Concordato preventivo in continuità aziendale: fattibilità e convenienza

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Ci si potrebbe chiedere il perché di un’analisi che indaghi quale sia il significato attribuito, tanto dalla dottrina quanto dalla giurisprudenza, ai concetti di “fattibilità” del piano concordatario e “convenienza” della proposta concordataria.

Si vuole in tal senso far riferimento a prospettazioni dottrinali e soluzioni giurisprudenziali per il semplice fatto che la Legge Fallimentare non sembra approfondire in alcun modo quale sia il significato da attribuire a concetti, quali quelli di “fattibilità” e “convenienza”, che invece giocano un ruolo fondamentale nella prassi concordataria.

Da una rapida lettura del testo del R.D. n. 267/1942 ci si può ben rendere conto di come facciano incidentalmente cenno alla “convenienza” gli art. 180 (Giudizio di omologazione) e 182-ter (Trattamento dei creditori tributari e contributivi) mentre di “fattibilità” si parli all’ art. 161 co. 3, laddove la disposizione afferma che “Il piano e la documentazione di cui ai commi precedenti devono essere accompagnati dalla relazione di un professionista, designato dal debitore, in possesso dei requisiti di cui all’articolo 67, terzo comma, lettera d), che attesti la veridicità dei dati aziendali e la fattibilità del piano medesimo. Analoga relazione deve essere presentata nel caso di modifiche sostanziali della proposta o del piano”, ed all’art. 179 l.f. dove si prescrive che “quando il commissario giudiziale rileva, dopo l’approvazione del concordato, che sono mutate le condizioni di fattibilità del piano, ne dà avviso ai creditori, i quali possono costituirsi nel giudizio di omologazione fino all’udienza di cui all’articolo 180 per modificare il voto ”.

Stante la mancanza evidente di una disciplina specifica in materia che possa rendere la questione degna di una pur minima rilevanza giuridica, parrebbe inutile uno sforzo interpretativo volto a comprendere la portata di tali nozioni.

Nonostante l’ingannevole silenzio della legge e la non curanza del legislatore è da dirsi tuttavia come i problemi concernenti tali aspetti della procedura concorsuale in discorso costituiscano, da qualche anno e specialmente dopo l’intervento delle Sezioni Unite sul punto[1], uno dei “punti caldi” dell’istituto concordatario.

E’ questo un tema senz’altro complicato che involge considerazioni tanto su quali siano oggi i presupposti di ammissione della domanda di concordato preventivo, quanto su quali siano i limiti al sindacato del Tribunale ed i corrispondenti poteri valutativi del ceto creditorio.

Problemi dunque di non poco conto che, obtorto collo, devono essere affrontati anche guardando alla specifica disciplina di cui all’art. 186-bis l.f., foriera di non pochi dubbi sulla tenuta concettuale di soluzioni giurisprudenziali che pretendono di applicare una regola generale senza considerare le peculiarità caratterizzanti il concordato preventivo in continuità aziendale.

 

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Fattibilità economica e fattibilità giuridica

Quando si parla di fattibilità del piano concordatario spesso si tende unicamente a descrivere quale sia la soluzione al problema ormai accolta prevalentemente dai giudici di merito, partendo da un’analisi di quella che pare essere una “pietra miliare” in materia ossia la pronunzia delle Sezioni Unite del 23.1.2013, n. 1521.

L’ordinanza citata rappresenta senz’altro un tentativo fondamentale di dare sistemazione ad un problema che non riusciva a mettere d’accordo né dottrina né giurisprudenza[2], tentativo che deve dunque essere considerato ma che non può costituire il punto di partenza poiché quest’ultimo è, e deve rimanere, pur sempre il dato normativo.

Come detto precedentemente, l’art. 161 l.f. al co. 3 impone al professionista l’obbligo di attestare la “veridicità e correttezza dei dati aziendali” e la “fattibilità” del piano concordatario.

Che cosa si intende per “fattibilità”?

