Delibazione delle sentenze ecclesiastiche di nullità e giudicato di divorzio: a proposito di una recente pronuncia della Cassazione (Cass. civ. Sez. I, 23 gennaio 2019, n. 1882)

Redazione 18/06/19
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di Concetta Marino

Sommario

1. Il contrasto tra giudicati quale condizione ostativa alla delibazione della sentenza ecclesiastica di nullità matrimoniale

2. Il rapporto intercorrente tra il giudicato italiano di divorzio e la delibazione della sentenza ecclesiastica di nullità matrimoniale

3. Segue: evoluzioni giurisprudenziali

4. Il caso esaminato dalla S.C. nell’ordinanza 23 gennaio 2019 n. 1882

5. Una possibile rimeditazione sul rapporto tra giudicato di divorzio e “giudicato” ecclesiastico di nullità del matrimonio

1. Il contrasto tra giudicati quale condizione ostativa alla delibazione della sentenza ecclesiastica di nullità matrimoniale

Con l’ordinanza n. 1882 del 23 gennaio scorso la Corte di cassazione torna sul controverso rapporto tra la delibazione della sentenza ecclesiastica di nullità del matrimonio e il giudicato di divorzio (recte: di cessazione degli effetti civili del matrimonio concordatario) per affermare che «la questione della spettanza e della liquidazione dell’assegno divorzile non è preclusa quando l’accertamento inerente all’impossibilità della prosecuzione della comunione spirituale e morale fra i coniugi – che costituisce il titolo giuridico dell’obbligo – sia passato in giudicato prima della delibazione della sentenza ecclesiastica di nullità del medesimo matrimonio».

Prima di procedere all’esame di questa recente pronuncia che, a mio sommesso modo di vedere, costituisce un ulteriore passo avanti nel modo di intendere il rapporto tra le due decisioni, ritengo utile procedere ad una rapida ricostruzione dell’evoluzione giurisprudenziale su tale delicata materia, non senza aver prima ricordato che nel giudizio di delibazione il giudice italiano deve verificare che la sentenza ecclesiastica dichiarativa della nullità del matrimonio sia conforme alle «altre condizioni richieste dalla legislazione italiana per la dichiarazione di efficacia delle sentenze straniere», così come disposto nell’art. 8.2 lett. c della l. n. 121 del 1985 che ha reso esecutivo in Italia l’Accordo di modifica del Concordato lateranense[1]. In virtù di tale rinvio alla normativa interna, il giudice della delibazione deve accertare la sussistenza di condizioni ulteriori rispetto a quelle specificamente prescritte nelle lett. a e b dell’art. 8.2[2] ed utili ad evitare una disarmonia tra giudicati.

Si tratta delle condizioni che impongono una verifica circa l’esistenza di una decisione interna contrastante o la pendenza di uno stesso, identico giudizio interno, il cui esito positivo impedirebbe l’ingresso in Italia delle sentenze ecclesiastiche matrimoniali.

Relativamente a tali condizioni – che se riteniamo il rinvio come statico sarebbero quelle prescritte nell’art. 797, nn. 4 e 5 c.p.c. ovvero, intendendo il rinvio come dinamico, quelle oggi prescritte nelle lett. e ed f dell’art. 64 della legge n. 218 del 1995[3] – la loro verifica è funzionale ad un coordinamento (logico o pratico) fra giudicati che implicherà una indagine sulla loro ampiezza oggettiva, per escludere appunto duplicazioni o contrasti.

Ovviamente la questione che ci accingiamo ad affrontare presuppone come già risolta, in senso affermativo, quella del superamento della riserva di giurisdizione ecclesiastica nelle cause di nullità del matrimonio concordatario che, esplicitamente prescritta dall’art. 34, comma 4 del concordato lateranense, non è stata invece riproposta nell’Accordo di modifica del 1984[4]. Pertanto, riconosciuta la giurisdizione del giudice civile italiano a conoscere della nullità dei matrimoni concordatari, potrebbe verificarsi un conflitto «frontale» fra un giudicato interno sulla nullità del matrimonio concordatario (ancorché evidentemente di segno negativo) ed una eventuale sentenze ecclesiastica dichiarativa dell’invalidità del vincolo. Dunque nell’ipotesi in cui il giudicato interno sia stato di rigetto dell’azione di impugnativa del matrimonio la sentenza ecclesiastica non potrebbe trovare ingresso in Italia[5].

[1] Il rinvio alla normativa interna, prescritto in termini generali dall’art. 8.2 lett. c) della l. n. 121 del 1985, è esplicitato con riferimento testuale agli artt. 796 e 797 c.p.c. nella lett. b) del punto 4 del protocollo addizionale che accompagna l’Accordo di modifica del concordato con funzione esplicativa.

