Il capo III, Tit. IV, libro I del codice penale disciplina il c.d. concorso di persone nel reato, istituto per mezzo del quale si sanziona penalmente il comportamento di due o più soggetti che concorrono nel medesimo reato.
La norma cardine del sistema normativo relativo al concorso di persone nel reato è l’art. 110 c.p.
La funzione di tale disposizione, indicata significativamente come “clausola di estensione della tipicità”, è quella di rendere tipici degli atti o delle condotte che, di per sé, sarebbero atipici e penalisticamente irrilevanti (l’esempio tradizionale è quello di una rapina perpetrata da più soggetti in concorso tra loro: in assenza della clausola ex art. 110 c.p., il comportamento del c.d. “palo”, il soggetto che controlla la situazione mentre i compartecipi compiono materialmente la rapina, sarebbe lecito e penalmente irrilevante, pur essendo di solare evidenza l’importanza della sua opera di sorveglianza sul corretto andamento dell’azione delittuosa).
In prima battuta, è possibile affermare che le forme di manifestazione del concorso di persone nel reato sono fondamentalmente due: il concorso materiale e il concorso morale.
Il concorso materiale consiste nel porre in essere uno o più atti materiali che contribuiscono causalmente alla realizzazione dell’evento (è il caso, ad esempio, della rapina perpetrata da più soggetti dei quali l’uno si occupa della minaccia o violenza alla persona vittima del delitto, l’altra procede alla materiale apprensione della cosa mobile altrui, e l’altra ancora controlla dall’esterno l’operazione criminosa).
Il concorso morale, invece, si verifica allorquando si fa sorgere o si rafforza l’altrui proposito criminoso (si pensi, ad esempio, a chi istiga un determinato soggetto a commettere un furto o, addirittura, al caso del “mandante” di un omicidio).
Delicati problemi si pongono, poi, in relazione alla individuazione dell’elemento psicologico e del nesso di causalità nel concorso di persone nel reato e, segnatamente, nel concorso morale.
Escluso pacificamente il concorso colposo nel delitto doloso (argomentato dal combinato disposto degli artt. 42, c. 2° e 113 c.p.) (1), con riferimento al concorso doloso nel delitto doloso è d’uopo rilevare che il dolo (di concorso) si atteggia come previsione e volontà di collaborare all’altrui azione criminosa; il nesso di causalità, poi, si configura in modo diverso rispetto alla fattispecie monosoggettiva, dovendo l’azione (in caso di concorso) portare un contributo causale anche minimo alla realizzazione dell’evento.
Incertezze interpretative di non poco momento sorgono allorquando si cerchi di tracciare i confini tra il concorso di persone nel reato (con particolare riguardo al concorso morale) e la c.d. connivenza mera.
In via di prima approssimazione, si può affermare che la connivenza si verifica tutte le volte in cui un soggetto assiste passivamente alla commissione di un reato, quindi non ponendo in essere alcun contributo materiale o morale alla realizzazione dell’evento, né manifestando approvazione o disapprovazione rispetto all’azione criminosa.
In altri termini, il “connivente” assiste in totale indifferenza all’actio sceleris.
Il problema, di non poco rilievo pratico, è stato risolto in giurisprudenza seguendo fondamentalmente due strade: quella del concorso nel reato mediante omissione, e quella del concorso morale.
L’orientamento giurisprudenziale che ha ricondotto la connivenza al concorso omissivo ha utilizzato la categoria generale del reato omissivo improprio.
Come è noto, il reato omissivo improprio nasce dalla combinazione dell’art. 40, c. 2° c.p. (c.d. “clausola di equivalenza”) con le diverse norme di parte speciale che contemplano le singole fattispecie criminose convertibili (e, qui, si potrebbero rammentare le diverse impostazioni della dottrina che ritiene convertibili in reati omissivi impropri solo le fattispecie di reato di evento a forma libera; e della giurisprudenza che, invece, ritiene convertibili anche i reati di pura condotta e i reati di evento a forma vincolata, ma l’analisi specifica della tematica appena accennata esula dal piano della presente opera) (2).
