Alcune riflessioni su diritti fondamentali, confini ed integrazione

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Essenza dei diritti fondamentali e loro processo di positivizzazione

I diritti fondamentali, secondo una delle definizioni più note, sono “quei diritti soggettivi che spettano universalmente a tutti gli esseri umani in quanto dotati dello status di persone, o di cittadini, o di persone capaci di agire”[1]. Vien da sé che, affinché possano considerarsi esistenti, tali diritti devono essere previsti da un ordinamento specifico e di regola essere contenuti in norme di rango costituzionale.

Al di là di quella che è stata la loro formalizzazione all’interno delle carte fondamentali, ciò che risulta necessario rilevare è che la loro esigenza debba essere rintracciata all’interno dalla cultura dei diritti, per come maturata nella coscienza collettiva a seguito del secondo conflitto bellico.

È proprio a partire da quella esigenza che si sviluppa il nuovo ordine sovranazionale, il cui spirito può senza alcun dubbio trovarsi perfettamente rappresentato dalla Dichiarazione universale dei diritti umani del 1948. Almeno a livello di principio, quindi, i diritti inalienabili dell’individuo vengono, dalla fine del secondo conflitto mondiale in poi, affrancati dal monopolio dell’ordine giuridico statuale.

L’autonomia dell’individuo, la moltiplicazione dei diritti, il superamento della sovranità statale trovano nel continente europeo il terreno ideale sul quale radicarsi. Basti pensare alla Convenzione europea per la salvaguardia dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali del 1950, sulla base della quale si svilupperà il sistema di garanzia dei diritti del Consiglio d’Europa. O ancora all’istituzione della Comunità economica europea nel 1957, altra tappa fondamentale del lungo percorso che conduce verso l’integrazione europea.

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Dal piano formale a quello sostanziale: multiculturalismo e piena realizzazione dello Stato democratico costituzionale

Spostandoci tuttavia dal piano delle convenzioni a quello della operatività politica, giuridica e sociale, oggi osserviamo tristemente che l’integrazione sia tutt’altro che concretamente realizzata.

E non ha avuto nemmeno compimento il processo di universalizzazione dei diritti umani, ossia la pretesa che questi diritti, proprio perché non discriminano l’uomo in base alla sua appartenenza ad un determinato territorio, dovrebbero essere accordati a prescindere dai livelli multiculturali.

Risulta paradossale come proprio il multiculturalismo, uno dei motori del cambiamento in senso positivo del mondo globale, per altro verso possa costituire un ostacolo all’universalizzazione. Ovviamente universalità non vuol significare “condivisione” da parte di tutti, bensì uguale rispetto per tutti, uguali possibilità nel poter accedere ai diritti che consentano la protezione dell’individuo, con riferimento esclusivo alla sua dignità di essere umano.

In ogni caso, la tendenza riguardo al tema dei diritti fondamentali dovrebbe essere sempre quella del loro effettivo riconoscimento, non tanto quella di un ampliamento del “catalogo”, il quale risulta già sufficientemente adeguato e proporzionato alle esigenze degli individui ed alle sfide della contemporaneità.

Alla luce di quanto finora esposto, dunque, il moderno Stato costituzionale potrà definirsi democratico in senso stretto solo nel preciso momento in cui verranno pienamente soddisfatte le esigenze che stanno alla base delle richieste di protezione da parte degli individui. Affinché ciò avvenga, risulta necessaria ed imprescindibile una sempre maggiore partecipazione da parte della comunità di un dato territorio alle scelte politiche. E questa partecipazione dovrebbe riguardare chiunque, in primo luogo le minoranze, che spesso, all’interno delle regole del gioco democratico, appaiono totalmente schiacciate, incapaci di poter esprimere la propria posizione rispetto a questioni che risultano decisive, tanto per lo sviluppo della personalità dell’individuo quanto, contestualmente, per il benessere della collettività.