[2] Ricordiamo che alla stregua dell’art. 8.2 lett. a) e b), in sede delibativa la Corte d’appello deve verificare che la sentenza ecclesiastica sia munita del decreto di esecutività emesso dal superiore organo ecclesiastico di controllo; che il giudice ecclesiastico era il giudice competente a conoscere della causa; che nel corso del procedimento ecclesiastico sia stato assicurate alle parti il diritto di agire e resistere in giudizio in difesa dei propri diritti sostanziali «in modo non difforme dai principi fondamentali dell’ordinamento italiano».

[3] Il dubbio circa il modo di intendere il rinvio alla normativa interna si pose dopo l’entrata in vigore della l. n. 218 del 1995 di riforma del sistema italiano di diritto internazionale privato e processuale che, come noto, ha abbandonato la regola della irrilevanza della sentenza straniera prima della sua delibazione con pronuncia costitutiva, prevedendone, piuttosto, il riconoscimento automatico. Questa riforma portò anche a dubitare della perdurante necessità di un giudizio di delibazione delle sentenze ecclesiastiche dichiarative della nullità del matrimonio concordatario, affermata invero dalla dottrina maggioritaria ed ormai anche dalla giurisprudenza. Il dubbio sulla qualificazione del rinvio sorse per effetto dell’abrogazione degli artt. 796 e ss. c.p.c. a seguito della l. n. 218 del 1995, cui, come già ricordato, il testo pattizio fa esplicito riferimento nel testo protocollare. Per una esposizione più esauriente della questione mi sia consentito di rinviare a Marino, La delibazione delle sentenze ecclesiastiche di nullità matrimoniale nel sistema italiano di diritto internazionale privato e processuale, Milano, 2005, 17 e ss.

[4] A questo si aggiunga che nell’art. 13 del Protocollo addizionale è esplicitamente prescritto che tutto quanto del precedente Concordato non sia stato riproposto nel nuovo Accordo deve ritenersi abrogato. Si tratta, lo ricordiamo, dell’argomento testuale forte elaborato dai sostenitori dell’abrogazione della riserva di giurisdizione ecclesiastica in tale materia. In giurisprudenza l’abrogazione della riserva di giurisdizione ecclesiastica è stata sancita espressamente dalle sez. un. della Cassazione con la nota sentenza n. 1824 del 1993, sebbene nello stesso anno la Corte Costituzionale con la sentenza n. 421 ribadiva l’esatto contrario, seppur con un semplice obiter dictum.

[5] Se si ritenesse di estendere la portata materiale della pronuncia di validità a tutti i potenziali vizi del vincolo, si deve poi coerentemente escludere la delibabilità di alcuna pronuncia ecclesiastica di nullità a fronte della previa formazione di un giudicato civile affermativo della validità del vincolo. Perché se invece si dovesse ritenere la portata materiale di tale giudicato circoscritta ai motivi di censura del vincolo specificamente allegati e conosciuti dal giudice civile, la delibabilità di una sentenza ecclesiastica dichiarativa della nullità del matrimonio sulla scorta di un motivo diverso da quello escluso dal giudice civile non sarebbe esclusa. Tra le due ricostruzioni la prima si fa preferire, rispondendo ad esigenze di carattere pubblicistico laddove garantisce la stabilità dello status coniugale accertato giudizialmente anche a fronte di una successiva pronuncia di segno opposto.

2. Il rapporto intercorrente tra il giudicato italiano di divorzio e la delibazione della sentenza ecclesiastica di nullità matrimoniale

La questione si complica a fronte di un giudicato interno di divorzio, rispetto al quale ci si chiede se esso possa ritenersi contrastante con la pronuncia di invalidità del vincolo resa dal giudice ecclesiastico, di cui si chiede la delibazione in Italia. Se intendessimo in senso lato la nozione di «contrarietà» cui fa riferimento la condizione di delibabilità prescritta dall’art. 64, lett. e) della l. n. 218 del 1995 (ovvero prescritta dall’art. 797, n. 5 c.p.c.) potremmo a tutta prima affermare che, stante l’innegabile carattere di pregiudizialità-dipendenza tra la questione di validità del vincolo e quella del suo scioglimento, la ricorrenza del giudicato di divorzio impedirebbe la delibazione della sentenza ecclesiastica dichiarativa della nullità del matrimonio per contrasto tra le due pronunce. Tale soluzione, pure ammissibile, non ha escluso un approccio dottrinale al problema operato sul controverso terreno dei limiti oggettivi del giudicato di divorzio, che ha condotto a soluzioni concordanti, seppur formulate entro ricostruzioni sistematiche assai differenti.

