La Consulta non ritiene l’art. 2 del codice antimafia (sul foglio di via) illegittimo costituzionalmente: vediamo come. Per un valido supporto per professionisti consigliamo: Codice penale e di procedura penale e norme complementari -Edizione 2024. Aggiornato alla Riforma Nordio e al decreto Svuota Carceri
Indice
1. Il fatto: la violazione del foglio di via
Il Giudice per le indagini preliminari del Tribunale ordinario di Taranto era investito di una richiesta del pubblico ministero di emettere decreto penale di condanna a carico di una persona accusata di avere commesso il reato di cui all’art. 76, comma 3, cod. antimafia, per avere questi fatto ripetutamente ritorno nel territorio del Comune di Taranto, in violazione delle prescrizioni impostegli con un foglio di via adottato dal Questore nei suoi confronti, ai sensi dell’art. 2 cod. antimafia.
Ebbene, siffatto organo giudicante, pur dando atto della legittimità di tale provvedimento, la cui motivazione appariva essere, a suo avviso «congrua, soprattutto alla luce dei numerosi precedenti giudiziari e di polizia ascrivibili [all’imputato]», ne faceva conseguire da ciò come la richiesta di decreto penale di condanna avrebbe dovuto essere accolta, tuttavia, dubitava della legittimità costituzionale dell’art. 2 cod. antimafia (nei termini che vedremo da qui a breve), osservando che – in caso di declaratoria di illegittimità costituzionale di tale disposizione – il foglio di via adottato nei confronti dell’imputato nel processo a quo avrebbe dovuto essere disapplicato il che avrebbe comportato, come logico corollario, la necessità di assolverlo ai sensi degli artt. 129 e 459, comma 3, del codice di procedura penale; con conseguente rilevanza delle questioni prospettate. Per un valido supporto per professionisti consigliamo: Codice penale e di procedura penale e norme complementari -Edizione 2024. Aggiornato alla Riforma Nordio e al decreto Svuota Carceri
Codice penale e di procedura penale e norme complementari
Il presente codice per l’udienza penale fornisce uno strumento di agile consultazione, aggiornato alle ultimissime novità legislative (la riforma Nordio, il decreto svuota carceri, modifiche al procedimento in Cassazione).L’opera è corredata dalle leggi speciali di più frequente applicazione nel corso dell’udienza penale e le modifiche del 2024 sono evidenziate in grassetto nel testo per una immediata lettura delle novità introdotte.Gli articoli del codice penale riportano le note procedurali utili alla comprensione della portata pratica dell’applicazione di ciascuna norma.Il volume è uno strumento indispensabile per avvocati e magistrati, ma anche per studenti universitari e concorsisti.Completa il codice una sezione online che mette a disposizione ulteriori leggi speciali in materia penale e gli aggiornamenti normativi fino al 31 gennaio 2025.Paolo Emilio De SimoneMagistrato presso il Tribunale di Roma, già componente del Collegio per i reati ministeriali presso il medesimo Tribunale. Docente della Scuola Superiore della Magistratura, è autore di numerose pubblicazioni.Luigi TramontanoGiurista, già docente a contratto presso la Scuola di Polizia economico-finanziaria della Guardia di Finanza, è autore di numerose pubblicazioni, curatore di prestigiose banche dati legislative e direttore scientifico di corsi accreditati di preparazione per l’esame di abilitazione alla professione forense.
Paolo Emilio De Simone, Luigi Tramontano | Maggioli Editore 2024
28.41 €
2. Le questioni prospettate nell’ordinanza di rimessione
Il Tribunale di Taranto, in relazione alla vicenda giudiziaria appena menzionata, a proposito della non manifesta infondatezza delle questioni (che verranno illustrate da qui a poco) – una volta premesso che il foglio di via costituisce misura di prevenzione adottata dall’autorità amministrativa, che nel caso concreto avrebbe comportato «una restrizione della libertà di locomozione […] quantomai significativa», nonché foriera di «pesanti ed incisivi effetti stigmatizzanti sulla persona dell’imputato», tenuto conto altresì del fatto che, da un lato, a quest’ultimo – versante in «condizioni socio-economiche quantomai disagiate», ed esercitante abitualmente l’attività di parcheggiatore abusivo – sarebbe infatti stato inibito di permanere presso l’intero Comune di Taranto, che costituirebbe il «centro urbano industrialmente e commercialmente più sviluppato tra quelli siti nelle vicinanze» del suo «piccolissimo» comune di residenza, dall’altro, l’incidenza della misura sulla libertà morale e pari dignità sociale dell’imputato dovrebbe inferirsi dai presupposti della misura medesima, e cioè dalla ritenuta pericolosità sociale dell’interessato, posta in correlazione con il suo stato di consumatore abituale di sostanze stupefacenti: presupposti, entrambi, «altamente stigmatizzanti» sotto il profilo giuridico e morale – osservava come tali circostanze inducevano a domandarsi se una misura siffatta incida esclusivamente sulla libertà di circolazione dell’individuo riconosciuta dall’art. 16 Cost., ovvero costituisca una misura limitativa della libertà personale, in quanto tale soggetta alle garanzie di cui all’art. 13 Cost. – segnatamente, alla necessità che la sua restrizione sia disposta con atto motivato dell’autorità giudiziaria, ovvero sia da quest’ultima convalidata entro precisi termini, ove la misura sia disposta dall’autorità di pubblica sicurezza.
Premesso ciò, nel trattare tale quesito, il giudice a quo ripercorreva anzitutto – sulla scorta della ricapitolazione fornita dalla sentenza n. 127 del 2022 – la giurisprudenza della Consulta sulla distinzione tra le due libertà, osservando come siano state ricondotte alla sfera di tutela dell’art. 13 Cost. non soltanto le misure che implichino coercizioni fisiche, ma anche quelle «che comportino la compromissione della libertà morale degli individui, imponendo loro “una sorta di degradazione giuridica”», ancorché la loro esecuzione «non sia mediata dall’impiego di forza fisica da parte dello Stato», come – in particolare – la misura di prevenzione dell’ammonizione, antesignana dell’attuale sorveglianza speciale di pubblica sicurezza (è citata la sentenza n. 11 del 1956) dato che le sentenze n. 2 del 1956 e n. 45 del 1960 hanno escluso che il foglio di via obbligatorio costituisca misura incidente sulla libertà personale, non essendo tale misura suscettibile di esecuzione coattiva e non comportando alcuna forma di degradazione giuridica dell’interessato.
