Commento all’art. 9 della legge 137/07.

Bolla Leonardo 22/11/07
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La legge 123 del 3 agosto 2007, contente “misure in tema di tutela della salute e della sicurezza del lavoro e delega al Governo per il riassetto e la riforma della normativa in materia”, dagli artt. 2 al 12 si occupa di una immediata modificazione di alcune discipline tra le più rilevanti nel panorama prevenzionistico; modifiche dettate, nelle intenzioni del legislatore, da un’esigenza di maggior tutela della sicurezza e salute dei lavoratori in conseguenza di una recrudescenza del fenomeno infortunistico nel periodo che va dal giugno 2006 al marzo 2007; incremento degli infortuni riscontrato anche dalle statistiche dell’Inail.
Nell’art. 1 della legge 123 del 2007, invece, il legislatore individua i principi ai quali il governo dovrà attenersi per definire, in uno o più decreti legislativi ed entro nove mesi dalla pubblicazione in gazzetta ufficiale (a far data dal 10 agosto 2007), la razionalizzazione delle norme in materia di sicurezza e quindi la realizzazione del testo unico, di cui tanto si è parlato, ma che nelle precedenti legislature non è mai venuto alla luce.
Tra le norme introdotte dalla 123 del 2007, di portata enorme è la disposizione di cui all’art. 9.
L’art. 9 della Legge 123/07 ha infatti esteso all’omicidio colposo e alle lesioni personali colpose gravi o gravissime, commessi con violazione delle norme a tutela della salute e della sicurezza dei lavoratori sul luogo di lavoro, la responsabilità amministrativa dell’ente per illecito penale.
Il problema si presenta particolarmente complesso anche in considerazione della seguente circostanza: originariamente la legge delega dalla quale scaturì il decreto n. 231 del 2001 ("Disciplina della responsabilità amministrativa delle persone giuridiche, delle società e delle associazioni anche prive di personalità giuridica, a norma dell’articolo 11 della legge 29 settembre 2000, n. 300") conteneva tra le fattispecie di reato, per le quali si sarebbe dovuta applicare la responsabilità amministrativa dell’ente, la violazione delle norme in materia di sicurezza e di ambiente; ma la sicurezza e l’ambiente vennero eliminati dal testo definitivo e rimasero, come presupposto per l’applicazione della responsabilità amministrativa dell’ente per fatto di reato, la concussione, la corruzione e altre tipologie di reati societari tutti caratterizzati dall’origine dolosa. La legislazione speciale in materia di sicurezza invece, soprattutto per le fattispecie di omicidio colposo e lesioni personali, si regge sul concetto di negligenza, imprudenza, imperizia per violazione delle norme antinfotunistiche e quindi sull’esatto contrario del dolo; ossia sul principio della responsabilità per colpa.
Le problematiche che ne derivano sono dunque le seguenti: che tipo di responsabilità amministrativa per illecito penale è quella del decreto 231 del 2001; come può essere applicata a due delitti quali quelli di omicidio colposo e lesioni personali colpose in materia di violazione delle norme di tutela della salute e della sicurezza dei lavoratori; quali conseguenze dal punto di vista operativo e processuale l’art. 9 della 123 apre nel coretto adempimento delle norme in materia di salute e sicurezza, e nell’organizzazione delle imprese e degli enti dal punto di vista della repressione sanzionatoria amministrativa; responsabilità particolarmente significativa, in particolare dal punto di vista economico. La sanzione amministrativa prevista infatti per queste due nuove fattispecie di reato è pari a mille quote, e una quota va da 258,00 a 1.549,00 Euro, mentre la pena accessoria prevista è l’interdizione, lo spossamento dall’attività di direzione dell’ente/dell’impresa per un periodo massimo di un anno.
La riforma attuata con l’introduzione dell’artico 9 è dunque di importanza enorme. E non solo nella prospettiva dei soggetti che operano nel settore della sicurezza del lavoro, ma anche nell’ottica degli studiosi del diritto penale, in quanto l’istituto della responsabilità amministrativa delle persone giuridiche per illecito penale,  si impone sul panorama giuridico solo con l’attuale riforma.
Fino ad oggi, in particolare con il decreto 231/2001, ha avuto un impatto molto marginale. Infatti, fino all’introduzione della disciplina di cui all’art. 9, i reati, presupposto della responsabilità amministrativa dell’ente, erano molto limitati. Con il decreto 231/2001 il legislatore non aveva dato piena attuazione alla delega contenuta nella legge 300 del 2000, escludendo, come visto, dall’ambito di operatività della responsabilità amministrativa dell’ente, proprio quei reati che questa responsabilità, nell’intenzione del legislatore delegante, era destinata a colpire; ossia i reati in materia di sicurezza sul lavoro e in materia ambientale; reati che, oltre ad essere l’espressione della polita dell’impresa, concretizzano il rischio d’impresa.