Giunge ad escludere che il giudicato di divorzio e le statuizioni patrimoniali ad esso accessorie possano essere superati per effetto del sopraggiungere del “giudicato” ecclesiastico di nullità matrimoniale chi ritiene che la domanda di scioglimento del vincolo comprenda strutturalmente in sé l’accertamento della sua validità, con la conseguente estensione della portata materiale del giudicato con efficacia preclusiva dell’azione di delibazione, ma anche chi, partendo da una concezione restrittiva dell’ambito oggettivo del giudicato di divorzio, ritiene che questo non impedisca la delibazione della sentenza ecclesiastica di nullità del matrimonio, senza però travolgere il giudicato di divorzio, segnatamente con riferimento alle statuizioni patrimoniali accessorie, alla stregua del principio di salvaguardia del giudicato da ogni ulteriore accertamento sia su fatti che su diritti incompatibili «con quello accertato nella sentenza ormai immutabile».

Invero in sede interpretativa l’orientamento prevalente, muovendo da una concezione restrittiva dell’ambito oggettivo del giudicato di divorzio, ha ricostruito il rapporto tra le due decisioni in termini di «reciproca indifferenza», escludendo che il giudicato di divorzio possa ostacolare la delibazione della sentenza ecclesiastica di nullità del matrimonio, il cui riconoscimento ne determina la sovrapposizione alla preesistente sentenza di scioglimento del vincolo, con il conseguente travolgimento degli effetti anche di ordine patrimoniale. È facile intuire come questa interpretazione abbia favorito le facili strumentalizzazioni della delibazione delle nullità ecclesiastiche da parte dell’ex coniuge obbligato, dopo il divorzio, a versare l’assegno di mantenimento all’altro coniuge[6].

[6] Così già Jemolo, Divorzio e validità del matrimonio, in Riv. dir. civ., 1975, II, p. 104. Ricordiamo infatti che a seguito della delibazione della sentenza ecclesiastica di nullità matrimoniale si applicherà la ben più limitata tutela patrimoniale prescritta negli artt. 129 e 129 bis c.c.

3. Segue: evoluzioni giurisprudenziali

Questa soluzione, seguita anche in giurisprudenza, è stata opportunamente rivista dalla Corte di cassazione con la sentenza n. 3345 del 1997 [7], nella quale, pur riconoscendo che «la sentenza di divorzio contiene una implicita valutazione della validità del vincolo, nei limiti di un accertamento incidentale e ai soli fini del decidere», continua ad ammettere la delibazione della sentenza ecclesiastica di nullità del matrimonio a fronte di un giudicato di divorzio, escludendo però che le pronunce di carattere patrimoniale accessorie a questo giudicato possano rimanere travolte per effetto del riconoscimento della sentenza ecclesiastica[8]. I giudici della S.C. ammettono la sopravvivenza alla delibazione delle sentenze ecclesiastiche di nullità matrimoniale della statuizione di carattere patrimoniale assunta in sede divorzile, condizionandola però al passaggio in giudicato della sentenza di divorzio[9]. Viene così ribadito, con maggiore incisività ed inequivocabilmente, che il giudicato di divorzio, pur non precludendo l’azione delibativa, non viene però travolto integralmente dall’esecutorietà della sentenza ecclesiastica di nullità matrimoniale e che le statuizioni di ordine economico, sulle quali sia già sceso il giudicato, non possono più essere poste in discussione per effetto della sopravvenuta dichiarazione di nullità del vincolo.

È questo un risultato certamente apprezzabile, frutto di una rimeditazione sul rapporto tra i giudicati di divorzio e di nullità del medesimo vincolo coniugale e di una maggiore attenzione alle regole che presiedono all’intangibilità del giudicato civile, che conduce ad una moralizzazione della condotta processuale delle parti, escludendo facili strumentalizzazioni delle pronunce ecclesiastiche che, intervenute successivamente a quelle interne di cessazione degli effetti civili del matrimonio, determinavano il travolgimento anche degli eventuali provvedimenti di carattere patrimoniale, offrendo all’ex coniuge gravato dall’assegno di mantenimento nei confronti del coniuge economicamente più debole il destro per sottrarsi definitivamente a tale obbligo.

Successivamente, con la sentenza n. 4202 del 2001, i giudici della Corte suprema tornano sul complesso rapporto tra giudicato di divorzio e sentenza ecclesiastica di nullità del matrimonio per abbandonare la tesi del «giudicato implicito» e ricondurre invece il nesso tra i due rapporti di scioglimento e di invalidità del vincolo nell’ambito dell’art. 34 c.p.c.[10], in applicazione del quale la deduzione e contestazione della questione pregiudiziale della (in)validità del vincolo nel giudizio di divorzio ne impone la corrispondente cognitio da parte del giudice civile con effetto pienamente accertativo, rientrando la questione di status tra quelle da decidere ex lege con efficacia di giudicato[11].