Ora, a prescindere dalla tesi che si accolga in ordine alla natura giuridica dei reati passibili di conversione nella forma omissiva ex art. 40 cpv. c.p., è sempre e comunque necessaria la sussistenza in capo al soggetto attivo del reato di un obbligo giuridico di impedire l’evento: trattasi del c.d. “obbligo di garanzia”.
La dottrina prevalente ritaglia all’interno della generale categoria dell’obbligo di garanzia le due figure dell’ obbligo di protezione (inteso come obbligo di protezione di determinati beni giuridici da tutte le possibili fonti di pericolo che possano minacciarne l’integrità), e dell’ obbligo di controllo (di determinate fonti di pericolo, al fine di evitare che esse offendano beni giuridicamente tutelati).
Nella selezione degli obblighi di garanzia la cui violazione consente l’affermazione di responsabilità penale risulta ormai pacificamente accolta la c.d. “teoria mista” (in base alla quale può dirsi che su un soggetto gravi un obbligo di garanzia solo ove questo derivi da una fonte formale -ad esempio, la legge o un contratto- e vi sia la effettiva presa in carico del bene).
Ciò premesso, la giurisprudenza riconosce la responsabilità a titolo di omissione solo ove il soggetto gravato dall’obbligo di garanzia sia titolare di reali poteri impeditivi dell’evento e, dunque, sia effettivamente in grado di intervenire per interrompere la serie causale che sfocia nella produzione dell’evento.
Occorre adesso analizzare qual è stata l’evoluzione giurisprudenziale (e dottrinale) nell’applicazione di tali coordinate interpretative alla connivenza intesa come concorso omissivo nel reato.
Parte della giurisprudenza (minoritaria e risalente) ha ritenuto applicabile il concorso omissivo nel caso della connivenza tentando di reperire un obbligo di garanzia in capo al soggetto che passivamente assiste alla perpetrazione di un reato, argomentando fondamentalmente dall’art. 2 Cost., e facendo leva, quindi, sul generale dovere inderogabile di solidarietà sociale, che imporrebbe sempre un intervento al fine di impedire il compimento di reati altrui.
La giurisprudenza prevalente critica l’orientamento testé enunciato, sostenendo l’estrema genericità del riferimento all’obbligo di garanzia ex art. 2 Cost.
Tale orientamento ritiene che, nel caso di connivenza, non sia possibile accedere alla tesi del concorso omissivo proprio perché, per i cittadini, manca un obbligo di garanzia generalizzato di impedire gli altrui reati (3); e, fra l’altro, perché in virtù del comportamento passivo l’agente non arreca alcun contributo alla realizzazione del fatto attraverso il sostegno all’altrui condotta criminosa (4).
Anche la dottrina, quasi unanime, pare poi accedere all’orientamento da ultimo esaminato.
Si argomenta, in primo luogo, dal disposto degli artt. 52 (e 54 c.p.) e, quindi, in generale, dalla figura del “soccorso difensivo”: esso è chiaramente facoltativo, e non obbligatorio, valendo soltanto a scriminare il fatto delittuoso commesso per la necessità di difendere un diritto altrui contro il pericolo attuale di un’offesa ingiusta (o per salvare altri dal pericolo attuale di un danno grave alla persona).
In secondo luogo, si argomenta, a contrario, dalla presenza di norme che sanciscono specifici obblighi impeditivi a carico di soggetti ben determinati (ad esempio, le forze dell’ordine), talora anche autonomamente sanzionati (come, ad esempio, nell’art. 484 c.p.), nonché dal fatto che il privato, esclusi taluni casi particolari e di stretta interpretazione (artt. 364, 652, 709 c.p.), ha soltanto la facoltà di cooperare ai fini di polizia (5).
Si sottolinea come specifici obblighi impeditivi di determinati reati siano poi previsti dalla legge o contratto a carico di particolari categorie di soggetti (titolari di un potere di educazione, istruzione, cura, custodia; amministratori di società, guardie giurate).
Ritenuta, dunque, non condivisibile l’interpretazione della connivenza in caso di concorso omissivo, si è battuta la via del concorso morale.
Gli orientamenti giurisprudenziali che hanno affrontato il problema della connivenza in termini di concorso morale sono essenzialmente tre.
Una parte della giurisprudenza è per la positiva.