Il giudizio spettante al perito in tal caso si risolve in una valutazione circa l’attuabilità giuridica, che consiste nella possibilità di dare esecuzione al concordato preventivo senza violare norme imperative o eludere gli stessi fini che caratterizzano la procedura, e la fattibilità economica, intesa quest’ultima come concreta realizzabilità del piano e sua congruità rispetto alla proposta di soddisfazione del ceto creditorio[3].

Non ci si vuole in tal sede soffermare su quelle che devono essere le specifiche verifiche[4] svolte dal perito ma, al contempo, è necessario chiedersi se l’attestazione di cui al co. 3 dell’art. 161 l.f. offra delle informazioni che siano dirette eminentemente al ceto creditorio, affinché si esprima sul piano in sede di adunanza, oppure anche al giudice perché possa valutare nel merito l’idoneità del piano a raggiungere i risultati promessi ed al fine di dichiarare ammissibile la domanda di accesso alla procedura.

In tal senso, fino al 2013, si sono avute opinioni fortemente discordanti poiché una parte consistente della giurisprudenza[5] considerava il professionista alla stregua di un perito, rispetto al quale il giudice stesso è peritum peritorum, potendo quest’ultimo dunque valutare nel merito anche i profili economici del piano concordatario, secondo la “lente d’ingrandimento” rappresentata dall’attestazione.

Questa impostazione, de facto, comportava potenzialmente un sensibile ampliamento dei presupposti di ammissione della domanda ed uno speculare potere di sconfinamento nel merito del Tribunale.

Di contro, si affermava che l’unico scopo della relazione attestata, redatta peraltro da un soggetto che non è in tutto e per tutto assimilabile ad un perito[6], fosse quello di informare adeguatamente i creditori perché formassero il proprio convincimento sulla convenienza della proposta concordataria, escludendo quindi la possibilità di un sindacato nel merito da parte del giudice[7].

Solo nel 2013 le Sezioni Unite affrontarono la questione, elaborando una soluzione senz’altro originale e creata ancora una volta prendendo le mosse da precedenti problemi interpretativi sorti in materia contrattuale[8].

Non essendo questa la sede per analizzare nel dettaglio la complessa e peraltro contraddittoria[9] pronuncia, giova ricordare unicamente le conclusioni alle quali sono pervenuti gli Ermellini, conclusioni che provano a colmare il silenzio della legge e che destano tutt’ora forti perplessità.

Secondo la Suprema Corte, al giudice compete un vaglio d’ammissibilità del piano anche dal punto di vista della sua fattibilità ma intesa quest’ultima unicamente in senso giuridico: non sarà dunque ammissibile una domanda basata su un piano che preveda operazioni palesemente illecite o impossibili (i) così come quando il piano riveli la mancanza della “causa in concreto” del concordato (ii).

La relazione del professionista quindi, alla luce di tale ricostruzione della Corte, spiega la propria funzione informativa solo in favore dei creditori ed al Tribunale spetterebbe eminentemente un sindacato esterno inerente la logicità, congruità e ragionevolezza dei contenuti dell’attestazione, sindacato che rimarrebbe dunque confinato nell’area della mera legittimità[10].

In realtà che si dovesse dichiarare l’inammissibilità in caso di illiceità o impossibilità del piano era assolutamente pacifico già prima dell’intervento della Cassazione mentre ben più complesso risulta capire che cosa si sia voluto intendere con il concetto di “causa in concreto”, il cui accertamento è demandato all’autorità giurisdizionale.

Mutuando nozioni proprie del diritto civile, sulla base anche di una ritrovata concezione privatistica della procedura in parola, si potrebbe definire la “causa” come funzione economico-sociale che si concretizza, nel caso del concordato preventivo, nel superamento della crisi e nella contestuale soddisfazione, pur minimale, delle ragioni creditorie[11].