La scelta fu dettata dal carattere fortemente innovativo dell’istituto. Istituto che nel nostro ordinamento rappresentava una novità sconvolgente, oltre a porsi in contrasto con il principio, sancito dall’art. 27 della costituzione, secondo cui la responsabilità penale è esclusivamente di carattere personale. (Responsabilità personale significa in primis divieto di responsabilità per fatto altrui, ma anche responsabilità colpevole; ossia, affinché vi sia responsabilità, è necessario un coefficiente soggettivo, una forma di rimproverabilità con l’importante conseguenza del divieto di una responsabilità penale oggettiva)
Prima dell’introduzione dell’art. 9 si stava già discutendo in dottrina della possibilità di introdurre forme di responsabilità degli enti collettivi, avvertita sempre più come necessaria in quanto, molto spesso, il reato e frutto di una organizzazione. E proprio nel mentre in dottrina se ne discuteva, il legislatore è intervenuto con un colpo di mano, introducendo la riforma di cui al decreto 231.
Però la tradizione del nostro ordinamento, che non prevedeva forme di responsabilità degli enti collettivi a differenza degli ordinamenti di common low da un lato, e il dibattito ancora acceso in dottrina dall’altro, hanno reso molto prudente il legislatore, che ha voluto evitare il rischio di censure per contrasto con l’art. 27 della Costituzione, limitando la responsabilità amministrativa a solo alcune fattispecie di reato, tutte caratterizzate dall’origine dolosa.
Progressivamente però, dopo un timido inizio, il legislatore ha preso coraggio, aumentando il novero dei reati per i quali era prevista la responsabilità amministrativa dell’ente, fino a includervi anche le fattispecie di omicidio e lesioni personali colpose.
Dunque con l’art. 9, l’istituto della responsabilità amministrativa dell’ente per illecito penale, trova finalmente applicazione. E secondo i primi commentatori l’immediata conseguenza è che le imprese inizieranno ad adottare i modelli di organizzazione e gestione dal decreto legislativo 231 del 2001.
Tuttavia l’utilità di questi modelli per difendersi dalla responsabilità amministrativa degli enti è alquanto ridotta, perchè una volta realizzato il reato, scatta la responsabilità della persona giuridica che, soprattutto in materia di salute e sicurezza sul lavoro, è di tipo oggettivo. Per cui è difficile che l’introduzione dell’art. 9 rappresenti un reale incentivo all’utilizzo dei modelli di cui alla 231; ci si chiede infatti quale sia l’utilità di affrontare i costi organizzativi ed economici per costruire questi articolati modelli, quando poi l’utilità reale è alquanto ridotta.
Vera conseguenza dell’art. 9 è quella di un incentivo al rispetto, nella misura massima possibile, delle normative in materia di prevenzione degli infortuni, in particolare il decreto legislativo 626, per evitare che il reato venga realizzato. Ciò perché oggi c’è un disincentivo formidabile ulteriore, che è la sanzione amministrativa. Quindi sotto questo profilo, l’estensione della responsabilità amministrativa degli enti, porterà certamente dei vantaggi.
Uno dei problemi che si pone analizzando questo tipo di responsabilità riguarda l’individuazione della natura, penale o amministrativa, della responsabilità delle persone giuridiche.
La connotazione di questo tipo di responsabilità come amministrativa, piuttosto che penale ha delle importanti implicazioni non solo a livello classificatorio, ma anche a livello interpretativo. Per esempio nel diritto amministrativo, come in tutte le branche del diritto non penale, l’interpretazione analogica ed estensiva non sono vietate. Lo sono invece nel diritto penale.
Perciò definire la responsabilità dell’ente, al di là del nome iuris, come amministrativa o penale comporta conseguenze significative a livello interpretativo, consentendo a seconda della conclusione prescelta, una minore o maggiore libertà.
Il legislatore, nel caso di specie, ha cercato di togliersi l’impiccio, definendo tale responsabilità amministrativa, e lasciando perciò all’interprete una certa libertà nel ricercare i presupposti applicativi quali il presupposto oggettivo sopra esaminato; libertà di applicare questa categoria al di là della tipizzazione lessicale.