Esclusivamente in tale ipotesi, dunque, il giudicato di divorzio, includendo un accertamento sulla validità del vincolo avente efficacia di giudicato, precluderebbe la delibazione della sentenza ecclesiastica di nullità[12]. In questa prospettiva il rapporto tra il giudicato “esplicito” sulla validità del vincolo del giudice civile e il “giudicato” canonico da delibare si porrà evidentemente in termini di contrasto, conseguente al fatto stesso della prevenienza del decisum civile[13]. Dunque per stabilire se in concreto il giudicato di divorzio possa ostare alla delibazione della sopravvenuta sentenza ecclesiastica di nullità del matrimonio occorrerà aver riguardo, caso per caso, all’effettiva portata accertativa del giudicato interno.

Qualora la questione di invalidità non risultasse sollevata nel giudizio di divorzio, nonostante la delibazione della sentenza ecclesiastica di nullità matrimoniale, le disposizioni economiche adottate in sede di divorzio rimarrebbero ferme, operando l’effetto preclusivo in cui si sostanzia il principio del c.d. dedotto e deducibile, in virtù del quale i risultati, anche di carattere patrimoniale, raggiunti con il giudicato civile di divorzio non possano essere rimessi in discussione per effetto di una vicenda preesistente alla sua formazione, salvo il ricorrere di uno dei motivi di revocazione straordinaria di cui all’art. 395 c.p.c.[14]. Per cui in applicazione del principio che discende dall’art. 2909 c.c., una volta che sulla regolamentazione dei rapporti patrimoniali tra gli ex coniugi si sia formato il giudicato in sede divorzile, la sopravvenienza della nullità del matrimonio dichiarata dal giudice ecclesiastico non varrà a travolgerne gli effetti, ma sarà destinata piuttosto a coesistere con quel giudicato. In tal modo viene assicurato al coniuge debole un trattamento economico certamente più vantaggioso di quello che gli sarebbe riconosciuto a fronte della dichiarazione di nullità del matrimonio, cui si correlano i più modesti effetti economici disciplinati dagli artt. 129 e 129 bis c.c. che, in caso di matrimonio putativo, attribuiscono un’indennità solo temporanea a favore del coniuge di buona fede.

Secondo la soluzione preferita dai giudici della S.C. è, dunque, la semplice inerzia delle parti in seno al giudizio di divorzio circa la questione di (in)validità del matrimonio a rendere possibile la sopravvenienza del “giudicato” di nullità, che però non è più destinato a travolgere la pronuncia di divorzio, sovrapponendosi piuttosto a questa e facendo venir meno – inevitabilmente – solo gli effetti con esso incompatibili[15]. Il permanere delle disposizioni patrimoniali rese in sede divorzile, nonostante il sopravvenire della dichiarazione di nullità del matrimonio, ha finora presupposto che la sentenza di divorzio che le contempli sia assistita dal giudicato, un giudicato ritenuto dunque compatibile con quello di nullità.

[7] In Corr. giur., 1997, p. 1322 con nota di Balena, Delibazione di sentenza ecclesiastica di nullità e processo di divorzio; in Fam. e dir. 1997, p. 213 con nota di Carbone, L’annullamento del matrimonio non travolge più il divorzio; in Giust. civ. 1997, I, p. 1173 con nota di Giacalone, Rapporto tra giudizio civile di divorzio e sentenza ecclesiastica di nullità del matrimonio: verso un nuovo assetto?

[8] Perplessità sulla conciliabilità delle statuizioni economiche contenute nella sentenza di divorzio con la nullità del matrimonio dichiarata dal giudice ecclesiastico sono state manifestate in dottrina da Badiali, Il riconoscimento delle sentenze ecclesiastiche di nullità dei matrimoni nel nuovo sistema italiano di diritto internazionale privato, in Riv. dir. intern., 2000, p. 57 ss., il quale, pur consapevole della diversità dell’oggetto dei due giudizi e della diversa efficacia dei giudicati, ritiene che il giudicato di nullità e quello di divorzio non possano convivere nello stesso ordinamento.

[9] Oggi, che nel codice di diritto canonico sono state introdotte nuove regole processuali per la trattazione delle cause di nullità matrimoniale, per effetto del Motu proprio Mitis Iudex Dominus Iesus, voluto da Papa Francesco, pubblicato l’8 settembre 2015 ed entrato in vigore il successivo 8 dicembre, la nullità del matrimonio potrebbe essere dichiarata in esito al processo abbreviato disciplinato dai cann. 1683 e ss. c.j.c. che si svolge davanti al vescovo diocesano, su iniziativa congiunta delle parti, utilizzabile nei casi più evidenti di invalidità del sacramento in cui l’accertamento della nullità non richieda un’approfondita indagine istruttoria. È estremamente probabile che, se il rito canonico fosse questo, la sentenza di nullità del matrimonio e la sua delibazione potrebbero giungere ancor prima che nel giudizio di divorzio si formi il giudicato. È vero però che l’adozione del processo abbreviato impone un accordo dei coniugi, entrambi favorevoli alla dichiarazione di nullità del matrimonio, che dovrebbe escludere il loro contemporaneo interesse allo scioglimento civile del vincolo coniugale.