Se la definizione, così formulata, pare chiara e limpida, non pochi sono stati i dubbi in merito all’effettivo potere del giudice quando sia chiamato a decidere dell’ammissibilità della domanda di concordato e, in particolare, ci si è interrogati sulla sua natura: è un controllo che verte sulla mera legalità formale degli atti della procedura o anche sulla legalità in senso sostanziale?

Guardando a recenti decisioni[12] la Cassazione pare propendere sicuramente per la seconda opzione, ammettendo che il giudice, al fine di verificare la realizzabilità della causa concreta, debba necessariamente estendere il proprio giudizio oltre il mero riscontro di legalità degli atti in cui la procedura si articola, potendo così avere cognizione anche della fattibilità economica quando la proposta ed il piano siano totalmente non plausibili.

Il dibattito rimane tutt’ora aperto ed i problemi applicativi propri della regola in questione certo persistono poiché nella prassi concordataria si rivelano spesso incerti e talvolta cangianti i confini tra ciò che è fattibilità giuridica e ciò che è fattibilità economica.

Non resta dunque che attendere l’ormai prossimo intervento del Legislatore che, da quanto risulta, intende attribuire espressamente al giudice il potere di sindacato sulla fattibilità economica del piano[13], risolvendo dunque critiche frammentazioni giurisprudenziali e riportando ad unità un concetto considerato sempre nella sua unitarietà dalla legge fallimentare.

 

 

Il concordato in continuità aziendale: la convenienza e’ presupposto di ammissione della domanda?

Quanto esposto non fa che riassumere i risultati ai quali si è pervenuti in tema di fattibilità del concordato preventivo senza tuttavia considerare come l’art. 186-bis, introdotto con d.l. n. 83/2012, detti un particolare regime per il concordato in continuità aziendale che, se non può considerarsi come una vera e propria tipologia di concordato, è istituto che rileva dal punto di vista dei peculiari contenuti del piano.

Pare senz’altro interessante capire quali siano le tonalità assunte dal problema relativo alla fattibilità se “calato” nel contesto della continuità aziendale, specie se si considera l’evidente favor, verso tale procedura, di un legislatore sempre più propenso ad eliminare il concordato liquidatorio[14].

In particolare, come già notato, il problema della fattibilità risulta essere originato dalle dubbie disposizioni normative che disciplinano l’attestazione del professionista di cui all’art. 161 co. 3 ed è da notare che proprio in riferimento ai peculiari contenuti che contraddistinguono la relazione attestata di un concordato in continuità aziendale sorgono fondati interrogativi sulla validità della distinzione tra fattibilità economica e giuridica elaborata dalla Corte di Cassazione.

La lettera b) del co. 2 dell’art. 186-bis prescrive infatti al perito di attestare che il piano sia “funzionale al miglior soddisfacimento dei creditori”.

Una formula dal significato ambiguo che non chiarisce innanzitutto se il grado di soddisfazione debba essere valutato in maniera oggettiva, rapportandolo alla massa dei creditori, o in maniera soggettiva, riferendolo alle ragioni di ciascuno di questi[15].

Pare doversi comunque optare per un’impostazione di tipo oggettivo poiché la considerazione degli interessi di ciascun creditore, al fine di valutare l’effettiva convenienza della proposta, si risolverebbe in opera essenzialmente impossibile per l’esperto, senza contare che si frantumerebbe senza ragione alcuna la massa dei creditori[16].

Ancora, la norma in questione lascia aperto anche un altro problema fondamentale relativo all’identificazione del termine di paragone da utilizzare al fine di pervenire ad un giudizio di convenienza.

La risposta in tal caso è tutt’altro che scontata poiché alcuni hanno sostenuto come il professionista sia chiamato ad accertare la sussistenza di una convenienza assoluta della proposta rispetto a tutte le opzioni concretamente praticabili dal debitore, altri hanno ritenuto di dover prendere in considerazione solo l’alternativa fallimentare, altri ancora hanno considerato anche la prospettiva del concordato liquidatorio[17].