Ad ogni modo, si riteneva come questi due precedenti meritassero di essere superati alla luce degli sviluppi successivi della giurisprudenza costituzionale e ciò, in particolare, in ragione della natura e dei presupposti della misura in questione, la quale presupporrebbe un «giudizio sulla personalità morale» del destinatario, che deve essere riconducibile a una delle categorie di persone indicate nell’art. 1 cod. antimafia dal momento che la misura in questione, come osservato dal Consiglio di Stato (sezione terza, sentenza 22 aprile 2022, n. 3108), sarebbe in effetti, già «sul piano della sua tipizzazione normativa, fortemente caratterizzata in termini penalistici», senza tra l’altro ignorare il fatto che essa inciderebbe sulla pari dignità dell’individuo, precludendogli di fatto l’esercizio dei suoi diritti civili, sociali e politici; comprometterebbe la sua libertà morale, potendo altresì incidere sulla sua vita familiare e privata; e comporterebbe comunque una sua significativa degradazione giuridica, separandolo «dal resto della collettività per il tramite dell’irrogazione nei suoi confronti di un trattamento innegabilmente deteriore», come emergerebbe dal divieto, stabilito a suo carico, di rendere l’ufficio di testimone, di interprete ovvero di perito o consulente in giudizio.
Il contenuto della misura – comportante al tempo stesso un facere (il ritorno nel comune di residenza) e un non facere (l’obbligo di non fare rientro nel territorio di un determinato comune) – sarebbe, inoltre, sempre ad avviso di codesto organo giudicante, sostanzialmente sovrapponibile alla misura di sicurezza del divieto di soggiorno di cui all’art. 233 del codice penale, nonché alla misura cautelare del divieto di dimora prevista dall’art. 283 cod. proc. pen. – misure entrambe affidate alla competenza del giudice, le quali si sostanzierebbero, esse pure, nel divieto di recarsi e dimorare in una data porzione del territorio dello Stato.
Comune sarebbe, per di più, il presupposto dell’applicazione di tali misure, rappresentato dalla pericolosità sociale del loro destinatario.
Oltre a ciò, era altresì fatto presente che il foglio di via obbligatorio sortirebbe effetti incapacitanti in larga parte sovrapponibili a quelli della misura della sorveglianza speciale di pubblica sicurezza, pure affidata alla competenza del Tribunale, «allorquando essa non è caratterizzata da prescrizioni particolarmente stringenti – ad esempio, dall’obbligo di soggiorno in un determinato Comune – e, al contempo, è accompagnata dal divieto di soggiorno in un Comune», tanto più se si considera che la violazione di entrambe le misure costituirebbe, d’altronde, reato ai sensi, rispettivamente, degli artt. 76, comma 3, e 75, comma 2, cod. antimafia.
Orbene, da tali premesse, per il giudice rimettente, deriverebbe la contrarietà dell’attuale disciplina della misura all’art. 13 Cost., dal momento che essa «dovrebbe essere disposta dall’Autorità giudiziaria e non dall’Autorità di pubblica sicurezza»; nonché all’art. 3 Cost., risultando «irragionevole che una misura comportante un assoggettamento della persona all’altrui potere quale il foglio di via obbligatorio sia disposta [dall]’Autorità di pubblica sicurezza sebbene misure comportanti un analogo assoggettamento siano disposte dall’Autorità giudiziaria».
Ciò posto, il giudice a quo rammentava infine la sentenza n. 2 del 2023, con la quale la Corte costituzionale ha ritenuto contrario all’art. 15 Cost. il potere del questore di vietare il possesso o l’uso di telefoni cellulari al destinatario della misura dell’avviso orale.
Orbene, ad avviso del Tribunale di Taranto, i principi sottesi a tale pronuncia condurrebbero, nel caso ora all’esame, alla conclusione che, ove si ritenga che il foglio di via sia una misura limitativa della libertà personale ai sensi dell’art. 13 Cost., essa non possa essere adottata in prima battuta dall’autorità amministrativa, così confinandosi il controllo giurisdizionale a una mera eventualità successiva, rimessa all’iniziativa della persona interessata.
Chiarito ciò, quanto al petitum, le questioni prospettate sarebbero, secondo il rimettente, assimilabili a quella su cui la Consulta si era pronunciata con la sentenza n. 11 del 1956, in cui è stata dichiarata l’illegittimità costituzionale dell’intera disciplina dell’ammonizione e, dunque, analogamente, occorrerebbe parimenti dichiarare l’illegittimità costituzionale tout court dell’art. 2 cod. antimafia.
In via subordinata, il giudice a quo auspicava, per di più, una declaratoria di illegittimità costituzionale di tale disposizione, per contrasto con il solo art. 3 Cost., nella parte in cui non prevede che anche al foglio di via si applichi la disciplina sulla convalida del cosiddetto “DASPO sportivo” di cui all’art. 6, commi 2-bis, 3 e 4, della legge n. 401 del 1989, cui rinviava l’art. 10, comma 4, del decreto-legge 20 febbraio 2017, n. 14 (Disposizioni urgenti in materia di sicurezza delle città), convertito, con modificazioni, nella legge 18 aprile 2017, n. 48, nel testo vigente all’epoca del deposito dell’ordinanza di rimessione.
Secondo il rimettente, invero, se il foglio di via sarebbe misura strutturalmente analoga al “DASPO urbano”, ed anzi più gravosa rispetto ad esso, tuttavia – quanto meno nelle ipotesi previste dall’art. 10, comma 3, del d.l. n. 14 del 2017, caratterizzate tra l’altro dalla durata ultrannuale delle prescrizioni – il “DASPO urbano” prevedeva una convalida da parte del GIP.
Dal che la sussistenza, a parere del rimettente, di una irragionevole disparità di trattamento tra le due misure, cui potrebbe essere posto rimedio, da parte del Giudice delle leggi, attraverso l’estensione al foglio di via del procedimento di convalida già previsto per il “DASPO urbano” di cui al menzionato art. 10, comma 3, del d.l. n. 14 del 2017, procedimento che costituirebbe soluzione costituzionalmente adeguata per ovviare al vulnus denunciato.