Il vero problema è tuttavia che, a prescindere dalla classificazione formale, la struttura dell’illecito costruita dal legislatore sembra essere attratta dal modello penalistico perché: 1. c’è una tipizzazione dell’illecito, ossia sono previsti i presupposti specifici perché l’illecito sia configurato; 2. c’è una tipizzazione della sanzione; 3. c’è un’attrazione nel testo della 231 di tutti i principi propri della legislazione penale, compreso il principio della connessione tra fatti; 4. il modello processuale adottato dal legislatore è quello proprio del processo penale tant’è che l’art. 34 della 231 richiama tutte le disposizioni del processo penale non espressamente richiamate dal legislatore.
Il sistema introdotto dalla 231 prevede due criteri ascrittivi della responsabilità all’ente, dove emerge un problema di coordinamento con i reati previsti dall’art. 9 della 123.
Per imputare un illecito all’ente occorre fare riferimento ad un criterio di carattere oggettivo e uno di carattere soggettivo.
Quello oggettivo è il criterio che fa si che il fatto possa essere ritenuto come fatto proprio dell’ente, come imputabile a livello oggettivo proprio all’ente. Sotto questo profilo l’art. 5 recita: “. L’ente e’ responsabile per i reati commessi nel suo interesse o a suo vantaggio…”. Interesse e vantaggio si distinguono, come evidenziato dal legislatore in una relazione di accompagnamento: l’interesse fa riferimento al fine che muove l’autore dell’illecito. Il soggetto deve aver agito sin dall’inizio per utilità dell’ente. Il vantaggio fa invece riferimento all’utilità concreta che si realizza. Qualora dunque un soggetto non agisca a favore dell’ente ma per realizzare un’utilità di qualcun altro, se poi di fatto il reato ricade a vantaggio dell’ente, si realizza il criterio di imputazione oggettivo.
E’ evidente come questi criteri si adattino poco ai reati in materia di sicurezza e salute sui luoghi di lavoro, in particolare ai reati prescelti dal legislatore, ossia i reati di omicidio colposo e lesioni gravi o gravissime, perché è ovvio che un soggetto che agisce colposamente, non agisce con un fine: perciò il criterio dell’interesse è già messo fuori gioco.
Per quanto riguarda il criterio del vantaggio, secondo i primi commentatori è possibile integrare questo requisito allorquando la mancata adozione di misure di sicurezza generi un vantaggio a favore dell’ente.
Perciò la categoria dell’interesse o vantaggio deve essere interpretata secondo il criterio rigoroso del diritto penale, che restringe il campo applicativo della categoria medesima ovvero è consentita una libertà di lettura della norma, permettendo all’interprete di ampliarne la portata?
Premettendo che l’interesse e il vantaggio hanno un significato proprio, che non lascia spazio ad ulteriori interpretazioni, il problema vero è la compatibilità con i reati a cui accedono.
Infatti queste due categorie sono costruite a misura dei reati che hanno un’intima struttura dolosa; e perciò da una lettura ermneuiticamente rigorosa dei reati di omicidio colposo e lesioni personali gravi o gravissime colpose, ci accorgiamo che nella struttura delle stesso, non può sussistere alcun interesse o vantaggio.
Tuttavia una possibilità esiste. I reati introdotti dalla 123 sono infatti reati di evento. Gli art. 589 e 590 puniscono l’evento delittuoso che sia la conseguenza di una condotta colposa. Ciò che viene punito è un fatto che si doveva evitare e non si è evitato come conseguenza di un’azione strutturalmente connotata da imprudenza, negligenza imperizia, inosservanza di leggi regolamenti. Perciò all’interno dei reati di omicidio colposo e lesioni personali colpose si individuano due elementi: la condotta e l’evento. L’evento è la morte o le lesioni. La condotta è il fatto colposo che sta alla base della produzione dell’evento (la mancata collocazione di un estintore, la mancata collocazione di una misura protettiva, la mancata adozione del modello organizzativo previsto dall’art. 5).
Giuridicamente è possibile sostenere che se il reato è confezionato dall’insieme di una condotta e di un evento, quella parte del reato che è la condotta può risolversi in un vantaggio per il soggetto.
Se l’evento delittuoso infatti è il risultato della mancata adozione di misure prevenzionali, è facile sostenere che la mancata adozione di tali misure ha arrecato un vantaggio alla società o all’ente, perché vi è stato ad esempio un risparmio.
Quindi per rendere dogmaticamente più armoniosa la categoria dell’interesse o del vantaggio con la struttura dell’illecito introdotta dall’art. 9 della 123 vi è una possibilità di lettura della norma che consiste nel verificare volta per volta, illecito per illecito, se la condotta che ha determinato l’evento la morte o le lesioni personali all’interno di una determinata azienda, non sia stata determinata da una scelta aziendale che ha alla base delle considerazioni di natura economico – patrimoniale.
