Alleanza terapeutica nel fine vita: tra diritti umani e relazione di cura

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Premessa

 La recente legge 219/2017 funge da pietra miliare per la disciplina in tema di trattamenti sanitari, andando a completare un percorso già intrapreso dalla Convenzione di Oviedo e dal Codice di deontologia medica. Vengono raccolte così, in un’unica legge, tutte le norme inerenti il rapporto tra medico e paziente nei casi più delicati, ovvero quelli riguardanti il cosiddetto fine vita.

Innanzitutto la Legge utilizza l’art. 1 comma 1 come incipit, mostra una presa visione delle principali norme regolatrici del nostro ordinamento quali: l’art. 2, 13 e 32 della Costituzione, in materia di diritti inviolabili dell’uomo, libertà e diritto alla salute. Nel rispetto di questi diritti viene indicato, al comma 2, lo strumento della relazione di cura. Per relazione di cura infatti bisogna intendere quel rapporto di fiducia che intercorre tra medico e paziente e che deve perdurare per tutta la durata della permanenza nella struttura sanitaria. La disposizione di per sé pare vuota e priva di significato, il legislatore tuttavia ha provveduto a infondere valore a questa previsione indicandone alcuni casi specifici in cui si manifesta.

La disposizione in realtà aggiunge anche altro, ovvero che il rapporto umano deve coesistere sia con il medico ma anche con l’equipe professionale. Poco importa che sia il solo medico ad esporsi, tutti i membri sono tenuti a conferire e fornire informazioni al paziente qualora ve ne sia bisogno.

Il legislatore infine, ha previsto la possibilità di includere nella relazione anche i famigliari, figure amichevoli, in grado di dare sostegno morale al paziente.

Diritto alla salute

Il diritto alla Salute è postulato all’art. 32 della Costituzione, al suo primo comma “La Repubblica tutela la salute come fondamentale diritto dell’individuo e interesse della collettività, e garantisce cure gratuite agli indigenti”. L’espressione diritto alla salute in senso lato riveste differenti situazioni soggettive, una delle quali è il diritto all’integrità psico-fisica.

Il diritto all’integrità psico-fisica è un vero e proprio diritto soggettivo, definibile come la pretesa che i terzi non pongano in essere attività tali da poterne pregiudicare l’essenza. Inoltre, è stato aggiunto che il suddetto diritto non necessiterebbe di una espressa previsione normativa[1] a sua tutela, poiché questo sarebbe già insito nella natura del beneficiario, quindi direttamente azionabile in giudizio; è la norma costituzionale stessa ab origine a dare la piena legittimazione agli individui. La tesi trova ampio sostegno nella giurisprudenza costituzionale, in particolare alle sentenze nn. 247/1974 e 88/1979.

In principio la salute aveva un contenuto biologico, legato all’integrità fisica intesa nelle sue due forme: quella mentale e quella fisica[2]. Poi tramite la Dichiarazione dei Diritti dell’Uomo e la Carta Costituzionale inizia ad assumere un significato sempre più ampio. La salute non è più una situazione soggettiva, ma abbraccia, oltre che la figura dell’essere umano, anche l’ambito relazionale, l’essere parte della comunità e il partecipare alle relazioni sociali.

Un ulteriore corollario del diritto alla salute è rappresentato dal c.d. diritto al consenso informato, il quale consiste nel diritto di partecipare alle decisioni relative alla scelta del trattamento sanitario dello stesso individuo. Fondamento di tale diritto, secondo la Corte Costituzionale, non è solo l’art.32 ma anche gli artt. 2 e 13 della Costituzione. In un’importantissima pronuncia (n. 438/2008) la Corte delinea il consenso informato come la “sintesi di due diritti fondamentali” i quali sarebbero: il diritto all’autodeterminazione e quello alla salute. Il soggetto infatti non solamente ha il diritto ad essere curato, ma altresì ha il diritto a poter disporre delle informazioni riguardanti la terapia e in particolar modo gli sviluppi futuri di questa; in più aggiunge la Corte, deve essere informato su eventuali terapie alternative, ciò fa si che venga messo nella condizione di scegliere, in altre parole che venga rispettata la sua libertà personale ai sensi dell’art. 2, comma 2, Cost.

Il diritto al consenso informato trova la sua fonte legislativa nell’art. 33 della legge n. 833/1978 ovvero nell’art.1 della legge n. 180/1978.

