Dal danno tanatologico al danno catastrofale

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Il presente contributo analizza l’evoluzione della risarcibilità del danno non patrimoniale con particolare attenzione per la configurabilità del discusso danno tanatologico, in relazione al danno catastrofale oggetto della recente pronuncia della Corte di Cassazione del 19 settembre del 2023.

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Indice

1. Il danno non patrimoniale: evoluzione storica

Nell’impostazione classica del sistema della responsabilità civile, tra responsabilità per danno patrimoniale e danno non patrimoniale vi era una separazione netta e finalizzata a scopi diversi. La prima, improntata alla redistribuzione della ricchezza a seguito di uno squilibrio illecito della stessa. Infatti, la responsabilità per danno patrimoniale sia essa da fatto illecito che da inadempimento contrattuale ha sempre mantenuto la funzione di ristabilire l’assetto patrimoniale del danneggiato allo stato quo ante al danno subito. In tal senso, prende corpo il principio regolatore della materia che impone all’interprete di risarcire il danno subito non come evento, ma come conseguenza ex art. 1223 c.c. in maniera integrale ed effettiva senza generare vantaggi ulteriori e perciò non giustificati. Conseguenza diretta, di tale impostazione è la così detta atipicità del danno patrimoniale. La responsabilità per danno non patrimoniale, invece, da sempre legata all’espressa previsione per legge che ne connatura il carattere della tipicità, trovava fondamento nella funzione retributiva-sanzionatoria [1] così come in origine concepita nel diritto romano. Tale collegamento funzionale, si evince non solo dal richiamo alla fonte legale, la quale palesa esigenze di garanzie e certezza ma, dalla sua riconducibilità alla disposizione dell’art. 185 c.p. in materia di risarcimento per danni civili conseguenti alla commissione di un reato. Conseguenza di tale applicazione sistematica era la riconduzione del danno non patrimoniale al solo danno morale (pretium doloris) risarcibile solo nel caso di commissione di un reato o solo nei casi espressamente disciplinati per legge.
Il sistema comincia a mutare con l’avvento della Costituzione con la quale si realizza una rivoluzione copernicana dei principi e dei valori fondanti lo Stato funzionalizzati alla tutela della persona. Nell’ottica personalistica, infatti, comincia a delinearsi un sistema improntato alla tutela dei diritti della persona, tra tutti quello alla salute. Per tale ragione l’art. 2059 c.c. per come interpretato risultava non funzionale allo scopo costituzionale. La valorizzazione dei diritti della persona, infatti, ha segnato il superamento del principio patrimonialistico in favore del principio personalistico-solidaristico e ne è conseguita l’inidoneità del sistema delle tutele risarcitorie classiche sopra richiamate. Per tale ragione, sia la dottrina che la giurisprudenza furono impegnate in un lungo lavoro interpretativo al fine di trovare un fondamento legale alla risarcibilità della sfera personale. In un primo momento si pensò di utilizzare la disposizione dell’art. 2043 c.c. intesa come clausola generale, valorizzando il requisito dell’ingiustizia del danno. In tal modo, si giungeva a risarcire il danno biologico in ottica patrimonialistica [2] (monetizzazione del danno alla salute), si pensi alla perdita della capacità reddituale. L’ampio ventaglio delle situazioni giuridiche esistenziali e con esse le tipologie di danno che potevano essere ricondotte alla persona da una parte e l’insostenibilità dell’orientamento patrimonialista tout court dall’altra, hanno condotto al superamento del limite legale espresso nell’art. 2059 c.c. In tal modo, dal termine legge si è giunti alla Costituzione quale legge fondamentale dello Stato e dalle sue disposizioni di principio si è giunti a legittimare la risarcibilità della sfera personale in base alla sua sede naturale, il danno non patrimoniale ex art. 2059 c.c., letto in combinato all’art. 2 Cost. (Cassazione sentenze gemelle del 2003 nn. 8827-8828 e Corte Costituzionale sent. n. 233 del 2003).  

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2. Dalle sentenze San Martino del 2008 alle sentenze San Martino bis del 2019