[10] Tesi invero già prospettata in dottrina da Balena, Le condizioni per la delibazione delle sentenze ecclesiastiche di nullità matrimoniale, in Matrimonio concordatario e tutela giurisdizionale, a cura di Cipriani, Napoli, 1992, p. 58. La sentenza può essere letta in Giust. civ., 2001, p. 1479 con nota critica di M. Finocchiaro, Sentenza di divorzio, delibazione della pronuncia ecclesiastica di nullità di quel matrimonio e (inesistenza di) giustificati motivi per la revisione delle disposizioni concernenti l’assegno periodico.

[11] Quanto alla possibilità che l’eccezione di nullità del matrimonio venga rilevata d’ufficio – fermo restando ovviamente il rispetto del principio del contraddittorio, così come oggi esplicitamente imposto dal 2° comma dell’art. 101 c.p.c. – il sospetto della violazione del principio dispositivo, dando luogo quella eccezione ad una causa pregiudiziale da decidere ex lege con efficacia di giudicato, potrebbe giustificarsi, in via del tutto eccezionale, per la «rilevanza meta-individuale» dell’interesse alla certezza del rapporto. In questi termini, se mal non intendo, Consolo, Oggetto del giudicato e principio dispositivo, in Riv. trim. dir. proc. civ., 1991, p. 215 ss., spec., pp. 217 ss e 233 ss.; Id., Domanda giudiziale, in Dig. Disc. Priv., Sez. civ., Torino, 1994, VII, p. 44 ss., spec. p. 107. Diversamente Pagni, Le azioni di impugnativa negoziale. Contributo allo studio della tutela costitutiva, Milano, 1998, p. 488, nota 72. Analogamente dubbioso Balena, Delibazione di sentenza ecclesiastica di nullità, cit., p. 1324, spec. nota 23. Pur con gli opportuni distinguo, ricordo che sulla analoga, controversa questione della rilevabilità d’ufficio della nullità del contratto nell’ambito di un giudizio promosso per la sua risoluzione si è pronunciata la Cass. a sez. un. (4 settembre 2012, n. 14828 in Corr. giur., 2012, p. 869, con nota parzialmente critica di Pagliantini) per riconoscere la rilevabilità d’ufficio dell’eccezione di nullità del contratto, questione sulla quale, solo a fronte di una specifica domanda di accertamento, si formerà il giudicato. Così già in dottrina Consolo, Nullità del contratto, suo rilievo totale o parziale e poteri del giudice, in Riv. trim dir. e proc. civ., 2011, suppl. fasc. 1, p. 7 ss., spec. p. 22.

[12] Pur consapevoli che l’accertamento della validità del vincolo coniugale si pone come necessario antecedente logico-giuridico rispetto al tema dello scioglimento del matrimonio, secondo l’interpretazione preferita dalla giurisprudenza, l’inerzia delle parti nel giudizio di divorzio renderebbe possibile il sopraggiungere di un giudicato di nullità, destinato a sovrapporsi a quello di divorzio.

[13] In questo senso Cass. 14 novembre 2008, n. 27236, che così puntualizza: “ove nel giudizio di divorzio le parti non introducano esplicitamente questioni sulla esistenza e sulla validità del vincolo … l’esistenza e la validità del matrimonio non formano oggetto di specifico accertamento suscettibile di determinare la formazione del giudicato”. Analogamente Cass. 14 luglio 2012, n. 12989 (entrambe consultabili nella Banca dati on line DeJure). In questa prospettiva si inserisce anche Cass. 4 marzo 2005, n. 4795, in Fam. e dir., 2006, p. 30 ss. con nota di Vanz, Sul rapporto tra sentenza ecclesiastica di nullità matrimoniale e sentenza di divorzio. I giudici della Cassazione, pur escludendo che il giudicato di divorzio possa impedire la delibazione della sentenza ecclesiastica, continuano ad affermare che il diritto di ricevere l’assegno di divorzio diviene intangibile se «su tale statuizione si sia formato il giudicato». In tal senso anche Cass. 18 settembre 2013, n. 21331. Tale evenienza è senz’altro esclusa qualora la cessazione degli effetti civili del matrimonio concordatario sia stata convenuta tra i coniugi in sede di negoziazione assistita ai sensi dell’art. 6 del D.L. n. 132/2014. Nonostante per esplicita previsione del 3° comma dello stesso art. 6, l’accordo raggiunto con il consenso di entrambi i coniugi e previo nullaosta o autorizzazione del Procuratore della Repubblica, produca gli stessi effetti della sentenza di divorzio.