Consenso informato

In primo luogo il legislatore parla di consenso informato. Questo spesso viene travisato e identificato come un semplice modulo prestampato e impersonale[3]. In realtà ciò che la Legge vuole attribuire è proprio una sorta di valore umano a questo documento. Specificatamente viene indicato come l’incontro delle volontà di due soggetti. Da un lato il paziente che, nel suo caso, esprime al massimo la sua capacità di autodeterminarsi, dall’altro il medico che apporta la conoscenza quale soggetto tecnico. Viene dunque abbandonata l’idea del modello impersonale pensato unicamente come scarico di responsabilità, a favore di un rapporto più umano e modulato caso per caso, volto a favorire lo sviluppo di un ambiente idoneo per l’assunzione di decisioni rilevanti.

L’informazione deve essere a 360 gradi e ad personam. In primo luogo deve riguardare non solo la situazione presente ma anche quella futura, cioè i rischi e le possibili alternative percorribili. Queste devono essere personalizzate e rese in modo tale da poter essere comprese anche da individui privi di conoscenze tecniche (comma3).

L’informazione può essere data attraverso qualsiasi mezzo purché idoneo ad essere recepito dal paziente valutate le sue condizioni. Quando si concretizza nel consenso viene tuttavia richiesta la forma documentale scritta. Il legislatore è stato previdente pensando anche a casi particolari, come rimedio di chiusura infatti contempla anche la possibilità del consenso tramite video o altri strumenti qualora il paziente sia affetto da disabilità o non riesca a comunicare in altro modo.

Il legislatore ha preferito mantenere disponibile il diritto all’informazione, ciò significa che si può rinunciare a questo e indicare una persona di fiducia o i famigliari come destinatari. La figura di soggetti a supporto del paziente ritorna più volte durante la lettura della legge. Il legislatore in questo caso ha valutato la difficoltà che una persona sola può avere nel comprendere determinate informazioni che rappresentano scelte complesse le quali, viceversa, verrebbero meglio ponderate se visionate da più persone.

Viene anche previsto a carico della struttura sanitaria un vero e proprio onere di istruzione verso il personale. Questi devono essere informati in modo costante, non solamente sulle nozioni tecniche ma anche dal punto di vista relazionale. Ed è la somma di queste previsioni che delinea la ratio del legislatore, attenta al lato umano dei rapporti e con un occhio di riguardo per le situazioni più delicate. All’art. 1 comma 9 è stabilito il principio secondo cui la struttura sanitaria deve garantire l’attuazione dei princìpi della legge 219/2017, in breve questi principi sono i medesimi già menzionati di cura del paziente, relazione umana e adeguata informazione, oltre che ovviamente quelli di matrice costituzionale quali la libertà e il diritto alla salute.

La necessità del consenso informato viene inoltre prevista da numerose fonti legislative[4] quali: art. 3 l. 219/2005 sulle attività di trasfusione, art. 6 l. 40/2004 sulla procreazione medicalmente assistita, art. 33 l. 833/1978 sull’istituzione del servizio sanitario nazionale e il Codice di Deontologia Medica al suo art. 35. Ma anche a livello internazionale questo è presente, basti pensare alla Convenzione di Oviedo, la Convenzione dei Diritti del Fanciullo e la Carta di Nizza.

Potere vincolante

Un punto cardine della legge è il valore vincolante che viene dato alle dichiarazioni dei pazienti, che si tratti di consenso informato o disposizione anticipata di trattamento. La legge è scritta in modo speculare nei suoi art. 1 e 4, se da un lato il paziente ancora cosciente manifesta una sua volontà tramite il consenso informato, dall’altro fa una previsione per il futuro e concede ad un terzo di proseguire il rapporto con il medico. Sia l’art. 1 comma 6 e poi l’art. 4 comma 5 a supporto, ribadiscono il concetto di vincolatività della volontà. Non importa che la volontà sia esplichi i suoi effetti nell’immediato o “ora per allora”, in ogni caso il medico sarà tenuto a rispettarla e inoltre il suo comportamento rimarrà esente sia da responsabilità civile che penale.

In realtà non si tratta di un vero e proprio esonero di responsabilità poiché si tratterebbe di un illecito, tuttavia è preferibile qualificare l’azione del medico come non illecita alla radice, quindi non darebbe vita ad una sanzione.

Pianificazione condivisa delle cure

Il concetto di volontà vincolante è altresì riportato all’art. 5. La pianificazione consiste in una programmazione fatta in stato di capacità che rimane quiescente fino al sopraggiungere dell’incapacità. Il termine “condivisa” ancora una volta porta a pensare ad una situazione di stretta collaborazione tra medico e paziente. L’equipe medica avendo partecipato alla formazione della volontà sin dalla sua genesi (attraverso l’informazione) è tenuta a rispettarne i canoni in caso di sopraggiunta incapacità.

Anche in questo caso i famigliari e le persone di fiducia possono essere informate sull’evolversi della patologia, sempre con il consenso dell’interessato.