In «estremo subordine», il rimettente riteneva infine costituzionalmente illegittimo, al metro – ancora – del solo art. 3 Cost., che il procedimento di convalida già previsto per il “DASPO urbano” non sia esteso anche al foglio di via in tutte le ipotesi in cui quest’ultimo abbia durata (almeno) annuale.
In conclusione, il giudice a quo osservava che, secondo quanto emergerebbe dalla prassi, il foglio di via sarebbe spesso disposto in relazione a condotte rispetto alle quali non potrebbe legittimarsi la «rilevantissima degradazione giuridica» e il «pesante stigma morale» conseguenti all’applicazione della misura: emblematico, in tal senso, l’uso del foglio di via con riferimento all’attività di prostituzione, attestato dalla giurisprudenza di legittimità (citandosi a tal proposito: Corte di Cassazione, Sezione prima penale, sentenza 20 febbraio-26 aprile 2019, n. 17616).
In altre ipotesi, la misura in questione potrebbe «sortire un apprezzabile chilling effect in relazione all’esercizio di diritti costituzionalmente garantiti come, ad esempio, il diritto di sciopero», come emergerebbe da prassi già stigmatizzate dalla giurisprudenza amministrativa (citandosi all’uopo: Consiglio di Stato, sezione terza, sentenze 6 novembre 2019, n. 7575 e n. 3108 del 2022; Tribunale amministrativo regionale per l’Emilia Romagna, sezione prima, sentenza 15 gennaio 2020, n. 21).
Ebbene, per il giudice tarantino, tutto ciò renderebbe ancora più evidente l’importanza di estendere al foglio di via l’applicazione dello stringente apparato di garanzie previsto dall’art. 13 Cost., assicurando in particolare l’intervento di un soggetto terzo – l’autorità giudiziaria – rispetto all’autorità di pubblica sicurezza.
Potrebbero interessarti anche:
3. La soluzione adottata dalla Corte costituzionale
La Consulta, dopo avere affrontato questioni di ordine preliminari (reputandole inammissibili), entrando nel merito di quanto prospettato dal Tribunale di Taranto, iniziava prima di tutto a trattare quella concernente la compatibilità della disposizione censurata con l’art. 13 Cost..
In particolare, dopo essere fatto presente come il giudice rimettente avesse sollecitato la Corte costituzionale stessa a superare la propria giurisprudenza con la quale, a partire dalla sentenza n. 2 del 1956, si è sempre escluso che la misura all’esame – rimasta nei suoi tratti essenziali inalterata in tutti i quasi settant’anni da allora trascorsi – sia riconducibile all’art. 13 Cost. (nello stesso senso, sentenze n. 210 del 1995, n. 419 del 1994, n. 68 del 1964, n. 45 del 1960, nonché ordinanza n. 384 del 1987), il Giudice delle leggi riteneva, tuttavia, di non doversi discostare da questa giurisprudenza, per le seguenti ragioni.
Si evidenziava prima di tutto come le questioni all’esame riproponessero il problema dell’individuazione della linea di confine tra libertà personale, tutelata dall’art. 13 Cost., e libertà di circolazione, tutelata dall’art. 16 Cost., già oggetto di estesa analisi nella sentenza 127 del 2022 (punti 4, 5 e 5.1. del Considerato in diritto).
Premesso ciò, si notava come entrambe le disposizioni costituzionali tutelino il diritto della persona di muoversi liberamente nello spazio, ed entrambe stabiliscono una riserva di legge a tutela di tale libertà fermo restando però che, allorché sia in gioco la libertà personale (e non la mera libertà di circolazione), l’art. 13 stabilisce – altresì – una riserva di giurisdizione: ogni misura che incide su tale libertà deve essere disposta dall’autorità giudiziaria, ovvero – nei casi di necessità e urgenza indicati tassativamente dalla legge – dall’autorità di pubblica sicurezza, salva la necessità della convalida da parte dell’autorità giudiziaria entro le successive novantasei ore, evidenziandosi a tal proposito che la giurisprudenza costituzionale è solita individuare le misure che incidono sulla libertà personale, chiamando così in causa le più esigenti garanzie di cui all’art. 13 Cost., sulla base di due criteri alternativi: (a) l’idoneità della misura a produrre una “coazione sul corpo” della persona; ovvero (b) la presenza di obblighi che, pur non comportando alcuna coazione sul corpo, (i) determinino una “degradazione giuridica” del destinatario, e (ii) siano di tale intensità da poter essere equiparati a un vero e proprio assoggettamento della persona all’altrui potere.
Ciò posto, per la Corte di legittimità, e’, anzitutto, pacifico che incida sulla libertà personale ogni misura che comporti una coazione fisica della persona, salvo che la restrizione della libertà di disporre del proprio corpo che ne consegue abbia carattere momentaneo e del tutto trascurabile.
Una tale nozione, dunque, per la Consulta, copre anzitutto le misure che determinino la coazione della persona a rimanere in un determinato luogo, come il suo arresto o fermo, o a fortiori la sua detenzione in un istituto penitenziario o in un centro di permanenza temporanea per stranieri, oggi centro di permanenza per i rimpatri (su quest’ultima ipotesi, sentenze n. 212 del 2023, n. 127 del 2022 e n. 105 del 2001).
Inoltre, sempre ad avviso del Giudice delle leggi, la nozione in parola si estende alle misure che, pur senza realizzare alcuna interclusione della persona in uno spazio determinato, comunque implichino – esattamente come le ispezioni e perquisizioni personali, espressamente considerate quali misure restrittive della libertà personale dall’art. 13, secondo comma, Cost. – la costrizione a subire interventi di una qualche rilevanza sul proprio corpo.
Conseguentemente, sono state considerate restrittive della libertà personale, ad esempio: la traduzione forzata dell’interessato nel luogo di residenza (così, proprio in materia di foglio di via obbligatorio, già la sentenza n. 2 del 1956) ovvero davanti all’autorità di polizia (sentenza n. 72 del 1963); l’accompagnamento alla frontiera a mezzo della forza pubblica dello straniero illegalmente presente sul territorio nazionale (sentenze n. 222 del 2004 e n. 105 del 2001; ordinanza n. 109 del 2006); l’esecuzione di prelievi ematici coattivi (sentenza n. 238 del 1996); nonché ogni trattamento medico suscettibile di essere eseguito con la forza nei confronti del paziente, e pertanto qualificabile non solo come “obbligatorio” ai sensi dell’art. 32, secondo comma, Cost., ma anche come “coattivo” (sentenza n. 22 del 2022, punto 5.3.1. del Considerato in diritto; nonché, più di recente, sentenza n. 135 del 2024, punto 5.2. del Considerato in diritto).