Con l’approdo della Cassazione all’interpretazione costituzionalmente orientata dell’art. 2059 c.c. volta a colmare una lacuna di sistema a fronte dell’evoluzione personalistica dello stesso, si generò però un problema di eccesso di tutela dovuto alla proliferazione delle richieste di risarcimento anche a fronte di interessi non propriamente meritevoli di tutela da parte dell’ordinamento giuridico, in quanto ritenuti effimeri e bagattellari. Si pensi, sul punto, al problema della risarcibilità o meno di un non identificato diritto alla felicità, successivamente non riconosciuto come interesse giuridicamente rilevante o alla risarcibilità dell’essere stati sedotti al fine di contrarre matrimonio. Infatti, dall’interpretazione estensiva della clausola di solidarietà di cui all’art. 2 Cost. che riconosce la tutela dei diritti fondamentali della persona, si pervenne al risultato demagogico e destrutturante del ritenere risarcibile ogni tipo di interesse vantato dal danneggiato. Al fine di porre un freno a tale problematiche ,in combinato all’obiettivo di descrivere in maniera organica la materia del danno non patrimoniale, intervenne nel 2008 la Corte di Cassazione a Sezioni Unite, le c.d. sentenze gemelle di San Martino. Principio ordinatore di tali interventi fu la necessità di ristabilire un equilibrio logico giuridico nel sistema dei danni risarcibili partendo proprio dalla struttura del danno non patrimoniale. A differenza dell’orientamento giurisprudenziale precedente, fondato sulla considerazione del danno non patrimoniale come genus dal quale potevano riconoscersi autonome categorie di danno, danno biologico, danno morale e danno esistenziale, le sentenze di San Martino invece, invertono totalmente la rotta affermando il principio dell’unitarietà del danno non patrimoniale, in combinato al principio dell’integralità del risarcimento in conformità al rispetto del divieto di duplicazione delle voci di danno ex artt. 2056 e 1226 c.c.. Conseguenza di tale impostazione è considerare le voci di danno, biologico (lesione integrità psico-fisica), morale (patema d’animo) ed esistenziale [3] (danno dinamico relazionale) con valore puramente descrittivo. Allo stesso tempo si attribuisce al giudice il compito di personalizzare il risarcimento attraverso l’analisi del caso concreto (applicazione del punto di invalidità sulla base delle tabelle milanesi e dell’adeguamento all’età del danneggiato ed eventuale successivo aumento in ragione della valutazione del caso concreto effettuata dal giudice, c.d. personalizzazione). All’indomani di tali pronunce, il dibattito sul punto non ebbe un esito univoco, poiché l’omnicomprensività del danno non patrimoniale veniva osteggiata da quanti ritenevano che per garantire l’effettività della tutela in ragione della giustizia del caso concreto, il giudice avrebbe dovuto distinguere e valutare separatamente, in via autonoma quindi, i tipi di danno non patrimoniale per poi giungere alla quantificazione per somma in via di liquidazione. All’interno di questo dibattito, si sviluppò poi il dilemma legato alla risarcibilità autonoma del danno esistenziale. Infatti, mentre i sostenitori della risarcibilità in via autonoma dello stesso consideravano tale tipo di danno diverso dal danno biologico, quanti vi si opposero si basavano proprio sul rispetto del divieto di duplicazione del risarcimento, in base al principio che lo stesso non ha il fine di avvantaggiare il danneggiato, in quanto vi era coincidenza tra quest’ultimo e il danno biologico. In sostanza, ed è questa la tesi che poi ha prevalso, si affermava che la lesione all’integrità fisica e dunque al diritto alla salute (danno biologico) abbraccia anche le conseguenze relazionali che, proprio in quanto conseguenze del primo, vengono già comprese nella valutazione del quantum del risarcimento in sede di liquidazione [4]. Non da ultimo, è lo stesso legislatore che ha poi sconfessato l’approdo omnicomprensivo del danno non patrimoniale attraverso il riconoscimento dell’autonomia del danno morale ex art. 139 cod. ass. [5] dal danno biologico, inteso come lesione all’integrità fisica e peggioramento della qualità della vita (il danno alla salute è un danno “dinamico-relazionale”. Se non avesse conseguenze “dinamico-relazionali”, la lesione della salute non sarebbe nemmeno un danno medico-legalmente apprezzabile e giuridicamente risarcibile). Tali approdi interpretativi sono stati poi cristallizzati con le pronunce della Cassazione del 2019, le c.d. San Martino bis (decalogo) ove le Sezioni Unite hanno riaffermato l’irrisarcibilità in via autonoma del danno esistenziale poiché insito nel danno biologico il quale, infatti copre i pregiudizi relazionali derivanti dalla lesione psico-fisica subita, affermando che solo in presenza di conseguenze anomale (criterio della generalizzazione delle conseguenze dannose secondo l’id quod plerumque accidit) il giudice può procedere ad un aumento del quantum in via equitativa (personalizzazione) previa puntuale allegazione. In tale occasione, la Corte Suprema di Cassazione è intervenuta anche a delineare i confini della risarcibilità del danno da perdita lavorativa, che se limitato alla mera insofferenza patita senza perdite reddituali (danno da cenestesi lavorativa) non assume autonomia rispetto al danno biologico. Invece, nel caso in cui il danneggiato abbia perduto il lavoro ma, non vi sia alcuna compromissione della capacità lavorativa (perdita del lavoro attuale) il risarcimento comprenderà il lucro cessante parametrato al reddito effettivamente perso, mentre quando risulti definitivamente compromessa la capacità lavorativa il risarcimento dovrà essere parametrato al redditto perso moltiplicato per gli anni lavorativi che il danneggiato avrebbe svolto. In merito al danno morale, le Sezioni Unite hanno riconfermato la risarcibilità  del danno morale in via autonoma.