Il che, a sua volta, pone il problema di verificare, di volta in volta, se la condotta produttiva degli eventi delittuosi, sia semplicemente figlia di una disattenzione organizzativa. In tal caso sarà difficile dimostrare la ricorrenza del presupposto dell’interesse o del vantaggio. Laddove invece la condotta che accede all’evento delittuoso si sia risolta in un interesse o in un vantaggio, allora sarà possibile far rientrare l’interesso o il vantaggio non nell’evento ma nella condotta che l’evento presuppone. L’imprenditore ha risparmiato nell’adozione di determinate misure di sicurezza, di conseguenza ha realizzato il vantaggio di un risparmio di natura economica.
Tale lettura tuttavia, nell’autorevole opinione di altra parte della dottrina (Aldrovandi), viola il precetto dell’art. 5 della 231, in quanto la norma richiede espressamente che il vantaggio o l’interesse siano riferiti al reato, e il reato si consuma nel momento in cui l’evento si produce. Quindi è il reato di omicidio che deve generare un vantaggio concreto per l’ente. Ma è evidente che un infortunio sul lavoro non produrrò mai un vantaggio perchè dallo stesso, scaturirà quasi sempre un obbligo di risarcimento.
Di fatto perciò, alla luce di un interpretazione rigorosa dei criteri di acrizione previsti dall’art. 5, la riforma introdotta dalla l. 123/07 risulta inapplicabile.
Nonostante ciò, probabilmente la giurisprudenza si assesterà su una lettura non dissimile da quella fornita dalla prima dottrina, e ciò per non sterilizzare la riforma e dare concreta attuazione alla norma.
Quindi il problema della compatibilità dei reati previsti dall’art. 9 della 123, con i criteri di imputazione stabiliti dall’art. 5 della 231, è destinato ad essere superato.
Altro problema riguarda i criteri di ascrizione di carattere soggettivo.
Il legislatore se da un lato qualifica questo tipo di responsabilità come amministrativa, in realtà non è poi così sicuro della sua scelta, e per evitare possibili censure di incostituzionalità, individua un coefficiente di ascrizione di tipo soggettivo, ossia una forma di colpevolezza dell’ente.
Qui il sistema introdotto dalla 231  individua due modalità di imputabilità a seconda che si tratti di soggetti collocati in posizione apicale oppure da soggetti sottoposti.
L’art. 5 dice che l’ente è responsabile se il reato è commesso da: a) “da persone che rivestono funzioni di rappresentanza, di amministrazione o di direzione dell’ente o di una sua unità organizzativa dotata di autonomia finanziaria e funzionale nonché da persone che esercitano, anche di fatto, la gestione e il controllo dello stesso”. Si tratta dei soggetti collocati in posizione apicale che rivestono funzioni di rappresentanza e di amministrazione, anche di fatto, dell’ente; b) “da persone sottoposte alla direzione o alla vigilanza di uno dei soggetti di cui alla lettera a)”.
Il criterio di ascrizione soggettivo è però molto diverso a seconda che si tratti di reati commessi dalla prima categoria di soggetti ovvero dalla seconda.
Se il reato è stato commesso da soggetti collocati in posizione apicale, l’ente è responsabile oggettivamente per il solo fatto che il reato si sia realizzato. Non si richiede perciò nessuna colpevolezza vera e propria. Ciò perché gli elevati poteri che detiene il soggetto che occupa una posizione apicale fanno si che la colpevolezza, la rimproverabilità dell’autore diventi automaticamente colpevolezza dell’ente.
Tuttavia il legislatore, preoccupato dall’eventualità che l’azione di un soggetto posto al vertice dell’impresa non rappresenti la volontà dell’intera organizzazione, esclude la responsabilità dell’ente, qualora l’ente, a norma dell’art. 6, provi che: “l’organo dirigente ha adottato ed efficacemente attuato, prima della commissione del fatto, modelli di organizzazione e di gestione idonei a prevenire reati della specie di quello verificatosi”. Occorre aver adottato dunque un modello organizzativo finalizzato a prevenire proprio quella tipologia di reati che si sono realizzati. Occorre inoltre che “il compito di vigilare sul funzionamento e l’osservanza dei modelli di curare il loro aggiornamento è stato affidato a un organismo dell’ente dotato di autonomi poteri di iniziativa e di controllo”. Inoltre le persone devono aver commesso il reato “eludendo fraudolentemente i modelli di organizzazione e di gestione”. Infine è necessario che “non vi è stata omessa o insufficiente vigilanza da parte dell’organismo di cui alla lettera b)”. Si precisa inoltre che “Negli enti di piccole dimensioni i compiti indicati nella lettera b), del comma 1, possono essere svolti direttamente dall’organo dirigente”.