La pianificazione funge da norma di contorno alla disciplina della disposizione anticipata di trattamento, al suo ultimo comma infatti richiama la DAT per tutto ciò che non è previsto. È evidente che la ratio dei due articoli sia la medesima ma modulata per casi differenti. Da un lato abbiamo una persona perfettamente capace che può dichiarare, ai sensi dell’art. 4, una sua volontà qualora in futuro vi fossero determinate circostanze. La pianificazione invece contempla una situazione potenzialmente pericolosa ovvero una patologia già diagnosticata ed in fase evolutiva. Il rimedio rimane il medesimo, cioè esprimere una volontà che abbia efficacia differita nel tempo e vincolante anche in caso di perdita di capacità.

La pianificazione infine non è ferma, anzi può essere modificata nel corso della malattia. A seconda dell’evoluzione o delle innovazioni tecniche è possibile che il paziente di sua iniziativa richieda un cambiamento. Anche il medico può dare impulso alla modifica ma, a differenza dell’interessato, potrà solamente suggerire in quanto la scelta finale spetta al paziente.

La relazione di cura

La relazione di cura è definita come il rapporto di fiducia che intercorre tra medico e paziente. Assistiamo ad una importante innovazione sul modo di intendere il malato e la sua volontà, dagli anni settanta infatti si inizia a concepire questo come un soggetto il cui consenso sia imprescindibile, laddove prima era ritenuto solamente soggetto passivo rispetto alle decisioni che venivano prese dal personale sanitario[5]. Questa innovazione è figlia dell’espansione del diritto di autodeterminazione che, nel corso del tempo, ha assunto importanza sempre maggiore[6]. Da ricordare che secondo la prima Cassazione 22 dicembre 1925 “il medico aveva seco la presunzione di capacità nascente dalla laurea”, il paziente quindi era tenuto ad adeguarsi alle sue scelte.

La relazione di cura può essere vista come una entità che tocca tutti i principi in materia di trattamenti sanitari. Non importa che si stia parlando di consenso informato piuttosto che di disposizione anticipata di trattamento, in ogni passaggio, in ogni momento di permanenza all’interno della struttura deve esistere un rapporto con il personale adibito.

Il legislatore si occupa anche di delineare il tempo (art.1 comma 8) che serve per lo scambio di informazioni tra paziente e medico, definendolo tempo di cura. Si mette quindi l’accento sul tempo che deve essere dedicato alla persona, il che non comporta solamente uno scambio di informazioni che potrebbe ridursi in poche battute, ma più dettagliatamente nell’impiego di attenzioni consistenti e con tempistiche dilatate.

Conclusione

Il concetto di alleanza terapeutica poggia le basi su vari capisaldi della disciplina. Che si tratti di consenso informato o relazione di cura, l’intenzione con cui è stata scritta la legge è di coadiuvare l’esperienza del paziente tramite il supporto umano del personale sanitario. Le scelte quindi non vengono più prese individualmente ma sono frutto di una consulta, puntuale e modellata sulla persona, che avviene tra medico e paziente.

Il legislatore ha dato vita ad un progetto ambizioso, sarebbe stata riduttiva la mera previsione della possibilità di manifestare “ora per allora” la propria volontà in tema di trattamenti sanitari. In definitiva si è creato un ambiente idoneo per la maturazione di una volontà il più possibile ragionata e frutto di scambi di opinioni tra pari, perché se da un lato il medico detiene il sapere tecnico, dall’altro deve essere l’interessato a manifestare la volontà definitiva.

Viene inoltre compreso a favore del medico, l’esenzione da responsabilità, il che permette, nella prassi, al personale sanitario di agire con libertà nel rispetto della volontà del paziente. Questo permette di porre un punto fermo, anche a livello di dibattiti giurisprudenziali, sulla liceità del comportamento del medico che da attuazione alla volontà contenuta nel consenso o nella disposizione anticipata di trattamento.

[1] A. Baldassarre, Diritti sociali, in Enc. Giur., XI, Roma, 1989.

[2] M. S. Bonomi, Il diritto alla salute e il sistema sanitario nazionale, in Federalismi.it, 2014.

[3] F. Giunta, il consenso informato all’atto medico tra principi costituzionali e implicazioni penalistiche, in Riv. It. di Dir. e Proc. Pen., I, 2001, p. 384.

[4] M. S. Bonomi, Il consenso informato e l’autodeterminazione del paziente, in Federalismi.it, 2014.

[5] G. Salito, Il testamento biologico: ipotesi applicative, in Not., II, 2004, p. 196.

[6] S. Rodotà, Tecnologia e diritti, Bologna 1995, pp. 149 ss.

Dott. Chierici Michele

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