La certificazione di parità di genere diventa facoltativa

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Nelle recenti settimane sui media c’è stato un inteso dibattito in  relazione al “watering-down”
 (“annacquamento”) degli impegni generazionali e di genere, iniziando dalla Certificazione di parità di genere, nell’ambito dello schema del Codice Appalti portato all’attenzione delle Commissioni parlamentari.
Le modifiche più evidenti sono quelle relative alla facoltà, e non più obbligo, di inserire nei bandi di gara degli appalti dei meccanismi rivolti alla promozione della parità di genere, equiparandola alle altre tutelate per legge con una riduzione del 10% dello sconto sulle garanzie da presentare per chi avesse conseguito la Certificazione di parità di genere.
In un simile contesto la stessa sparisce dal Codice Appalti, diventando una semplice misura facoltativa compresa in un allegato.
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Indice

1. Il codice degli appalti


Quasi un anno fa, il Decreto Legge 30 aprile 2022 n. 36,convertito con le relative modifiche nella Legge 29 giugno 2022 n. 79, aveva previsto in modo espresso il rafforzamento del sistema di certificazione della parità di genere, apportando al Codice Appalti Pubblici (D.Lgs. n. 50/2016) delle importanti modifiche, tra le quali l’essere in possesso di Certificazione della parità di genere, nell’ambito delle garanzie per partecipare alla procedura (art. 93, comma 7) e l’adozione di politiche rivolte a raggiungere la parità di genere, con la prova del possesso di certificazione della parità di genere, in relazione ai metodi di aggiudicazione dell’appalto (art. 95, comma 13).
Qualche esponente del Governo ha giustificato un simile approccio in contrasto con i principi della Missione 5 del PNRR e con gli obiettivi di “crescita intelligente, sostenibile e inclusiva” posti dalla Direttiva 24/2014/UE in materia di appalti pubblici, volendo premiare le aziende senza costringerle, penalizzarle oppure obbligarle a una più spiccata e a costi più elevati.
Se questo fosse stato il reale motivo ha ispirato la decisione di fare sparire dallo schema del Codice Appalti ogni relazione normativa alla Certificazione della parità di genere, facendole perdere rilevanza anche premiale, basterebbe a osservare che la stessa sia una misura facoltativa. 


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2. La certificazione di parità di genere


La Certificazione di Parità di genere è una misura che si rivolge a ogni impresa, senza considerare le relative dimensioni, e priva di valenza prescrittiva.
Di conseguenza, nessuna azienda deve intraprendere il percorso della Certificazione di parità di genere, se non per una sua autonoma opzione e iniziativa.
Non esistono motivi per limitare la portata della stessa in funzione di una riduzione dei vincoli burocratici a favore delle imprese.
Quelle che si vorranno certificare lo potranno fare, mentre quelle che non lo vorranno potranno lo stesso essere libere di non farlo.
Alle prime verrà assegnato un punteggio premiale adeguato al valore che la certificazione rappresenta in termini di inclusione e parità sociale.
Non ci dovrebbero essere perplessità e resistenze di chi a paura che la Certificazione di Parità di genere nei bandi pubblici possa favorire le grandi aziende, che hanno a disposizione più mezzi economici e risorse da destinare alla misura, a discapito di quelle più piccole.
Questa paura è in realtà infondata, considerando il metodo di proporzionalità previsto nell’applicazione delle Linee Guida in base alle dimensioni occupazionali e al settore di appartenenza dell’impresa, scongiurato anche dal recente accordo siglato tra Unioncamere e il Dipartimento per le Pari opportunità che prevede delle azioni a favore delle Pmi (tra 10 e 49 dipendenti) e delle micro-imprese (con meno di 9 dipendenti).
Da una lato c’è la formazione di un elenco di organismi di certificazione accreditati che aderiscono alle misure di agevolazione alla certificazione delle Pmi previste del PNRR, in relazione ai quali è stato pubblicato un avviso il 14 febbraio scorso.
Da un altro lato il PNRR ha previsto per questa misura una dotazione finanziaria complessiva di 10 milioni di euro, dei quali 5,5 milioni per i costi di certificazione, per un massimo di 12.500 Euro a impresa e altri 2.5 milioni per i servizi di assistenza tecnica e accompagnamento, per un massimo di 2.500 Euro a impresa.

3. L’opportunità della certificazione


La Certificazione di parità di genere rappresenta un’opportunità e non un vincolo, la misura più ostacolata resta quella che prevede, in caso di aggiudicazione dell’appalto, l’obbligo di riservare una quota pari almeno al 30% dell’assunzione di giovani (36 anni di età) e donne per l’esecuzione del contratto o lo svolgimento delle attività connesse (art. 47, comma 4, del c.d. Decreto Semplificazioni).
A questo proposito si deve notare che non è un obbligo assoluto.
La quota può essere derogata dalla stazione appaltante attraverso espressa e specifica motivazione. Secondo il quotidiano Il Sole 24 Ore, ne costituisce un esempio, il caso di appalti in settori a bassa diversità di genere, come l’edilizia, oppure alla presenza di clausole sociali di riassorbimento occupazionale, che prevedano obblighi in favore dei lavoratori impegnati nell’esecuzione del servizio con il gestore uscente, oppure, in relazione all’occupazione giovanile, al caso nel quale il contratto abbia come richiesta l’assunzione di soggetti con una esperienza lavorativa pregressa di rilievo.
Neanche in questo c’è un vincolo burocratico, essendo una disposizione che permette delle deroghe in funzione a determinate situazioni.
Mettere in comune le previsioni di legge che favoriscono le opportunità di genere e generazionali derubricandole da obbligo a semplice facoltà, sembra essere un passo indietro al raggiungimento di obiettivi indispensabili per il progresso e la competitività dell’Italia, sul quale molte voci hanno espresso il loro parere.
Siamo davanti a una decisione che dovrebbe essere riconsiderata e senza inutili scuse.
Si deve mantenere fermo l’obbligo delle previsioni di genere e occupazionali nell’ambito del Codice Appalti, con la previsione di un periodo di transito con le necessarie ipotesi di deroga, senza modificare l’obbligo premiale e le relative percentuali per le aziende che si impegnino a raggiungere l’uguaglianza.

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