Senz’altro la prima tesi è da respingersi in quanto ancora una volta si renderebbe impraticabile lo svolgimento delle funzioni affidate al perito[18] ed al contempo pare doversi preferire l’interpretazione che assuma come termine comparativo solo la liquidazione fallimentare[19].

 

Vi è infine da sciogliere un ultimo dubbio al fine di capire come la teoria della fattibilità possa trovare “sistemazione” nella fattispecie del concordato in continuità.

La previsione dell’attestazione integrativa di miglior soddisfacimento dei creditori è mera clausola di stile o ha una qualche portata che va al di là della mera imposizione di un obbligo aggiuntivo in capo al perito?

Non è questo un interrogativo di poco conto giacché fin dall’introduzione della disciplina di cui all’art. 186-bis ci si è chiesti se l’interesse tutelato dall’istituto sia pur sempre quello della tutela dei creditori o se trovino protezione interessi sovra-individuali, pubblicistici, coincidenti con la tutela dei livelli produttivi ed occupazionali del paese.

Questo è un tema senz’altro delicato e che affonda le proprie radici nelle teorie di quegli autori che già a partire dagli anni ’80 sostenevano il c.d. “uso alternativo delle procedure concorsuali”[20], in virtù del quale anche il concordato preventivo venne considerato strumento diretto a perseguire interessi pubblici e non orientato alla mera tutela della par condicio creditorum.

Non sembra plausibile in tal senso che la precisazione di cui all’art. 186-bis, inerente la soddisfazione del ceto creditorio, sia priva di alcun significato in riferimento a tali tematiche poiché è chiaramente volta a ribadire come la continuità aziendale non sia lo scopo ma il mezzo con il quale si tutelano le ragioni creditorie che, indiscutibilmente, devono rimanere il faro della procedura in questione[21].

Il concordato in continuità peraltro dispone una serie di deroghe rispetto al regime ordinario concordatario senz’altro favorevoli all’imprenditore in crisi e che allo stesso tempo potrebbero risolversi in un ulteriore pregiudizio per i creditori.

Ecco allora che non basta semplicemente affermare che lo scopo della procedura sia la soddisfazione dei creditori ma è necessario anche precisare che la continuità debba garantire il miglior grado di soddisfazione di questi rispetto ad un alternativo scenario liquidatorio.

 

Riconsiderando la nozione di “causa in concreto” del concordato preventivo ci si può accorgere dunque fin da subito di alcune criticità.

Il giudice che deve decidere dell’ammissibilità della domanda è chiamato a verificare che il piano e la proposta rispettino nel loro insieme la funzione socio-economica che è tipica del concordato preventivo.

Come già detto, tale funzione è da identificarsi nel superamento della crisi con soddisfazione, almeno minimale, del ceto creditorio.

Fin qui nulla di nuovo ma vien da chiedersi, alla luce delle considerazioni appena svolte, se sia questa anche la causa del concordato preventivo in continuità.

Se il legislatore ha voluto ricordare, all’art. 186-bis, co. 2, lett. d), che il miglior soddisfacimento dei creditori debba essere il fine del concordato in questione allora la soluzione non può che essere negativa poiché la causa dell’istituto, che lo differenzia e lo tipizza rispetto al concordato liquidatorio, è quella del superamento della crisi che sia funzionale al miglior, e non minimale, soddisfacimento dei creditori.

Insomma, la clausola in questione pare essere proprio l’elemento differenziante tra diverse discipline concordatarie, elemento che trova una sua giustificazione razionale nella sussistenza di importanti privilegi per il proponente i quali devono essere in qualche modo controbilanciati dalla considerazione degli interessi dei creditori.

Così configurandosi dunque la causa del concordato in continuità aziendale, sulla scorta di quanto affermato dalla Suprema Corte in merito alla cognizione del Tribunale in sede di ammissione della domanda, il giudice ben potrebbe sindacare della convenienza del concordato in continuità, concepita come idoneità a garantire una miglior soddisfazione del credito rispetto al fallimento, convenienza che assume dunque dignità di vero e proprio presupposto di ammissione della domanda.