Ebbene, rispetto a tali misure, la Consulta stimava indubbia l’applicabilità di tutte le garanzie dell’art. 13 Cost., proprio in conseguenza della situazione di evidente assoggettamento fisico della persona ad un potere pubblico, in grado di vincere con la forza ogni sua contraria volontà, ritenendosi come restino esclusi da tali garanzie soltanto gli interventi coattivi di carattere meramente momentaneo e non invasivi della sfera corporea e dell’intimità della persona, come la sua immobilizzazione per i pochi istanti necessari ad eseguire rilievi descrittivi, fotografici e antropometrici di parti del corpo normalmente esposte alla vista, nonché rilievi dattiloscopici (sentenza n. 30 del 1962).
Per la Corte, però, è altrettanto pacifico che la tutela assicurata dall’art. 13 Cost. non si esaurisce nelle misure che comportino l’uso di coazione fisica sul corpo, ma si estende a quelle che impongano obblighi (rinforzati da sanzioni in caso di violazione) comunque incidenti sulla libertà di movimento della persona nello spazio, dai quali (i) discenda un effetto di «degradazione giuridica» dell’interessato, e (ii) sempre che gli obblighi in questione risultino di tale intensità da poter essere equiparati a quell’“assoggettamento della persona all’altrui potere”, in cui si concreta la violazione della garanzia dell’habeas corpus.
Da un lato, di conseguenza, per rientrare nella sfera di tutela dell’art. 13 Cost. la misura, se non coattiva, deve determinare una «degradazione giuridica» (così, con riferimento all’ammonizione di polizia, antesignana dell’attuale sorveglianza speciale di pubblica sicurezza, già la sentenza n. 11 del 1956): e cioè una «menomazione o mortificazione della dignità o del prestigio della persona» (sentenza n. 68 del 1964, e più recentemente sentenze n. 210 del 1995 e n. 419 del 1994), fermo restando che tale effetto è, a sua volta, connesso alle ragioni che giustificano l’adozione della misura, la quale si basa normalmente su un giudizio di pericolosità dell’interessato per l’ordine e la sicurezza pubblici, e dunque sulla prospettiva che egli possa commettere in futuro reati (valutazione, quest’ultima, che in genere si fonda su evidenze relative alla effettiva commissione, da parte sua, di condotte criminose nel passato).
In altre parole ancora, come si è osservato nella sentenza n. 127 del 2022, le misure in questione – pur non comportando alcuna coercizione fisica – convogliano uno «stigma morale» a carico dell’interessato, e una «mortificazione della [sua] pari dignità sociale» (punto 6 del Considerato in diritto), separandolo dal resto della collettività e assoggettandolo a un trattamento deteriore proprio in ragione della sua ritenuta pericolosità (punto 5 del Considerato in diritto), pur deducendosi come tali caratteristiche evidentemente non connotino, ad esempio, la misura della quarantena in caso di contagio dal virus COVID-19, oggetto della stessa sentenza n. 127 del 2022: misura che «non si congiunge ad alcuno stigma morale, e non può cagionare mortificazione della pari dignità sociale, anche alla luce del fatto che si tratta di una condizione condivisa con milioni di individui» (punto 6 del Considerato in diritto).
Dall’altro lato, per il Giudice delle leggi, la degradazione giuridica determinata dalla misura non è di per sé sufficiente – come invece sembra ritenere il giudice a quo – a far scattare le garanzie dell’art. 13 Cost., essendo, altresì, necessario a tal fine che il trattamento deteriore dell’individuo rispetto al resto della collettività incida sulla sua libertà di movimento in maniera significativa dal punto di vista “quantitativo”, in relazione alla particolare gravosità delle limitazioni imposte attraverso la misura dato che esse devono essere di tale intensità da risultare sostanzialmente equivalenti, dal punto di vista delle garanzie costituzionali, alle restrizioni attuate mediante l’uso di coazione fisica (così già la sentenza n. 68 del 1964).
Del resto, sempre ad avviso dei giudici di legittimità costituzionale, proprio il criterio di natura “quantitativa” appena evidenziato consente di cogliere la ratio rispettiva delle due decisioni, adottate dalla Corte costituzionale nel suo primo anno di attività, con le quali si ritenne, da un lato, che la disciplina del rimpatrio obbligatorio (corrispondente nella sostanza all’attuale foglio di via) non ponesse in causa le garanzie di cui all’art. 13 Cost., salvo che per la parte in cui consentiva la realizzazione coattiva del rimpatrio (sentenza n. 2 del 1956); e, dall’altro, si dichiarò l’illegittimità costituzionale, per contrasto con lo stesso art. 13 Cost., della misura questorile dell’ammonizione, corrispondente nella sostanza all’attuale sorveglianza speciale di pubblica sicurezza (sentenza n. 11 del 1956).
In effetti, come la medesima Consulta ebbe modo di chiarire nelle successive sentenze n. 45 del 1960 e n. 68 del 1964, la differenza tra le due misure risiedeva essenzialmente nella maggiore gravosità degli obblighi inerenti all’ammonizione rispetto a quelli scaturenti dal rimpatrio obbligatorio (che pure la Corte aveva riconosciuto, nella sentenza n. 68 del 1964, come idonei anch’essi a ripercuotersi «sulla stimabilità delle persone»).
Nel dettaglio, la sentenza n. 68 del 1964 ebbe modo di osservare che l’ordine di rimpatrio – depurato dalla traduzione coattiva ad opera della sentenza n. 2 del 1956 – «non è suscettibile di coercitiva esecuzione»; aggiungendo che, una volta che il soggetto abbia raggiunto la nuova sede, egli «è libero di restarvi o di trasferirsi altrove, purché non torni alla sede dalla quale è stato allontanato.
Quindi, alla stregua di quanto postulato in siffatta pronuncia, non sussistono altri adempimenti, né altri vincoli o limitazioni alla libertà del soggetto», non essendovi, pertanto, in tale caso, una mera limitazione della libertà di circolazione ai sensi dell’art. 16 Cost.