Si dice che il semplice assistere passivamente alla perpetrazione di un reato, pur senza contribuirvi materialmente o moralmente, è idoneo, in quanto tale, a rafforzare il proposito criminoso del soggetto agente il quale trae maggior sicurezza e determinazione dalla presenza di un altro soggetto che non interviene o comunque non manifesta la propria disapprovazione.
Si richiama fondamentalmente il generico dovere di solidarietà sociale già utilizzato dai sostenitori della tesi del concorso omissivo.
Altra parte della giurisprudenza, invece, sostiene l’impossibilità di configurare un concorso morale nel caso di connivenza.
In tal senso si sottolinea, in primis, che l’atteggiamento del connivente è, di per sé, neutro, e, in secondo luogo, che, per aversi responsabilità a titolo di concorso morale, è pur sempre necessario un contributo causale alla realizzazione dell’evento, nella forma dell’effettivo rafforzamento dell’altrui proposito criminoso.
In altri termini, è necessario che vi sia un’incidenza, per quanto minima, sulla sfera psicologica del soggetto agente, sì da potersi parlare di contributo causale all’azione criminosa.
Un terzo orientamento giurisprudenziale, prevalente e condivisibile, sostiene che, in realtà, il problema della connivenza come forma di manifestazione del concorso di persone nel reato non possa essere risolto in astratto, ma occorre compiere, ogni volta, una valutazione del caso concreto.
In tal senso si è rilevato che la presenza sul luogo del fatto può assumere rilevanza penale quando la stessa influisca sulla condotta dell’ esecutore materiale rafforzandone la volontà o accrescendo il senso di sicurezza dello stesso (6).
In tali casi, si è detto, non rileva il fatto oggettivo della presenza sul luogo del fatto, di per sé scarsamente significativo, bensì l’effetto che quella presenza abbia determinato sul soggetto agente o rafforzandone il proposito criminoso, o assicurandogli maggiore sicurezza, così favorendo la consumazione del reato ed incidendo indirettamente sulla sua realizzazione.
Si è infine osservato che “di fronte ad un comportamento meramente omissivo o alla presenza dell’imputato all’ideazione, preparazione o esecuzione del delitto, il giudice deve valutare con rigore logico il comportamento dell’imputato onde cogliere gli aspetti sintomatici atti a giustificare la condotta del presunto concorrente come partecipazione criminosa piuttosto che semplice connivenza o mera adesione morale; non può però non ritenersi partecipe colui che manifesta anche tacitamente la sua adesione volontaria all’altrui piano criminoso, anche quando la realizzazione di questo abbia inizio prima che ne venisse a conoscenza, ma sia ancora in corso –è l’ipotesi del reato permanente, che postula il protrarsi nel tempo della condotta criminosa; esplichi una qualsiasi attività, nell’ambito della realizzazione collettiva, che si esaurisca in un rafforzamento della volontà dei compartecipi di commettere il delitto o in un contributo, qualunque ne sia la natura e l’incidenza, nell’eziologia e nella dinamica, nella consumazione collettiva del reato” (7).
Questa giurisprudenza precisa inoltre che: “1) spetta al giudice del merito indicare il rapporto di causalità efficiente tra l’attività incentivante del concorso morale e quella posta in essere dall’autore materiale del reato (8); 2) la semplice presenza inattiva od anche la sola connivenza oppure il non aver impedito la consumazione del reato non costituiscono concorso morale, di cui all’art. 110 c.p., poiché questo richiede almeno il volontario rafforzamento, il contributo ideologico o, quantomeno, un’incidenza nel determinismo psicologico dell’autore del reato” (9).
A ben vedere, vi possono essere delle situazioni nelle quali l’assistere passivamente alla perpetrazione di un reato, senza alcun cenno di approvazione o disapprovazione, e in totale indifferenza, può effettivamente rafforzare l’altrui proposito criminoso.
L’esempio tradizionale è calzante: si pensi al soggetto che compie un delitto in presenza di un proprio amico il quale, notoriamente, esercita su di lui un potere notevole di influenza.
Ebbene, in tal caso, non sembra possa escludersi la responsabilità del soggetto connivente, notoriamente influente sulla sfera psichica del soggetto agente.