Va da sé l’ovvia precisazione che se l’autorità giurisdizionale deve in tali casi valutare il profilo della convenienza questo implichi un preventivo ed incidentale scrutinio sulla fattibilità economica visto che la concreta realizzabilità del piano è senz’altro antecedente logico-giuridico rispetto al giudizio di convenienza.

 

Come visto, la distinzione tra fattibilità economica e giuridica risente di particolari criticità dettate dalle specificità che caratterizzano l’istituto concordatario e che impongono un’attenta considerazione degli interessi in gioco e degli equilibri in atto tra attori della crisi.

In particolare non sembra corretta, a parer mio, la scelta di molti Tribunali di ribadire che la convenienza debba essere valutata solo dai creditori[22] poiché ciò è incoerente con la stessa scelta legislativa di differenziare la causa del concordato in continuità aziendale, della quale è elemento fondamentale la funzionalità rispetto ad una miglior tutela della par condicio creditorum.

Tali conclusioni, in definitiva, non implicano nemmeno una limitazione delle prerogative del ceto creditorio poiché i creditori conserveranno il potere di esprimere il proprio voto sul programma concordatario che sia stato dichiarato ammissibile, voto espresso sulla base di valutazioni che, per quanto se ne dica, si contraddistinguono comunque per essere eminentemente soggettive e che presuppongono ragionevolmente un preventivo accertamento giudiziale in ordine alla convenienza oggettiva (in quanto riferibile all’intera massa) che è elemento caratterizzante l’istituto concordatario in questione.

Così ragionando non vi sarebbe alcun sindacato di merito da parte del Tribunale dato che l’accertamento inerente la sussistenza del presupposto in questione si risolverebbe pur sempre in una verifica circa la rispondenza del piano alla causa tipica del concordato preventivo in continuità aziendale.

 

 

[1] Si fa riferimento a Cass. Civ., SS.UU., ord. 23.1.2013, n. 1521. La pronuncia ha introdotto la nota distinzione tra fattibilità “economica” e “giuridica” del concordato preventivo di cui si tratterà nel presente contributo.

[2] In realtà il dibattito giurisprudenziale che concerne la fattibilità del concordato preventivo pare essersi originato proprio con l’introduzione del co. 3 dell’art. 161 l.f., operata dal d.l. n. 35/2005. Si è rilevato che da allora vi è stato un indebito spostamento dell’oggetto del discorso dalla relazione del professionista al sindacato del Tribunale, confondendo i due piani che, per quanto confinanti, non possono essere resi omogenei. Così Fabiani, in La fattibilità del piano concordatario nella lettura delle Sezioni Unite, in ilFallimento, n. 2/2013.

[3] Correttamente si è evidenziato che “per giungere alla dichiarazione di fattibilità, il professionista deve svolgere un vero e proprio controllo di merito del piano. Si tratta di una due diligence su informazioni prospettiche dell’impresa in crisi. Circa le regole tecniche da applicare per procedere alla revisione del piano, la dottrina aziendalistica ha individuato negli ISAE 3400 ( International Standards onAssurance Engagements), emanati dall’IAASB ( International Auditing and Assurance Standard Board), che è una commissione costituita in seno all’IFAC ( International Federation of Accountants), i principi internazionali di revisione applicabili agli incarichi di attestazione, vale a dire i principi per la revisione delle informazioni finanziarie prospettiche.” (Michelotti, La relazione del professionista e i limiti del controllo giurisdizionale del tribunale in sede di ammissione al concordato preventivo, in ilFallimento, n. 8/2010).

[4] In particolare il professionista sarà chiamato a verificare l’attendibilità del processo di formazione del piano (i), le proiezioni economiche e patrimoniali attese in esecuzione del piano (ii), ed a sottoporre il programma concordatario a stress test e sensivity test in caso di mutamento dei presupposti iniziali o variazione delle prospettive evolutive future. Per un’esaustiva analisi sul punto si veda Pagliughi, Concordato Preventivo: attestazione del piano, in ilFallimentarista, 2016.