Il primo rilievo che si può fare è che questi modelli organizzativi, volti ad escludere la responsabilità dell’ente, potranno limitare effettivamente la responsabilità in un numero limitatissimo di casi.
Sono molti e complessi i requisiti per questa prova liberatoria, definita da alcuni commentatori come diabolica.
E’ francamente assai difficile adottare preventivamente un modello idoneo astrattamente a prevenire il reato che concretamente si è realizzato. Inoltre se il reato si è verificato, la realizzazione deve essere stata resa possibile da un comportamento fraudolento; gli organi di vertici devono cioè porre in essere degli artifizi, perché se hanno realizzato il reato senza porre  in essere un comportamento artificioso e fraudolento, vuol dire che il modello era sin dall’inizio inidoneo. In più deve essere costituito un organo di vigilanza, dotato di assoluta autonomia, e tale organo non deve aver violato gli obblighi che sullo stesso incombevano. La prassi vuole che l’organo di vigilanza sia nominato dal consiglio di amministrazione; ma è evidente che se a nominare l’organo è proprio il consiglio, l’autonomia dello stesso è in forte dubbio.
Quanto premesso induce a pensare che, nella realtà dei fatti, quella introdotta dalla 231 del 2001 sia una responsabilità di tipo oggettivo.
Altro problema consiste nella contaminazione dei modelli tracciati dal legislatore nell’ambito della prevenzione anti-infortunistica e il modello, alla stregua della cui sussistenza si eviterebbe la responsabilità amministrativa, tracciato dal legislatore nella legge 231.
Noi abbiamo un sistema prevenzionale, già storicamente collaudato, che dovrebbe già di per se stesso prevenire il realizzarsi di eventi delittuosi; e questo lo dovrebbe fare attraverso una virtuosa applicazione dei principi prevenzionali che, attraverso vari interventi legislativi, hanno istituito un modello organizzazioni – prevenzionistico.
La giurisprudenza, nel corso degli anni, ha commentato questo modello con notevole insistenza, e il legislatore, utilizzando il meglio delle sentenze in materia, le trascritte in forma di legge nei nuovi principi.
Dunque, nella legislazione che codifica la responsabilità amministrativa, oggi estesa al verificarsi di due tipici eventi collegati alla normativa prevenzionale, l’omicidio colposo e le lesioni personali colpose, la condizione per poter escludere questa responsabilità è la codificazione di modelli organizzativi che sono basati su principi di organizzazione assai simili a quelli codificati nella leglisazione prevenzionale; certo indicati in forma più estesa e più ampia, in quanto utilizzati al fine di dimostrare che il loro funzionamento avrebbe impedito una serie di condotte, comprese quelle dolose.
Ne deriva che il modello organizzativo è codificato, nella nuova legislazione, in forma teoricamente più ampia, si da farvi rientrare una serie maggiore di fatti da impedire, ma il principio è il medesimo: responsabilità apicali e responsabilità dei sottoposti al ricorrere di alcuni principi che connaturano i difetti organizzativi dei soggetti apicali e dei soggetti sottoposti.
Se noi consideriamo l’art. 7, intitolato “soggetti sottoposti all’altrui direzione e modelli di organizzazione dell’ente” laddove si dice che “nel caso previsto dall’articolo 5, comma 1, lettera b), l’ente è responsabile se la commissione del reato è stata resa possibile dall’inosservanza degli obblighi di direzione o vigilanza” ci accorgiamo che la struttura dell’articolo è identica al disposto dall’art. 4, lettera c, del dpr 547 del 1955.
Ci si domanda perciò se il legislatore, con il sistema introdotto dalla 231 del 2001, impone alle imprese di adottare un modello organizzativo diverso e ulteriore rispetto a quello previsto dalla normativa prevenzionale, onde evitare la responsabilità amministrativa.
La risposta, volendo dare un senso alla normativa, non può che essere affermativa, in quanto nella 231 del 2001 si parla, di qualcosa di ulteriore rispetto a quanto previsto dalla legislazione prevenzionale, ossia di controllo.
Perciò il modello immaginato dal legislatore in questa materia, è un modello che passa attraverso due strutture: una organizzativa – prevenzionale già operante nel sistema, l’altra di controllo sul sistema.
 
Dott. Leonardo Bolla

Bolla Leonardo

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