Avvocato, sanzione per chi accusa il collega

Redazione 30/10/17
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L’avvocato che accusa il collega avversario negli atti di citazione, utilizzando termini offensivi e lesivi della dignità professionale di quest’ultimo, deve essere condannato per illecito disciplinare. Sostenere che il collega si sia macchiato di comportamenti maliziosi per ottenere risultati non dovuti va al di là del diritto di difesa e di critica. Questo quanto stabilito dal Consiglio Nazionale Forense con la sentenza n. 111/2017, pubblicata venerdì 20 ottobre. Vediamo i dettagli.

 

Diritto di critica e dovere di correttezza

Nel caso di specie un avvocato difensore di un’azienda aveva rivolto affermazioni offensive nei confronti del collega avversario nell’ambito di una causa inerente il pagamento di presunti debiti a una seconda società che nel frattempo era fallita. Negli atti di citazione in opposizione a precetto, il primo avvocato aveva sostenuto che il collega, curatore fallimentare dell’azienda avversaria, “ha negligentemente ignorato ciò che ben poteva conoscere”, ponendosi colposamente in una situazione di inconsapevolezza e “serbando un silenzio malizioso”. Questo allo scopo, sostiene l’avvocato, di coartare “con la minaccia della procedura esecutiva” l’azienda presunta debitrice.

Simili accuse erano già state oggetto di un procedimento disciplinare in un primo momento, dal quale però l’avvocato era stato assolto. Tutto cambia quando il legale ripete le sue accuse nel secondo degli atti di citazione: il COA competente condanna l’avvocato per violazione degli obblighi di lealtà e correttezza e irroga la sanzione della censura.

 

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Sanzione se le offese sono ripetute

L’avvocato sanzionato ha fatto quindi ricorso al Consiglio Nazionale Forense, che ha confermato la condanna pur attenuandola nella forma dell’avvertimento.

Questo nonostante il ricorrente ponesse all’attenzione del CNF una questione peculiare e interessante: le parole offensive rivolte al collega, come visto, erano già state utilizzate nel primo atto di citazione ed erano già state oggetto di indagine da parte del COA, che aveva prosciolto l’avvocato. Condannando il professionista per le stesse espressioni utilizzate nel secondo degli atti il Consiglio aveva violato il divieto di “bis in idem”.

Il CNF non è però della stessa opinione: è vero che le espressioni utilizzate dall’avvocato sono esattamente identiche a quelle per le quali era già stato assolto, ma la condotta giudicata è completamente diversa. Questo perché il fatto che le offese siano state reiterate rende il comportamento dell’avvocato di fatto differente sotto il profilo fattuale, storico e temporale.

CNF: no alla facoltà di offendere

Il ricorrente è stato dunque condannato anche in appello. Come sostiene il CNF, il diritto di difesa e critica non può mai tradursi in una facoltà di offendere, anche solo attraverso le forme espressive utilizzate negli atti del processo. Devono sempre essere rispettate, in altre parole, le norme della civile convivenza e il diritto della controparte a non vedersi ingiuriata. In particolar modo se le espressioni utilizzate non sono del tutto necessarie a sostenere la tesi adottata.

L’avvocato ricorrente era pienamente consapevole di stare ingiuriando con le sue parole il collega, dunque bene ha fatto il COA di competenza a sanzionare il professionista.

Redazione

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