rientra nella sfera della libertà di parola e di manifestazione del pensiero costituzionalmente garantite.

2. Nel far riferimento allo stato di salute delle persone l’utente si astiene dal pubblicare dati analitici di interesse strettamente clinico e dal descrivere abitudini sessuali riferite ad una determinata persona identificata o identificabile.

3. La sfera privata delle persone note o che abbiano esercitato funzioni pubbliche deve essere rispettata nel caso in cui le notizie o i dati non abbiano alcun rilievo sul loro ruolo o sulla loro vita pubblica.

4. In applicazione di quanto previsto dall’art. 7, comma 2, del d.lgs. n. 281/1999, al momento della diffusione dei dati il principio della pertinenza è valutato dall’utente con particolare riguardo ai singoli dati personali contenuti nei documenti, anziché ai documenti nel loro complesso. L’utente può diffondere i dati personali se pertinenti e indispensabili alla ricerca e se gli stessi non ledono la dignità e la riservatezza delle persone.

5. L’utente non è tenuto a fornire l’informativa di cui all’art. 10, comma 3, della legge n. 675/1996 nei casi in cui tale adempimento comporti l’impiego di mezzi manifestamente sproporzionati.

6. L’utente può utilizzare i dati elaborati o le copie dei documenti contenenti dati personali, accessibili su autorizzazione, solo ai fini della propria ricerca, e ne cura la riservatezza anche rispetto ai terzi.

Di Lorenzo Alfredo

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