3. Danno tanatologico e danno catastrofale

Le Sezioni Unite del 2008, sopra richiamate, nella disanima sul danno non patrimoniale sono intervenute anche sul c.d. danno tanatologico inteso come danno da perdita della vita trasmissibile iure successionis. Nel panorama dei diritti risarcibili, controversa è ancora oggi la possibilità di considerare tale anche la perdita della vita. Di creazione giurisprudenziale, il danno tanatologico trova la sua ratio proprio nell’importanza del bene vita, il quale può considerarsi il diritto senza il quale non esisterebbero diritti. Lo stesso codice civile subordina l’acquisizione della capacità giuridica alla nascita e l’esercizio di taluni diritti riconosciuti al concepito alla venuta ad esistenza dell’individuo. Parallelamente, l’individuo cessa di essere centro di imputazione giuridica con la morte (cessazione delle funzioni cerebrali), così che da questo momento non possono essergli riconosciute posizioni giuridiche. Il dibattito sull’ammissibilità o meno della risarcibilità del bene vita iure successionis verte, quindi, nel bilanciamento tra l’importanza del bene vita in relazione alla risarcibilità del bene salute, suo postulato e la mancanza di titolare che può esercitare il diritto. Sul punto la Cassazione con le sentenze gemelle del 2008 non ha riconosciuto la risarcibilità della perdita della vita, intesa nel senso sopra descritto ma, in coerenza con l’assetto dei valori costituzionali ha affermato la risarcibilità, sia del danno da perdita parentale esercitabile dai familiari del defunto iure proprio, sia il danno catastrofale o da lucida agonia esercitabile iure successionis nel caso in cui la vittima abbia perso la vita dopo breve tempo dalle lesioni subite e  rimasta lucida, abbia vissuto con consapevolezza l’attesa della fine (sofferenza per la percezione della fine della propria vita-danno morale). Sul punto, non mancarono opinioni divergenti e dubbi interpretativi in merito alla questione tempo necessario per potersi dire configurato il suddetto danno catastrofale, in relazione all’effettiva sofferenza patita dal soggetto. Ad esempio, la Cassazione con la sentenza n. 1072/2011 (in senso conforme a Cass. n. 3260/2007 e n. 4783/2001) affermò che: “ In caso di lesione dell’integrità fisica – nella specie conseguente ad un infortunio sul lavoro – che abbia portato a breve distanza di  tempo ad esito letale, è configurabile un danno biologico di natura psichica subito dalla vittima che abbia percepito lucidamente l’approssimarsi della morte, reclamabile dai suoi eredi, la cui entità dipende non già dalla durata dell’intervallo tra la lesione e la morte bensì dall’intensità della sofferenza provata; il diritto al risarcimento di tale danno è trasmissibile agli eredi”.
Nell’evoluzione della giurisprudenza, però, si assiste da una parte, ad un parziale cambio di rotta giustificato sempre nell’ottica di parametrare la risarcibilità non al bene vita ma alla lesione subita in relazione alla percezione della sofferenza interiore culminata con la rilevanza del fattore tempo e dall’altra nella inadeguatezza di tale interpretazione in relazione alle esigenze di giustizia. Infatti, determinare l’an e il quantum in relazione al fattore tempo ha comportato risarcire in maniera più consistente chi fosse vissuto più a lungo, svuotando di senso logico la ratio sottesa a tale tipo di danno, la sofferenza.
L’intervento delle Sezioni Unite del 2019 (c.d. decalogo o San Martino bis) ha inciso notevolmente anche sulla sistematica del danno catastrofale in rapporto al danno terminale. In particolare con la sentenza n. 28989 del 2019 la Cassazione ribadisce l’irrisarcibilità del danno al bene vita in sé considerato poiché, essendo la stessa un bene autonomo e diverso dal bene salute, questa può essere esercitata solo restando per l’appunto in vita. Ne consegue che, venendo meno il titolare del bene non vi è modo per esercitare tale diritto, superando la teoria del danno da rimbalzo, poiché non vi è alcun patrimonio a cui ricollegare il credito e per tale ragione non può parlarsi di risarcibilità della perdita della vita iure hereditatis. Per tale ragione, la Corte Suprema afferma che gli unici pregiudizi risarcibili iure hereditatis, in caso di illecito mortale sono il danno biologico terminale (danno da invalidità temporanea totale) e il danno catastrofale. Orbene, con il danno biologico terminale si intende non la perdita della vita, ma la lesione alla salute che sarà risarcibile solo nel caso in cui tra la lesione e la morte vi sia un apprezzabile lasso di tempo (rilevanza del fattore tempo). Il danno catastrofale, invece, si configura come un particolare tipo di danno morale che consiste nel danno da coscienza, sia della sofferenza fisica derivante dalle lesioni, che dalla sofferenza psichica (agonia) derivante dalla morte immanente. In quest’ultimo caso, il fattore tempo non assume più rilevanza essendo centrale l’effettiva percezione della sofferenza intesa nel senso descritto sopra.
Sulla base dei principi appena espressi, con la recentissima pronuncia del 19 settembre del 2023, la Cassazione ha affermato che nel caso in cui una persona affetta da una patologia ad esito mortale perda la vita in un momento differente da quello in cui sarebbe avvenuto tale evento in assenza dell’errore medico, non può ritenersi configurabile il danno da morte anticipata, mentre potrà essere risarcito il c.d. danno differenziale. In sostanza, ancora una volta non si risarcisce il bene vita in sé considerato ma, il bene salute in rapporto al tempo effettivamente vissuto.