Quindi, in ultima analisi, pare doversi riconoscere la responsabilità penale per concorso morale, nella forma della connivenza, del soggetto che assiste passivamente alla perpetrazione del reato da parte di un altro soggetto sul quale il primo potrebbe ben esercitare la propria influenza.
Ovviamente, in tale situazione, sarà necessario che il connivente sia consapevole del potere di influenza sull’agente e, ciononostante, non si attivi per impedire l’evento.
In altri termini, sarà necessario un accertamento particolarmente rigoroso sia della sussistenza del nesso di causalità (verificando se effettivamente vi fosse un potere di influenza del connivente sull’agente e, quindi, se la sua presenza sul luogo del reato sia valso quale contributo causale rilevante, rafforzando l’altrui proposito criminoso); sia dell’elemento psicologico, nella forma del dolo di concorso, e quindi se il connivente abbia effettivamente voluto portare il suo contributo alla realizzazione dell’azione delittuosa, abbia effettivamente voluto partecipare all’azione semplicemente assistendo alla stessa ed essendo consapevole della possibilità di esercitare un potere di influenza sul soggetto che gli avrebbe consentito, in ultima analisi, di impedire la prosecuzione dell’azione.
L’esempio non è di scarso rilievo pratico.
Si potrebbe infatti pensare a tutte le ipotesi in cui un soggetto, affetto da stati oligofrenici o da sindromi da personalità dipendente, tali da non escludere o scemare la capacità di intendere e di volere e quindi perfettamente imputabile, o in preda a stati emotivi o passionali, commette un reato in presenza di una persona (rectius: della persona) dalla quale dipenda a livello psichico o alla quale sia morbosamente legato e che quindi possa interpretare l’atteggiamento inerte ed indifferente di quest’ultimo come una sorta di tacita approvazione.
Un ultimo rilievo s’impone.
In molti dei casi affrontati dai giudici di merito e di legittimità, pur nella ritenuta inconfigurabilità di un concorso morale a carico del soggetto mero connivente, si è molte volte concluso per la responsabilità penale dello stesso a titolo di omissione di soccorso, ai sensi dell’art. 593, comma 2° c.p.
In altri termini, si è concluso nel senso che “la condotta omissiva del soggetto che assiste passivamente alla commissione di un delitto, in totale indifferenza, non ponendo in essere alcun contributo materiale o morale alla realizzazione dell’evento, né manifestando approvazione o disapprovazione rispetto all’azione criminosa, integra tanto l’elemento oggettivo, ossia l’essersi trovato al cospetto di una persona ferita o altrimenti in pericolo, quanto il dolo, cioè l’inosservanza cosciente e volontaria di prestare la dovuta assistenza ovvero di avvisare immediatamente l’autorità” del reato di cui all’art. 593, comma 2° c.p. (10). Ovviamente, con il venir meno dell’obbligo di prestare assistenza o di dare avviso all’Autorità (e conseguente esenzione da responsabilità ex art. 593, comma 2°c.p.) nel caso in cui il soggetto per la sua età, per le sue condizioni particolari o per altre cause si trovi nell’assoluta impossibilità di adempierlo, e ciò in applicazione del principio generalissimo: ad impossibilia nemo tenetur (11); e con l’ulteriore precisazione che tale obbligo non cessa per il sol fatto che l’adempimento esporrebbe il soggetto ad un pericolo personale, perché la norma contenuta nell’art. 593 c.p., mirando a rafforzare il sentimento della solidarietà umana, eleva il coraggio a dovere giuridico. Il soggetto potrà dunque sottrarsi alla responsabilità solo quando ricorrano gli estremi dello stato di necessità (art. 54 c.p.), e, cioè, quando sia costretto alla omissione dalla necessità di salvare sé od altri dal pericolo attuale di un danno grave alla persona, non altrimenti evitabile (con questo restando fermo l’obbligo, ove materialmente possibile, di dare immediato avviso all’Autorità).
Un’attenzione particolare ha suscitato, tra gli interpreti, il problema della connivenza degli appartenenti alle forze dell’ordine.
Anche in tal caso la giurisprudenza e la dottrina hanno variamente applicato il paradigma del concorso omissivo e del concorso morale.