Pur tuttavia, al contrario, la sentenza n. 45 del 1960 ebbe modo di rilevare come l’ammonizione fosse caratterizzata da «tutta una serie di obblighi, di fare e di non fare, fra cui quello di non uscire prima e di non rincasare dopo di una certa ora non era che uno fra gli altri che la speciale commissione poteva prescrivere».
La degradazione giuridica qui ravvisata, dunque, era qualificata dalla peculiare intensità e invasività delle prescrizioni inerenti alla misura rispetto alle ordinarie abitudini di vita: ciò che spiegava perché la sentenza n. 11 del 1956 avesse ricondotto questa misura alla sfera di tutela dell’art. 13 Cost., anziché a quella dell’art. 16 Cost..
Del resto, il medesimo criterio “quantitativo” era stato più recentemente posto alla base delle numerose pronunce della Consulta in materia di DASPO previsto dall’art. 6 della legge n. 401 del 1989 (il cosiddetto “DASPO sportivo”).
In effetti, posto che tale misura ha, in ogni caso, come presupposto una valutazione negativa sulla personalità dell’interessato, la giurisprudenza costituzionale ha differenziato l’ipotesi in cui la misura si esaurisca nell’interdizione all’accesso nei luoghi in cui si svolgono manifestazioni sportive, da quella in cui a tale interdizione venga aggiunto, ai sensi del comma 2 del citato art. 6, l’obbligo di comparire personalmente una o più volte in un ufficio o comando di polizia, agli orari indicati, nel corso della giornata in cui si svolgono le manifestazioni sportive interdette (cosiddetto obbligo di firma).
Infatti, mentre il DASPO senza obbligo di firma, in ragione della sua «minore incidenza sulla sfera della libertà del soggetto», è stato ritenuto risolversi in una mera limitazione della libertà di circolazione ai sensi dell’art. 16 Cost. (sentenza n. 193 del 1996), il DASPO con obbligo di firma, imponendo la frequente presenza del destinatario negli uffici di polizia, è stato ritenuto restrittivo della libertà personale ai sensi dell’art. 13 Cost. (sentenza n. 143 del 1996 e, successivamente, sentenze n. 144 del 1997, n. 136 del 1998 e n. 512 del 2002).
Orbene, per il Giudice delle leggi, è trasparente la diversa ratio decidendi sottesa alle pronunce appena citate, nel senso che, se il divieto di accedere in taluni luoghi specificamente individuati lascia intatta la libertà della persona di recarsi, durante il tempo dello svolgimento delle manifestazioni interdette, in qualsiasi altro luogo e di fare ciò che più desidera, di contro, l’obbligo di presentarsi alla polizia in occasione di ogni manifestazione sportiva interdetta annulla quella libertà, precludendo all’interessato ogni diversa attività, e risulta così equiparabile, quanto agli effetti, alle restrizioni di libertà realizzate attraverso l’uso della coercizione fisica.
D’altronde, in questa stessa linea si colloca, altresì, la recentissima sentenza n. 47 del 2024, che ha scrutinato la legittimità costituzionale delle misure del cosiddetto “DASPO urbano” di cui all’art. 10, comma 2, del d.l. n. 14 del 2017, al metro del solo art. 16 Cost. evocato dal rimettente.
Difatti, la pronuncia de qua non ha posto in discussione l’implicita valutazione dello stesso rimettente di non applicabilità delle più stringenti garanzie di cui all’art. 13 Cost. rispetto a tale misura, che comporta il mero divieto di accesso a specifiche aree indicate dalla disposizione censurata, non accompagnato da alcun obbligo di facere.
Concluso questo excursus giurisprudenziale di rango costituzionale, la Corte di legittimità notava come gli argomenti in questa sede addotti per indurre a superare siffatti precedenti in materia fossero, in sintesi, i seguenti.
Prima di tutto, si evidenziava l’effetto di «degradazione giuridica», che deriverebbe dall’applicazione di questa misura, la quale presupporrebbe un giudizio negativo sulla personalità morale del destinatario, incidendo sulla sua pari dignità civile rispetto al resto della collettività.
Oltre a ciò, richiamandosi un passo della più volte citata sentenza n. 127 del 2022 – si sottolineava il pericolo di «potenziale arbitrarietà» nell’uso di queste misure: pericolo per fronteggiare il quale occorrerebbe, per l’appunto, assicurare il controllo preventivo del giudice, «quale organo chiamato alla obiettiva applicazione della legge in condizioni di indipendenza e imparzialità» (punto 5 del Considerato in diritto).
Enunciati i punti di criticità evidenziati nell’ordinanza di rimessione, prima di procedere alla loro disamina, i giudici di legittimità costituzionale reputavano opportuno prima osservare, in limine, che il tendenziale rispetto dei propri precedenti – unitamente alla coerenza dell’interpretazione con il testo delle norme interpretate e alla persuasività delle motivazioni – è, per le giurisdizioni superiori, condizione essenziale dell’autorevolezza delle loro decisioni, assicurando che i criteri di giudizio utilizzati restino almeno relativamente stabili nel tempo, e non mutino costantemente in relazione alla variabile composizione della Corte, valendo ciò anche, e forse in speciale misura, per il giudice costituzionale: le cui decisioni hanno una naturale vocazione a orientare la prassi operativa delle istituzioni della Repubblica, creando ragionevoli affidamenti su ciò che a ciascuna di esse è consentito in forza delle previsioni costituzionali. In particolare, il potere legislativo deve essere posto in condizioni di ragionevolmente prevedere se le proprie scelte saranno ritenute conformi alla Costituzione, ovvero siano verosimilmente destinate a essere dichiarate costituzionalmente illegittime.
