Avvocato tedesco non può esercitare in Italia, risarcito il danno patrimoniale

Redazione 08/05/18
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E’ responsabile lo Stato italiano per il danno cagionato ad un avvocato di nazionalità tedesca, consistito nell’avergli impedito di svolgere la professione forense in Italia, rifiutando la sua iscrizione all’Albo professionale, ovvero, subordinandola all’espletamento di una prova attitudinale. Tutto ciò, in violazione della Direttiva europea 89/48/CEE del Consiglio del 21 dicembre 1988, relativa al sistema generale di riconoscimento dei diplomi di istruzione superiore che prevedono formazioni professionali di una durata minima di tre anni.

E’ quanto confermato dalla Corte di Cassazione, sesta sezione civile, con ordinanza n. 10469 del 03 maggio 2018, chiamata a decidere in ordine alla vicenda di un avvocato tedesco, al quale era stato impedito di esercitare la professione forense in Italia. Per tale motivo, i giudici territoriali – con previsione dunque confermata in sede di legittimità – avevano accordato al professionista un risarcimento di euro 75.000,00 a titolo di danno patrimoniale per il mancato esercizio di attività professionale per la durata di un quinquennio.

Negato il danno non patrimoniale

La stessa Corte d’appello, tuttavia, non aveva riconosciuto al legale il danno non patrimoniale (inteso come danno alla reputazione) per insussistenza del nesso causale, dovendo imputarsi allo stesso avvocato la violazione delle norme sul divieto di esercizio della professione al tempo vigenti, che aveva dato luogo a procedimenti penali e disciplinari.

Avverso questa statuizione, il legale tedesco proponeva ricorso dapprima in Cassazione – rigettato – e poi in revocazione ai sensi dell’art. 391 bis c.p.c.. In detto ultimo ricorso, nello specifico, lamentava come la Corte Suprema fosse incorsa nell’errore di affermare che il ricorrente non avesse espletato gli specifici rimedi apprestati dall’ordinamento processuale per eliminare le norme statali contrarie al diritto comunitario. Al contrario – deduceva l’avvocato – nei procedimenti amministrativi penali e disciplinari ove si contestava la legittimità della sua attività professionale, lo stesso aveva richiamato costantemente il rispetto delle norme comunitarie, presentando domande pregiudiziali ignorate e respinte. Una censura dichiarata tuttavia inammissibile dalla Corte di Cassazione, per difetto di autosufficienza, ed in particolare, per difetto di allegazione di atti e documenti richiamati in giudizio.

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