[14] Così specificamente Cass. Civ., sez. I, 23 marzo 2001, n. 4202, in Corr. giur., 2001, 1169 e ss. con nota di De Marzo ed ivi, 2002, 1202 e ss. con nota di Marino, Sul rapporto tra giudicato di divorzio e delibazione delle sentenze ecclesiastiche di nullità matrimoniale. In senso assolutamente conforme Cass. Civ., sez. I, 25 giugno 2003, n. 10055 e Cass. Civ., sez. I, 4 marzo 2005, n. 4795, in Fam. e dir., 2006, 30 e ss., con nota di Vanz.

[15] Si tratta degli effetti secondari della sentenza di divorzio che essendo però parzialmente analoghi a quelli riconducibili alla pronuncia di invalidità, di fatto, sono estremamente limitati. In tal senso cfr. Balena, Sui problemi derivanti dal «concorso» tra la giurisdizione ecclesiastica e la giurisdizione civile in materia di nullità del matrimonio, in Foro it., 1995, I, 279, spec. 292.

4. Il caso esaminato dalla S.C. nell’ordinanza 23 gennaio 2019 n. 1882

Nella recente ordinanza n. 1882 del gennaio scorso i giudici della S.C., chiamati a pronunciarsi sulla legittimità della decisione resa dai giudici d’appello, che avevano statuito sulla spettanza dell’assegno di divorzio sebbene nel corso del giudizio fosse stata delibata la sentenza ecclesiastica di nullità del matrimonio, giungono ad affermare che il sopraggiungere della delibazione della sentenza ecclesiastica di nullità del matrimonio non avrebbe alcuna forza preclusiva sulla trattazione della questione dell’assetto patrimoniale tra gli ex coniugi, dipendendo la regolamentazione dei relativi rapporti dall’accertamento inerente all’impossibilità della prosecuzione della comunione spirituale e morale tra i coniugi. Nel caso di specie era accaduto che nel corso del giudizio di divorzio la statuizione relativa allo stato personale fosse stata resa disgiuntamente da quelle inerenti ai risvolti economici e fosse passata in giudicato.

In questa decisione i giudici di legittimità affermano che è il passaggio in giudicato dell’accertamento dell’impossibilità alla continuazione della comunione materiale e spirituale fra i coniugi intervenuto prima della delibazione della sentenza ecclesiastica dichiarativa della nullità del matrimonio a costituire il titolo giuridico su cui si fonda l’obbligo di mantenimento conseguente allo scioglimento del matrimonio, non invece la sua validità, oggetto della sentenza ecclesiastica. Pertanto, la questione della spettanza e della quantificazione dell’assegno divorzile, sebbene non assistita dalla stabilità del giudicato nel momento in cui interviene la delibazione della sentenza ecclesiastica di nullità matrimoniale, è ancora ammissibile.

Ciò significa che il giudizio di divorzio potrà proseguire per definire i rapporti patrimoniali tra gli ex coniugi anche quando sia stata delibata la sentenza ecclesiastica che abbia dichiarato la nullità del matrimonio. Non pretendere il passaggio in giudicato della sentenza di divorzio nella parte relativa alle statuizioni di carattere patrimoniale, considerate ancora ammissibili nonostante il sopraggiungere della sentenza dichiarativa della nullità del matrimonio, a mio sommesso modo di vedere, è una vera innovazione in quello che sembrava essere un orientamento giurisprudenziale ormai consolidato (come ricordato supra ai §§ 2 e 3), che tale resistenza consente solo a fronte del giudicato ed in ossequio al principio per cui il giudicato non può essere rimesso in discussione o finanche vanificato dall’allegazione di fatti che avrebbero potuto dedursi nel giudizio di divorzio.

In particolar modo i giudici della S.C. escludono che la pronuncia di nullità del matrimonio resa dal giudice ecclesiastico possa avere carattere preminente rispetto alla pronuncia di cessazione degli effetti civili del medesimo matrimonio, sulla scorta di una autonomia tra i due giudizi, aventi, a dire della S.C., finalità e presupposti diversi, tali da escluderne l’incompatibilità. I giudici della Cassazione, negano l’esistenza di uno status di divorziato ed ammettono piuttosto che per effetto del giudicato di divorzio i coniugi riacquisiscano lo stato libero, con il quale la declaratoria di nullità del vincolo coniugale non si porrebbe in contrasto. In altri termini è esclusa una incompatibilità tra le due pronunce che, piuttosto, possono coesistere. Muovendo da questa premessa necessaria, considerando la condizione di delibabilità posta dall’art. 64, lett. e) della l. n. 218 del 1995 (o dall’art. 797, n. 5 c.p.c.), i giudici della Cassazione giungono ad affermare che la questione dei rapporti patrimoniali tra gli ex coniugi possa ancora essere definita, nonostante la delibazione della sentenza ecclesiastica di nullità del matrimonio. Pur non condividendo la scelta della S.C. di ammettere comunque le statuizioni di carattere patrimoniale da rendersi in sede di divorzio prescindendo dalla stabilità del giudicato, non posso nascondere che essa avrebbe certamente il pregio di assicurare al coniuge debole il trattamento economico prescritto dall’art. 5 della legge n. 898 del 1970, anziché quello, meno garantista, prescritto per il matrimonio putativo dagli artt. 129 e 129 bis c.c. altrimenti applicabile.