Enunciato ciò, si notava pure che, sebbene alla Consulta non sia preclusa la possibilità di rimeditare i propri orientamenti, e se del caso di modificarli (per taluni esempi recenti, sentenze n. 163 del 2024, punti 2.3. e seguenti del Considerato in diritto; n. 88 del 2023, punto 6.4.1.5. del Considerato in diritto; n. 32 del 2020, punti 4.2. e 4.3. del Considerato in diritto), tuttavia, ogni revirement scuote gli affidamenti che la precedente giurisprudenza ha creato, il che vale soprattutto a fronte di una giurisprudenza costante e risalente nel tempo, alla quale il legislatore si è nel frattempo conformato, occorrono perciò – per giustificare un suo mutamento – ragioni di particolare cogenza che rendano non più sostenibili le soluzioni precedentemente adottate: ad esempio, l’inconciliabilità dei precedenti con il successivo sviluppo della stessa giurisprudenza costituzionale o di quella delle Corti europee; il mutato contesto sociale o ordinamentale nel quale si colloca la nuova decisione o – comunque – il sopravvenire di circostanze, di natura fattuale o normativa, non considerate in precedenza; la maturata consapevolezza sulle conseguenze indesiderabili prodotte dalla giurisprudenza pregressa (per considerazioni analoghe, Corte EDU, grande camera, sentenza 17 settembre 2009, Scoppola contro Italia, n. 2, paragrafo 104, e ulteriori precedenti ivi citati; Corte di Cassazione, sezioni unite civili, ordinanza 6 novembre 2014, n. 23675, punto 1 del Ritenuto in diritto).
Ebbene, alla luce di tale premessa metodologica, per il Giudice delle leggi, occorreva anzitutto riconoscere che gli argomenti addotti dal rimettente avessero un sicuro spessore dato che gli effetti del foglio di via obbligatorio possono, nel caso concreto, risultare assai gravosi per il destinatario.
In ogni caso, essi appaiono in via generale più gravosi di quelli discendenti da un “DASPO urbano”, che si limita a vietare l’accesso a specifici luoghi individuati nel relativo provvedimento, e ciò soprattutto quando, come nel caso oggetto del giudizio a quo, a risultare precluso al destinatario è l’accesso all’intero territorio del comune capoluogo della provincia in cui egli risiede o dimora, essendo, altresì, vero che un divieto in ipotesi così esteso è suscettibile di coinvolgere diritti fondamentali ulteriori rispetto alla libertà di movimento nello spazio, come il diritto al lavoro, all’educazione, alle relazioni affettive e familiari, oltre che lo stesso diritto alla salute, tenuto conto altresì del fatto che il sempre più ampio ricorso a misure di prevenzione che limitano incisivamente i diritti fondamentali delle persone, per finalità di controllo dell’ordine pubblico, rischia di determinare, al tempo stesso, un esteso effetto di criminalizzazione indiretta di quelle stesse persone, attraverso la previsione come reato della violazione delle prescrizioni loro imposte mediante la misura di prevenzione – violazione, peraltro, di assai più agevole accertamento giudiziale di quanto non sarebbe stato l’accertamento delle condotte criminose che costituiscono per lo più il presupposto della misura.
Cionondimeno, il Giudice delle leggi non condivideva il fatto che tali considerazioni fossero di tale cogenza da indurla a modificare la propria giurisprudenza in materia di foglio di via: giurisprudenza che ha costantemente ricondotto tale misura all’area di tutela dell’art. 16 Cost. e alla quale si sono ispirati tutti gli interventi del legislatore concernenti le misure di prevenzione, tanto più se si considera che la giurisprudenza costituzionale ha sempre individuato la linea discretiva tra quelle che incidono sulla libertà personale anziché sulla libertà di circolazione in relazione alla diversa intensità dell’incisione della libertà di movimento nello spazio discendente dalla misura, e tale intensità è stata in concreto “pesata” sulla base della diversa natura degli obblighi che discendono dalla misura di volta in volta esaminata.
Del resto, per quanto gravoso esso possa risultare in concreto, l’obbligo stabilito con il foglio di via consiste essenzialmente nel divieto di recarsi in un luogo determinato dato che, una volta che l’interessato abbia eseguito l’ordine iniziale di lasciare il territorio del comune dal quale è allontanato, l’obbligo che gli è imposto per tutta la durata della misura, e che è presidiato da sanzioni penali nel caso di violazione, si risolve nel mero divieto di ritornare in quello specifico comune: il che lascia libero in ogni momento il soggetto di recarsi in qualunque altro luogo desideri.
Ed è precisamente sulla base di tale considerazione che la Corte costituzionale ha ritenuto distinguibile questa misura da quella – considerata restrittiva della libertà personale – della sorveglianza speciale di pubblica sicurezza, che comporta invece i numerosi obblighi elencati, oggi, nell’art. 8 cod. antimafia, tra cui quello di rincasare entro una determinata ora e di non uscire di casa prima di una certa ora; obbligo, questo ultimo, che costringe il soggetto – sotto minaccia di severe sanzioni penali in caso di inosservanza – a restare nella propria abitazione durante le ore notturne, vietandogli così di recarsi in qualsiasi altro luogo.
D’altronde, questo criterio discretivo, individuato dalla giurisprudenza costituzionale, ha, sin dalla fine degli anni cinquanta, orientato tutte le scelte successive del legislatore in materia di misure di prevezione; e ha altresì ispirato, nel 2011, il loro riordinamento organico nel codice antimafia, nel quale è stata mantenuta la tradizionale distinzione tra misure “minori” (foglio di via obbligatorio e avviso orale), disposte dall’autorità di pubblica sicurezza senza convalida giudiziale, e la più gravosa misura della sorveglianza speciale con o senza divieto od obbligo di soggiorno, la cui applicazione è riservata all’autorità giudiziaria, e a tale criterio si è, altresì, ispirato il legislatore in materia di DASPO.
L’art. 6 della legge n. 401 del 1989, che ha disciplinato il “DASPO sportivo” – il progenitore di tutte le attuali misure di prevenzione “atipiche” –, ha previsto in effetti un procedimento di convalida giudiziale modellato sull’art. 13 Cost. soltanto nell’ipotesi, contemplata dal comma 2 del medesimo articolo, in cui all’interessato venga imposto, oltre che il divieto di accesso ai luoghi in cui si svolgono manifestazioni sportive, anche l’obbligo positivo di comparire presso un ufficio di polizia negli orari in cui si svolgono tali manifestazioni. In tutte le altre ipotesi di “DASPO sportivo”, nelle quali non si prevede alcun obbligo di recarsi in un luogo determinato, ma soltanto il divieto di accedere in determinati luoghi, nessuna convalida è oggi prevista.
Analogamente, la disciplina del DASPO cosiddetto “antispaccio” e “antirissa” – contenuta rispettivamente negli artt. 13 e 13-bis del d.l. n. 14 del 2017 – prevede la convalida giudiziale soltanto nelle ipotesi in cui la misura sia caratterizzata dall’imposizione di obblighi ulteriori rispetto al divieto di accedere in determinati luoghi, che parimenti possono essere disposti dal solo questore.