4. Conclusione

La tematica del danno non patrimoniale, già di per sé ostica, lo diventa ancora di più in considerazione dell’importanza dei valori personalistici i quali, spingono verso la valorizzazione dei diritti ad essa riferiti. La complessità del bilanciamento valoriale da una parte e la struttura del sistema normativo dall’altra creano non pochi momenti di collisione dove il lavoro interpretativo fatica a dirsi univoco. Sebbene in materia di risarcibilità del danno tanatologico vi sia molta giurisprudenza orientata in senso negativo, è pur vero che vi è chi la ritiene possibile. Certo è che se si guarda meglio alla sostanza del c.d. danno da perdita del rapporto parentale, in fin dei conti ci si riferisce alla perdita della persona e quindi alla perdita della sua vita. Ad avviso di chi scrive, infatti, bisogna sempre tenere fermo il principio dell’integralità del risarcimento, ancorato al divieto di duplicazione delle voci di danno perchè ciò che si risarcisce devono essere solo le conseguenze dannose effettive, pena la perdita di senso dell’intero sistema risarcitorio.

Note

  1. [1]

    La funzione sanzionatoria ci consente di compiere un aggancio logico-giuridico al tema dell’ammissibilità dei c.d. danni punitivi, dapprima negata tout court, ora ammessa in presenza di precise condizioni, su tutte la previsione per legge proprio sulla base della polifunzionalità della responsabilità civile la quale, infatti, non può dirsi avulsa dalla funzione sanzionatoria, se pur in maniera minoritaria. Si pensi alle disposizioni di cui agli artt. 96, comma 3, c.p.c.,  125 del d.lg. n. 30 del 2005, . 709 ter c.p.c.,  614 bis c.p.c., ecc..

  2. [2]

    La Corte costituzionale con la sentenza n. 184 del 1986 ha ricondotto il danno alla salute al 2043 c.c.

  3. [3]

    Il danno esistenziale è individuato «nello sconvolgimento dell’esistenza» che può indurre a «fondamentali e radicali scelte di vita diversa», nella alterazione «delle abitudini di vita» e «del modo di rapportarsi con gli altri nell’àmbito della comune vita di relazione», sia «all’interno che all’esterno del nucleo familiare».

  4. [4]

    Cass. civ., sez. III, Ord., 27 marzo 2018, n. 7513 : in tema di danno non patrimoniale da lesione della salute, costituisce duplicazione risarcitoria la congiunta attribuzione del «danno biologico» e del «danno dinamico-relazionale», atteso che con quest’ultimo si individuano pregiudizi di cui è già espressione il grado percentuale di invalidità permanente (quali i pregiudizi alle attività quotidiane, personali e relazionali, indefettibilmente dipendenti dalla perdita anatomica o funzionale); non costituisce invece duplicazione la congiunta attribuzione del «danno biologico» e di una ulteriore somma a titolo di risarcimento dei pregiudizi che non hanno fondamento medico-legale, perché non aventi base organica ed estranei alla determinazione medico-legale del grado di percentuale di invalidità permanente, rappresentati dalla sofferenza interiore (quali, ad esempio, il dolore dell’animo, la vergogna, la disistima di sé, la paura, la disperazione); ne deriva che, ove sia dedotta e provata l’esistenza di uno di tali pregiudizi non aventi base medico-legale, essi dovranno formare oggetto di separata valutazione e liquidazione.

  5. [5]

    Def.“lesione temporanea o permanente all’integrità psicofisica della persona suscettibile di accertamento medico-legale che esplica un’incidenza negativa sulle attività quotidiane e sugli aspetti dinamico-relazionali della vita del danneggiato, indipendentemente da eventuali ripercussioni sulla sua capacità di reddito”.

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Francesca Fuscaldo

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