[5] Ex multiis si veda: App. Catanzaro, sent. 7.2.2011; App. Roma, sent. 18.9.2010, in Dir. fall., n. 2/2011; App. Bologna, sent. 15.6.2009, in Foro it., 2009; Trib. Roma, 24.4.2008, in Dir. Fall., 2008; Trib. Bari, 25.2.2008, decr., in ilFallimento, 2008; Trib. Firenze, 31.1.2007, in Foro It. 2007; Trib. Roma, 8.3.2006, in Foro It., 2006; App. Bologna, 30.6.2006, in IlFallimento, 2007; Trib. Milano, 2.10.2006, in ilFallimento, 2007; Trib. Firenze, 23.11.2005, in Foro It., 2006; Trib. Pescara, 21.10.2005, in Foro It., 2006; Trib. Salerno, 3.6.2005, in Foro it., 2005; Trib. Sulmona, 6.6.2005, decr., in ilFallimento, 2005; Trib. Pescara, 20.10.2005, in ilFallimento, 2006.

[6] In realtà, fin dalla riforma del 2005, il professionista attestatore non possedeva tutti i requisiti tipici del perito giudiziale. A tale mancanza ha tentato di supplire il d.l. n. 83/2012 disponendo che il professionista debba presentare i requisiti di cui alla lettera d) co. 3 dell’art. 67 l.f. e che debba autocertificare la sua terzietà ed indipendenza rispetto all’impresa proponente o a terzi interessati. Nonostante ciò è da notare comunque come sia al contempo espressamente previsto che la nomina spetti al debitore e ciò non fa che ostare alla equiparazione delle due figure.

[7] Questo è orientamento definitivamente confermato dalle Sezioni Unite.

[8] La giurisprudenza di merito e di legittimità ha in tal senso sempre mostrato di accogliere con favore accostamenti tra la disciplina del contratto e quella del concordato preventivo. Basti ricordare che, in tema di concordato misto, una parte dei giudici abbia ritenuto di applicare il criterio della c.d. prevalenza prendendo spunto da quanto statuito dalla Cassazione (sent. 12.12.2012, n. 22828) in materia di contratto misto.

[9] La principale contraddizione sta nel fatto di affermare che il professionista è equiparabile ad un perito per poi tuttavia escludere che le valutazioni del Tribunale possano sovrapporsi a quelle già svolte dal professionista stesso. Rileva tali contraddizioni Lamanna, in L’indeterminismo creativo delle Sezioni Unite in tema di fattibilità nel concordato preventivo: così è se vi pare, in ilFallimentarista, 2013.

[10] In particolare si osserva che “lo sbilanciamento in favore dell’elemento negoziale del nuovo procedimento di concordato, rispetto a quello risultante dalla precedente normativa, determina necessariamente una diversa perimetrazione dei poteri di intervento del giudice che, deputato a garantire il rispetto della legalita’ nello svolgimento della procedura, deve certamente esercitare sulla relazione del professionista attestatore un controllo concernente la congruita’ e la logicita’ della motivazione, anche sotto il profilo del collegamento effettivo fra i dati riscontrati ed il conseguente giudizio”. Sul punto si veda anche Ranalli, L’attestazione del professionista nel concordato in continuità, in ilFallimentarista, 2014.

[11] Secondo la corte la causa del concordato si sostanzia nel “superamento della situazione di crisi dell’imprenditore, da una parte, e nel riconoscimento in favore dei creditori di una sia pur minimale consistenza del credito da essi vantato in tempi di realizzazione ragionevolmente contenuti”.

[12] Si fa riferimento a Cass. Civ., 27.2.2017, n. 4915 con commento di Spiotta, Fattibilità giuridica versus fattibilità economica, in Giur. It., n. 5/2017.