Di conseguenza, la linea discretiva così individuata dalla giurisprudenza costituzionale, e alla quale il legislatore si orienta ormai da molti decenni nel disegnare la disciplina delle misure di prevenzione, riposa evidentemente sull’assunto che il divieto di recarsi in un certo luogo sia, di regola, meno gravoso per l’interessato rispetto all’obbligo di recarsi, o di rimanere, in un luogo determinato; assunto, questo, che offre a tutt’oggi una guida relativamente sicura nel distinguere tra i diversi livelli di intensità delle misure che comunque incidono sulla libertà della persona di muoversi nello spazio: il che assicura prevedibilità e coerenza alle decisioni della Consulta, a beneficio anzitutto del legislatore, che a tali decisioni si ispiri.
Prevedibilità e coerenza che, invece, risulterebbero necessariamente indebolite da un approccio alternativo che conducesse a “pesare” caso per caso l’intensità delle restrizioni della libertà di movimento, indipendentemente dalla loro natura, discendenti da ciascuna singola misura.
Naturalmente, per il Giudice delle leggi, questa giurisprudenza ben potrà essere riconsiderata nell’ipotesi in cui il legislatore dovesse, in futuro, dilatare eccessivamente i divieti inerenti alle misure in esame, in termini sia di estensione degli spazi dai quali il soggetto venga interdetto, sia di durata della stessa interdizione, rendendo così non più sostenibile l’assunto, sul quale tale giurisprudenza implicitamente si fonda, della generale minore incidenza del divieto di recarsi in un luogo determinato rispetto all’obbligo di recarsi periodicamente presso un ufficio di polizia, o di rimanere nella propria abitazione durante le ore notturne.
D’altra parte, nemmeno potrebbe ritenersi che gli approdi cui la stessa Consulta è pervenuta si pongano in frizione con gli obblighi internazionali di rispetto dei diritti umani ai quali l’Italia è vincolata.
In particolare, per ciò che concerne, in particolare, il quadro giuridico convenzionale, né l’art. 5 CEDU in materia di libertà personale, né l’art. 2 del Protocollo n. 4 CEDU in materia di libertà di circolazione, esigono che il provvedimento restrittivo della libertà della persona sia adottato da un’autorità giudiziaria, ovvero che esso sia convalidato da un giudice in esito a un procedimento da attivare in ogni singolo caso ex officio, come richiesto invece dall’art. 13 Cost..
Quest’ultima norma, sotto il profilo ora all’esame, offre dunque, per la Corte, una tutela più elevata del diritto fondamentale in gioco rispetto a quella assicurata dalla Convenzione e dai suoi protocolli, che richiedono semplicemente la possibilità di un ricorso effettivo al giudice successivo all’adozione del provvedimento, e attivabile a istanza di parte.
Infine, ma non da ultimo, la Corte costituzionale reputava non convincente l’argomentazione secondo la quale il mutamento giurisprudenziale oggi sollecitato sia indispensabile al duplice scopo di garantire una tutela effettiva ai diritti fondamentali del destinatario contro i rischi di uso arbitrario della misura in esame, e assieme di evitare – attraverso l’imposizione di misure correlate a condotte illecite ma contigue all’esercizio di diritti fondamentali – un indebito chilling effect rispetto a condotte pienamente coperte da tali diritti posto che le pronunce del giudice amministrativo e della stessa giurisprudenza di legittimità citate dall’ordinanza di rimessione mostrano che tali rischi non sono meramente congetturali.
Ad ogni modo, sempre ad avviso della Consulta, anche in assenza di una verifica preventiva caso per caso da parte del giudice, l’ordinamento italiano dispone di strumenti idonei a garantire un controllo giurisdizionale effettivo della legittimità del provvedimento, e a schermare in tal modo il pericolo di una sua utilizzazione, ad esempio, quale strumento di repressione del dissenso politico e delle legittime forme di protesta protette dalla Costituzione.
E ciò attraverso un duplice ordine di rimedi.
Il primo è costituito dal ricorso al giudice amministrativo, che è certamente idoneo ad assicurare – grazie ai provvedimenti cautelari di cui agli artt. 55, 56 e 61 del codice del processo amministrativo – una tutela immediata ed effettiva contro eventuali provvedimenti lesivi dei diritti fondamentali dell’interessato, con possibilità di patrocinio a spese dello Stato per i non abbienti.
L’assenza della specifica garanzia, prevista per le misure restrittive della libertà personale, di un controllo preventivo ed ex officio del giudice su ciascuna misura è qui almeno in parte compensata dalle maggiori possibilità pratiche, per l’interessato, di esercitare il proprio diritto di difesa in un procedimento svincolato dalle rigide scansioni temporali imposte dall’art. 13 Cost.; scansioni che, per altro verso, rendono problematico – nell’esperienza concreta dei procedimenti di convalida di DASPO previsti dalla legislazione vigente, strutturati oggi come meramente “cartolari” e senza contraddittorio necessario – far pervenire al giudice deduzioni difensive scritte in tempo utile per la decisione.
In secondo luogo, nell’ambito del procedimento penale per la violazione degli obblighi imposti con la misura, il giudice penale è sempre tenuto a una verifica incidentale della legittimità del provvedimento.
Infine, per la Consulta, non è tra l’altro superfluo rammentare che lo scrutinio sulla legittimità del provvedimento – sia essa compiuta dal giudice amministrativo ovvero, in via incidentale, dal giudice penale – comprende necessariamente anche una valutazione di proporzionalità tra le legittime finalità di tutela perseguite dall’autorità di polizia e la concreta incidenza della misura sulla libertà di circolazione dell’interessato, nonché sull’intera gamma dei diritti fondamentali comunque incisi dal provvedimento (compresi i diritti al lavoro, alla salute, alla vita privata e familiare), e ciò in quanto la proporzionalità è «requisito di sistema nell’ordinamento costituzionale italiano, in relazione a ogni atto dell’autorità suscettibile di incidere sui diritti fondamentali dell’individuo» (sentenza n. 24 del 2019, punto 9.7.3. del Considerato in diritto; nello stesso senso, sentenza n. 46 del 2024, punto 3.1. del Considerato in diritto), operando sia come requisito di legittimità costituzionale di ogni legge che preveda limitazioni dei diritti fondamentali della persona, sia come requisito di legittimità di ogni misura amministrativa o giudiziaria che, in attuazione della legge, restringa i diritti di una persona nel singolo caso concreto.