Si realizzerebbe così, per mano giudiziale, un risultato da tempo vagheggiato in dottrina[16], che vorrebbe estesa anche al coniuge il cui matrimonio sia stato dichiarato nullo la disciplina contemplata nella legge di divorzio circa la condanna di uno dei coniugi al versamento a favore dell’altro di una somma periodica per il suo mantenimento, consentendo al contempo la trattazione di una questione, qual è quella del mantenimento del coniuge economicamente debole, che presuppone però l’esistenza del vincolo coniugale che i giudici ecclesiastici hanno piuttosto escluso con sentenza ormai efficace anche per l’ordinamento italiano.

Portando alle estreme conseguenze l’affermazione per cui vi sarebbe una piena autonomia tra i due giudizi dovremmo ritenere possibile anche la prosecuzione del giudizio di scioglimento del matrimonio ancora in corso sulla questione di status, nonostante la sopravvenienza della delibazione della sentenza ecclesiastica di nullità matrimoniale. Invero tale evenienza non è ipotizzabile. È fin troppo chiaro che se il vincolo coniugale che si chiede di sciogliere sia stato dichiarato nullo quel giudizio non potrà proseguire, non potendosi sciogliere un vincolo che è stato dichiarato come mai venuto in essere, costituendo, indiscutibilmente, l’esistenza e la validità del vincolo un presupposto della sentenza di divorzio. Insomma non si può parlare di una piena autonomia tra le due decisioni, dato che l’una, quella di nullità, è destinata ad incidere sull’altra. In altri termini non può esservi compatibilità tra gli effetti del giudicato di divorzio e quelli del giudicato concernente la nullità del vincolo, trattandosi di domande che pur avendo petitum e causa petendi differenti incidono pur sempre sullo stesso rapporto coniugale che, seppur affetto da “patologie” differenti, è in entrambi i casi destinato ad una fine anticipata e traumatica.

Insomma non può nascondersi che quella tra giudicato di divorzio e “giudicato” ecclesiastico di nullità è una convivenza problematica, vertendo entrambe le pronunce sullo stesso vincolo che secondo il giudice civile non può essere mantenuto né ricostituito e, secondo il giudice ecclesiastico, non è mai sorto validamente.

[16] V. per tutti Quadri, Le conseguenze patrimoniali del disfacimento del matrimonio, ovvero sacro e profano nei rapporti tra divorzio e delibazione delle sentenze ecclesiastiche di nullità matrimoniale, in Foro. it., 1987, I, 934, il quale auspica che il coniuge economicamente più debole il cui matrimonio sia stato dichiarato nullo possa beneficiare delle medesime condizioni economiche riconosciute al coniuge divorziato. Auspica un intervento legislativo in tal senso Bianca, Il matrimonio concordatario nella prospettiva civilistica, in Riv. dir. civ., 1986, I, 13. Sulla questione sono anche intervenuti i giudici della Consulta investiti della questione di legittimità costituzionale dell’art. 18 della l. n. 847 del 1929 che, in caso di dichiarazione di nullità del matrimonio concordatario, prescrive l’applicazione del regime patrimoniale del matrimonio putativo previsto negli artt. 129 e 129 bisc.c., sì da realizzare, a dire dei giudici remittenti, una disparità di trattamento del coniuge economicamente più debole il cui matrimonio sia stato dichiarato nullo anche a p>Fam. e dir., 2002, 5 ss. con commento di Frezza, Matrimonio concordatario nullo e assegno matrimoniale: una sentenza interlocutoria della Consulta) la questione è stata ritenuta infondata dai giudici delle leggi considerando la “diversità strutturale delle due fattispecie”, di nullità e di divorzio, che giustifica la disparità di trattamento degli ex coniugi. Nella medesima sentenza i giudici della Consulta reputano anche infondata la questione di legittimità costituzionale sollevata con riguardo agli artt. 129 e 129 bisc.c., considerati dal giudice remittente lesivi del principio di uguaglianza delle parti nella parte in cui non prevedono che gli effetti patrimoniali del matrimonio dichiarato nullo sulla base di una sentenza ecclesiastica delibata in Italia non siano disciplinati dagli artt. 5 ss. l. n. 898/1970, nelle ipotesi in cui la nullità sia stata dichiarata dopo che si sia consolidata tra i coniugi una concreta comunanza di vita.