[13] Inizialmente il progetto di Legge Delega elaborato dalla Commissione Rordorf accoglieva in blocco l’impostazione data al problema dalla Cassazione. Ad oggi tuttavia, dopo le integrazioni apportate nel 2016, l’art. 6, 1° comma, lett. f), del D.D.L. delega n. 2681, evidenzia come al giudice spettino poteri più ampi di quelli attuali che si esplicano “con particolare riguardo alla valutazione della fattibilità del piano, attribuendo anche poteri di verifica in ordine alla fattibilità anche economica dello stesso”.

[14]Tale intenzione risulta chiaramente dal disegno di legge delega n. 2681 in discussione nelle aule parlamentari dal 2016. In realtà l’eliminazione dell’istituto pare essere epilogo preannunciato vista la previgente norma apportata dal d.l. 83/2015 che imponeva l’obbligo di assicurare la soddisfazione del 20% dei creditori chirografari al fine di superare il vaglio di ammissibilità della domanda.

[15] In tal caso dunque non si farebbe solo riferimento al quantum offerto dal debitore ai singoli creditori ma si dovrebbero considerare anche tutte le utilità esterne riferibili ad ogni rapporto di credito. Sul punto si veda, Lendvai, Concordato con continuità: spunti sul miglior soddisfacimento dei creditori, in ilFallimentarista, 2015.

[16]Favorevoli a tale soluzione Rossi, Il miglior soddisfacimento dei creditori (quattro tesi), in ilFallimento, n. 6/2017; Vella-Lamanna-Pacchi, Concordato preventivo ed accordi di ristrutturazione dei debiti, Milano, 2013; Stanghellini, Il concordato con continuità aziendale, in ilFallimento, n. 10/2013.

[17] In giurisprudenza prevale una tesi estensiva per cui debba essere preso in considerazione tanto il fallimento quanto il concordato liquidatorio. Cfr. ex multiis  App. Firenze, decr. 8.5.2017; Trib. Firenze, decr. 2.11.2016; Trib. Milano, decr. 15.11.2016; Trib. Alessandria, 5.12.2016. Per una tesi restrittiva si veda: App. Venezia, decr. 12.5.2016.

[18] Sarebbe infatti impossibile per il professionista accertare la convenienza assoluta della proposta dato che le alternative concretamente praticabili sono potenzialmente di numero indefinito. Contra, si veda Patti, in Il miglior soddisfacimento dei creditori: una clausola generale per il concordato preventivo?, in ilFallimento, n. 3/2013.

[19] Cfr. in dottrina Ambrosini, Il nuovo concordato preventivo alla luce della miniriforma del 2015, in Dir. Fall., n. 5/2015 e Tizzano, L’indeterminatezza del giudizio di miglioria e l’attestazione ex art. 186-bis co. 2, lett. b) l.f., in ilFallimento, n. 2/2014.

[20] Si fa riferimento all’opinione di quanti giustificavano l’utilizzo di procedure concorsuali al fine di tutelare soprattutto esigenze di mercato e di conservazione delle imprese. Tale interpretazione distorta dei fini sottesi dalla norma caratterizzò soprattutto l’amministrazione controllata e, una volta abrogata, l’amministrazione straordinaria ma anche il concordato preventivo risentì di tali teorie. Nonostante in pochi sostenessero espressamente queste tesi il dibattito originatosi fu senz’altro degno di nota e costituisce tutt’oggi un passaggio fondamentale al fine di comprendere quali siano le differenti opinioni circa la ratio dell’istituto concordatario. Per un compiuto approfondimento si vedano gli atti del convegno su L’uso alternativo delle procedure concorsuali, in Giur. Comm., n. 1/1979.

[21] Si è parlato in tal senso di una vera e propria “clausola restauratrice”. Cfr. Tizzano, op. cit.

[22] Sul punto la totalità della giurisprudenza sembra escludere in linea di principio un giudizio sulla convenienza da parte del Tribunale, affermando come questo spetti solo ai creditori. Ci si dovrebbe chiedere tuttavia se si tratti dello stesso concetto di convenienza.

Dott. Marotta Francesco

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