Con riferimento alla riconducibilità della connivenza delle forze dell’ordine nell’alveo del concorso omissivo, la giurisprudenza e la dottrina prevalente hanno reperito in capo ai soggetti appartenenti alle Forze dell’ordine un generale obbligo di garanzia di impedire gli altrui reati muovendo dalla interpretazione dell’ordinamento giuridico complessivamente inteso e, segnatamente, dell’ordinamento delle Forze di polizia e dalla stessa funzione istituzionale delle forze dell’ordine: mantenimento dell’ordine pubblico, sicurezza dei cittadini, tutela della proprietà, cura dell’osservanza della legge (art. 1 R.D. 733/1931) e, quindi, in primis, l’impedimento dei reati, motivando anche dal conferimento a tali forze dei poteri giuridici impeditivi (con correlativi mezzi di coazione fisica), che sono la base fondante e specificante dell’obbligo di garanzia.
Diversi gli argomenti addotti a sostegno.
Anzitutto, si è sostenuta la non necessarietà, per la sussistenza dell’obbligo di garanzia, dell’invocata esistenza di un preesistente rapporto di tutela tra garante e garantito, essendo questo richiesto solo per gli obblighi di protezione, non per gli obblighi di controllo, e bastando per l’obbligo di impedimento dei reati la sottoposizione dei soggetti ai poteri giuridici impeditivi, quali i poteri coercitivi delle forze dell’ordine.
In secondo luogo si è valorizzata la specificità dell’obbligo impeditivo de quo, perché desumibile dalla preliminare ed ovvia precisazione che l’obbligo in questione non è l’asserito obbligo, del tutto inesigibile, di tutelare in ogni momento tutti i beni di tutti, ma l’obbligo di impedimento concretamente possibile (ad esempio, dei reati commessi in presenza o, comunque, a conoscenza degli appartenenti alle forze dell’ordine); ancora, si è invocato il dovere della Repubblica di garantire i diritti dell’uomo (art. 2 Cost.), compreso il diritto alla libertà dal crimine, inteso come interesse giuridicamente tutelato in sé, e in quanto strumentale alla tutela di altri fondamentali diritti della persona costituzionalmente garantiti (ad esempio, la libertà personale) (12).
Sottolineando, da ultimo, tutta una serie di conclusioni inaccettabili cui, diversamente opinando, si giungerebbe: a) una sostanziale vanificazione della funzione di tutela dell’ordine pubblico e parificazione delle forze dell’ordine a quella dei semplici cittadini sforniti di poteri impeditivi; b) un sostanziale disarmo delle forze dell’ordine criminogeno perché subito sfruttabile dalla delinquenza; c) l’inaccettabilità da parte del contribuente dei gravosi oneri fiscali per il mantenimento di forze dell’ordine, non tenute, almeno penalmente, a proteggerlo contro i delinquenti (13), e, in tal senso, in controtendenza rispetto al principio generale di cui all’art. 54, comma 2° c.p..
Dottrina minoritaria (14), invece, sostiene l’inconferenza del richiamo alla figura del concorso omissivo non essendovi un generale obbligo di garanzia gravante sugli appartenenti alle Forze dell’ordine e richiedendosi un obbligo specifico di impedire l’evento.
Questa dottrina muove dalla considerazione per cui la funzione di prevenzione che lo Stato esercita a mezzo delle forze dell’ordine, non ha come premessa che tutti i cittadini siano individui irresponsabili, da tenere sotto continuo controllo ricorrendo alla predisposizione di appositi garanti: piuttosto, gli strumenti su cui lo Stato fa affidamento per impedire la commissione di illeciti sono innanzitutto offerti dalle norme penali, alle quali intanto può attribuirsi efficacia deterrente, in quanto si ritiene che i relativi destinatari siano capaci di governare responsabilmente la loro condotta.
Si osserva come il dovere di impedimento dei reati gravante sugli appartenenti alla forza pubblica (art. 1 R.D. 733/1931), o sugli ufficiali e agenti di polizia giudiziaria sia troppo generico per poter soddisfare realmente quelle caratteristiche di determinatezza e specialità che connotano il rapporto di protezione posto a fondamento della posizione di garanzia.