5. Una possibile rimeditazione sul rapporto tra giudicato di divorzio e “giudicato” ecclesiastico di nullità del matrimonio

Mi chiedo se non sia preferibile, o quantomeno possibile, rimeditare sulla questione del rapporto tra giudicati, di divorzio e di nullità, in termini di “contrasto”, allontanandosi dal problematico terreno dei limiti oggettivi del giudicato di divorzio che, secondo la ricostruzione preferita anche in giurisprudenza, consentirebbe: a) la delibazione della sentenza ecclesiastica dichiarativa della nullità del matrimonio sopravvenuta al giudicato di divorzio senza che questo rimanga travolto; b) la coesistenza delle due pronunce e dunque dei due status, di coniuge “divorziato” e di non coniuge.

Se intendessimo il concetto di “contrarietà” cui fa riferimento l’art. 64 lett. e) della l. n. 218 del 1995, riproponendo quanto già disposto dall’art. 797, n. 5 c.p.c., in termini lati, potremmo giungere a ritenere contrastanti due pronunce che, diverse oggettivamente da un punto di vista formale, da un punto di vista sostanziali risultano incompatibili. Tale interpretazione non mi sembra trovi ostacoli nel dato testuale della condizione di delibabilità in cui si parla genericamente di “contrarietà”, senza richiedere l’identità oggettiva e soggettiva tra le due cause generatrici dei giudicati contrastanti. Tale nozione potrebbe essere intesa nel senso che il legislatore, a fronte di due sentenze definitive, si accontenti, al fine di precludere l’ingresso del giudicato straniero, della loro “incompatibilità”. Se così fosse prescindendo dalla verifica degli elementi di identificazione delle domande sul matrimonio proposte davanti al giudice civile ed al giudice ecclesiastico, potremmo riscontrare una situazione di “contrasto” anche qualora non si rinvenisse un vero conflitto di giudicati.

Così avendo riguardo al rapporto tra giudicato interno di divorzio e giudicato ecclesiastico di nullità matrimoniale è innegabile che con la sentenza di nullità il giudice tornerebbe a statuire sullo status personale di coniuge, che è già stato sciolto con la sentenza di divorzio passata in giudicato, con la quale è stato anche definito l’assetto dei rapporti patrimoniali tra gli ex coniugi. Dunque, quando interviene la pronuncia di nullità lo status coniugale ha già ricevuto una sua regolamentazione, che è quella prescelta dai coniugi. Pertanto, al ricorrere di una simile evenienza bisognerebbe comprendere in concreto quale possa essere l’interesse che induce le medesime parti ad agire ancora in giudizio per chiedere la nullità del matrimonio già sciolto o la delibazione della sentenza di nullità resa dal giudice ecclesiastico[17].

Accedere alla concezione lata della nozione di “contrarietà” ci consentirebbe di ritenere che il giudicato di divorzio, indipendentemente dalla sua portata accertativa, avrebbe sempre la forza di ostare alla delibazione della sentenza ecclesiastica di nullità del matrimonio. È questa una ricostruzione certo dirompente rispetto all’odierno assetto giurisprudenziale, che discetta piuttosto di una coesistenza tra i due giudicati, ma forse più rispettosa dell’armonia delle decisioni.

Qualora poi si ritenesse questa soluzione non rispettosa degli impegni intercorsi tra Stato italiano e Chiesa cattolica con gli Accordi concordatari, sarebbe preferibile ritenere, come hanno fatto finora i giudici della Cassazione, che soltanto le statuizioni patrimoniali assunte in sede divorzile ed assistite dalla stabilità del giudicato siano destinate a sopravvivere alla delibazione della sentenza ecclesiastica dichiarativa della nullità del matrimonio, con la conseguenza che in mancanza di un giudicato su tali statuizioni, al sopraggiungere della dichiarazione di nullità del matrimonio i rapporti patrimoniali tra gli ex coniugi saranno disciplinati alla stregua degli artt. 129 e 129 bis c.c.

[17] A tale ultimo riguardo l’annotazione nei registri di stato civile della sentenza delibativa della pronuncia ecclesiastica della nullità del matrimonio avrebbe l’unico effetto «di dare pubblicità a ciò, che le parti sono libere di fronte alla Chiesa». Così Jemolo, Divorzio e validità del matrimonio, in Riv. dir. civ., 1975, II, 104, il quale con estrema fermezza riteneva che non si possa più discutere dell’efficacia del vincolo coniugale dopo che questo sia venuto meno attraverso il passaggio in giudicato della sentenza di divorzio, affermando altresì che chi agisce per la cessazione degli effetti civili del matrimonio concordatario ne riconosce implicitamente la validità e chi resiste in quel giudizio senza proporre «l’eccezione preliminare d’inesistenza del vincolo» ne riconosce l’efficacia che non potrà più essere rimessa in discussione.

Redazione

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