Da tutto ciò il Giudice delle leggi reputava la questione di cui sopra non fondata.
Terminata la disamina della prima questione, in relazione alla seconda, si notava innanzitutto come essa, come visto in precedenza, assumesse l’irragionevole disparità di trattamento, in contrasto con l’art. 3 Cost., tra la disciplina del foglio di via obbligatorio, affidata alla competenza del questore, e quella di varie altre misure che avrebbero, secondo il rimettente, analogo impatto sulla libertà dell’interessato, ma che l’ordinamento riserva alla competenza dell’autorità giudiziaria.
In particolare, l’ordinanza di rimessione individuava come tertia comparationis: (i) la misura di sicurezza del divieto di soggiorno di cui all’art. 233 cod. pen., (ii) la misura cautelare del divieto di dimora di cui all’art. 283 cod. proc. pen., e (iii) la misura di prevenzione della sorveglianza speciale di cui all’art. 6 cod. antimafia.
Orbene, per i giudici di legittimità costituzionale, nemmeno questa seconda questione era fondata.
Le prime due misure hanno, in effetti, contenuto obbligatorio analogo a quello del foglio di via; ma la loro natura giuridica è del tutto diversa, trattandosi per l’appunto in un caso di una misura di sicurezza applicata in esito a un giudizio penale, e nell’altro caso di una misura cautelare disposta nell’ambito di un procedimento penale, essendo proprio la diversa natura giuridica quella atta a determinare l’autorità competente a disporle, la quale è necessariamente il giudice penale: più precisamente, il giudice di cognizione, chiamato ad applicare la misura di sicurezza in esito al processo penale, sulla base dell’accertamento di un fatto previsto dalla legge come reato; ovvero il giudice per le indagini preliminari, e poi il giudice procedente durante il processo, i quali sono competenti a disporre misure cautelari coercitive (tra cui il divieto di dimora), in presenza di gravi di indizi di colpevolezza e di esigenze cautelari ritenute fronteggiabili con quella specifica misura.
La diversa natura (e funzione) delle misure in parola rispetto al foglio di via le rende, dunque, per la Corte, inidonee a costituire tertia comparationis ai sensi dell’art. 3 Cost..
Quanto, infine, alla misura della sorveglianza speciale di pubblica sicurezza, i giudici di legittimità costituzionale osservava come essa abbia sì natura omogenea rispetto al foglio di via, ma differisce da quest’ultimo proprio per la sua maggiore incidenza sulla libertà di movimento dell’interessato, secondo i principi enunciati dalla costante giurisprudenza costituzionale già esaminati, dal momento che proprio tale differenza costituisce ragione giustificativa del diverso trattamento ad esso riservato, quanto all’autorità competente a disporlo.
Da ultimo, a proposito delle due residue questioni, formulate – in rapporto di subordinazione scalare – in riferimento al solo art. 3 Cost., con cui ci si doleva dell’irragionevole disparità di trattamento riservato al foglio di via obbligatorio rispetto a quello applicabile al cosiddetto “DASPO urbano”, nelle ipotesi previste dall’art. 10, comma 3, del d.l. n. 14 del 2017, per le quali era previsto – in forza del successivo comma 4, nella versione vigente all’epoca dell’ordinanza di rimessione – il medesimo procedimento di convalida giurisdizionale previsto dall’art. 6, commi 2-bis, 3 e 4, della legge n. 401 del 1989 per il “DASPO sportivo”, secondo il rimettente, tale diverso trattamento sarebbe irragionevole, stante la maggiore gravosità del foglio di via rispetto al “DASPO urbano”, si evidenziava come, tuttavia, successivamente all’ordinanza di rimessione, l’art. 3, comma 1, del d.l. n. 123 del 2023 abbia modificato l’art. 10, comma 4, del d.l. n. 14 del 2017, sopprimendo il procedimento di convalida giurisdizionale per ogni tipologia di “DASPO urbano”.
Conseguentemente, e a prescindere da ogni ulteriore valutazione circa l’effettiva similitudine tra le due misure, per il Giudice delle leggi, la disciplina del “DASPO urbano” non può più costituire utile tertium comparationis rispetto a questioni finalizzate a introdurre, anche per il foglio di via obbligatorio, un procedimento di convalida giurisdizionale.
Dal che la non fondatezza anche delle questioni sollevate in via subordinata.
4. Conclusioni
Fermo restando che, come è noto, l’art. 2, co. 1, primo periodo, d.lgs. n. 159 del 2011 (altrimenti conosciuto come Codice antimafia), dispone che qualora “le persone indicate nell’articolo 1 siano pericolose per la sicurezza pubblica e si trovino in un comune diverso dai luoghi di residenza o di dimora abituale, il questore, con provvedimento motivato, può ordinare loro di lasciare il territorio del medesimo comune entro un termine non superiore a quarantotto ore, inibendo di farvi ritorno, senza preventiva autorizzazione, per un periodo non inferiore a sei mesi e non superiore a quattro anni”, il Giudice delle leggi, nella decisione qui in commento, ha respinto le censure di illegittimità costituzionale prospettate nel caso di specie, ritenendo che l’assenza di un controllo preventivo da parte del giudice non comporti criticità, poiché il sistema giuridico italiano prevede adeguati strumenti di tutela.
In particolare, questi strumenti includono il ricorso al giudice amministrativo, che può emettere provvedimenti cautelari per proteggere i diritti dell’interessato, e la verifica da parte del giudice penale in caso di violazione degli obblighi imposti dalla misura.
Inoltre, la misura de qua non è stata considerata nemmeno in contrasto con l’art. 3 della Costituzione, che vieta disparità di trattamento, poiché il “foglio di via” ha una natura e una funzione diverse rispetto ad altre misure come il divieto di soggiorno o la sorveglianza speciale, rendendo pertanto queste misure inidonee a costituire tertia comparationis ai sensi dell’art. 3 Cost..
Questi sono dunque i tratti salienti che connotano la motivazione addotta dalla Consulta in tale occasione.
Scrivi un commento
Accedi per poter inserire un commento