L’esempio portato da questo orientamento è quello degli agenti di scorta che hanno l’obbligo giuridico specifico di intervenire a tutela dell’incolumità fisica del soggetto scortato.
Altra parte della giurisprudenza ha seguito la via del concorso morale, seppure sostenendo la necessità di una valutazione del caso concreto.
E, allora, si è detto, in tal senso, che può riconoscersi la responsabilità a titolo di concorso morale del soggetto appartenente alle Forze dell’ordine il quale, riconosciuto dal soggetto che commette il delitto, perché ad esempio in divisa, assiste passivamente alla perpetrazione dell’azione criminosa.
In tal caso, si è concluso, l’agente riceve maggior sicurezza dalla presenza dell’appartenente alle forze dell’ordine sul luogo del delitto potendo la sua inerzia essere interpretata come tacita approvazione o come tacita promessa di non intervento o di non denunzia all’Autorità.
Allo stesso modo del caso, più volte affrontato dai giudici di merito, del poliziotto che assistendo ad un pestaggio, lungi dall’intervenire personalmente o sollecitando un intervento dei propri colleghi, sempre possibile, si limiti ad osservare passivamente e ad allontanarsi dalla scena del commesso reato, ingenerando negli autori dello stesso il convincimento dell’impunità.
Su tale via, autorevole dottrina (15) suggerisce l’utilizzo di determinati criteri alla stregua dei quali apprezzare, in termini di concorso morale, la semplice presenza sul luogo del reato di un appartenente alle forze dell’ordine: la visibilità dello stesso da parte degli esecutori del reato; la riconoscibilità, da parte di costoro, della sua funzione istituzionale (ad esempio, dalla divisa indossata e dalle armi d’ordinanza); un atteggiamento comunicante una pur se tacita approvazione o una tacita promessa di non intervento.
Ne deriva, in ultima analisi, che, mentre devono ritenersi compartecipi del reato il carabiniere che non impedisce il ferimento sotto i suoi occhi, il poliziotto che non interviene per fermare la violenta aggressione sessuale ai danni di una fanciulla da parte del bruto, l’appartenente alla Guardia di Finanza che non impedisce uno dei reati di contrabbando previsti nella legislazione speciale, non soggiace a pena, in linea di principio, il semplice cittadino che rimane spettatore dinanzi alla perpetrazione di un reato (fermo restando l’apprezzamento, da parte del giudice del caso concreto, della mera connivenza in termini di concorso morale) .
Dott. Matteo Grimaldi
Note
(1) MANTOVANI, Diritto penale, parte generale, IV ed., pag. 558
(2) FIANDACA-MUSCO, Diritto penale, parte generale, III ed.
(3) Cass., sez. VI, 14 settembre 1994, n. 9930, Campostrini; Cass., sez. I, 8aprile 1986, n. 2775, Brusisco
(4) Cass., sez. I, 7 febbraio 1992, n. 1172, Terranova, in Giust. pen., 1992, II, 350
(5) MANTOVANI, Diritto penale, parte generale, IV ed., pag.547
(6)Cass., sez. VI, 2 novembre 1990, n. 14348, Giorgini, in Cass. pen. 1992, 304; Cass. sez. VI, 30 settembre 1999, Oliverio e altri, G. Dir., 2000, n. 5, 105; Cass., sez. I, 23 novembre 2000, n. 12089, Moffa, in Cass. pen. 2001, 2687
(7) Cass. 17 giugno 1992, Ortu, in Cass. pen., 1993
(8) Cass., 1° luglio 1983, Ciriello, in Cass. pen. 1984
(9) Cass., 17 ottobre 1985, Onorato, in Cass. pen. 1987
(10) ex plurimis, Trib. Venezia, 22 maggio 1996, in Foro italiano, 1997
(11) ANTOLISEI , Manuale di diritto penale, parte speciale, I, XIII ed.
(12) LEONCINI, Obbligo di attivarsi, obbligo di garanzia e obbligo di sorveglianza, Torino, 1999
(13) MANTOVANI, Diritto penale, parte generale, IV ed., pag. 548, nota 168
(14) FIANDACA-MUSCO, Diritto penale, parte generale, III ed.
(15) MANTOVANI, Diritto penale, parte generale, IV ed., pag. 549
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