Confini, concetto di cittadinanza e diritti fondamentali in relazione al fenomeno migratorio

Restando alle sfide della contemporaneità, il tema dei diritti umani[2] non appare certamente al centro del dibattito pubblico. Tutt’al più esso viene utilizzato, in un senso del tutto strumentale, per obiettivi di natura propagandistica. Così, sentiamo parlare di diritti umani in ragione del legame di in individuo ad un determinato territorio, quasi che la loro “concessione” sia possibile solo entro certi confini territoriali (contraddicendo in senso ontologico la definizione stessa di diritti dell’uomo).

Addirittura, senza una delimitazione territoriale che distingua i cittadini dai non cittadini, non sarebbe neanche ipotizzabile la realizzazione di una forma di governo democratica poiché risulterebbe impossibile l’esercizio, seppur in forma minima, della sovranità da parte degli organi rappresentativi, che in quanto tali devono costantemente ricercare il proprio riconoscimento in uno specifico popolo, più facilmente individuabile se circoscritto ad un dato territorio ben delimitato. L’utilizzo strumentale della questione relativa ai confini è tipico della discussione politica che sempre più spesso sembra utilizzare il binomio “amico/nemico”[3] (cittadino/straniero) senza alcun interesse per la dignità degli esseri umani.

Si pensi ad esempio a Donald Trump, e al progetto di costruzione del muro fra U.S.A. e Messico, uno fra gli argomenti più vincenti su cui ha poggiato la sua campagna elettorale.

Le politiche degli ultimi anni si sono caratterizzate per la loro miopia rispetto agli individui che, in questo momento storico, sono stati scelti per rappresentare il “nemico” di turno. Il chiaro riferimento è ai migranti, la cui dignità è stata costantemente violata e la cui unica colpa sembra essere il desiderio di ambire ad un miglioramento della propria condizione di vita[4].

CEDU e Italia: tortura e trattamenti degradanti nella sentenza quadro del 2012

I paesi maggiormente colpiti da queste ondate migratorie si trovano, infatti, in una costante situazione di difetto rispetto all’accoglimento od addirittura rispetto alla sola valutazione delle richieste di asilo politico[5], la quale sfocia in forme di detenzione verso soggetti che reclamano i più semplici fra i diritti. Anche la Corte Europea dei diritti dell’uomo ha colto l’occasione per redarguire definitivamente e condannare l’Italia, con una storica sentenza del 2012[6], per la violazione dell’articolo 3 della Convenzione sui diritti umani, riguardante i trattamenti degradanti e la tortura. Ad ogni modo, questa sentenza, nonostante il suo clamore, non ha sortito gli effetti sperati in termini di ravvedimento da parte delle autorità italiane in riferimento al fenomeno migratorio; la dialettica straniero/cittadino, con tutto ciò che ne consegue, continua a persistere e resistere.

Problema delle frontiere affrontato in chiave liberal-egualitarista dal filosofo canadese Will Kymlicka

Lo status di cittadino ed il concetto di cittadinanza saranno contraddistinti ancora per lungo tempo dall’appartenenza a territori specifici, delineati da frontiere caratterizzate da forte rigidità, che alcune volte può essere mitigata (si pensi ad esempio all’esperienza riguardante le frontiere esistenti fra i paesi facenti parte dell’Unione Europea), ma che difficilmente è destinata a scomparire del tutto (si faccia riferimento, di contro, al recente caso Brexit).

Un’interessante lettura riguardo al problema delle frontiere ci viene offerta dal filosofo canadese Will Kymlicka, il quale si fa promotore di un’idea di cittadinanza cosmopolita in chiave liberale-egualitarista. Secondo questa visione, gli Stati potrebbero continuare a servirsi dei confini come strumenti di demarcazione del proprio territorio, ma non più utilizzarli come mezzi limitatori della libertà di circolazione, anche perché la compressione di quest’ultima precluderebbe agli individui la possibilità di scelta del luogo in cui vivere e, con un effetto domino, la possibilità di lavorare secondo le aspettative di ciascuno e di votare secondo ciò che è in accordo con le più intime esigenze di vita di ogni essere umano.[7]

Cittadinanza cosmopolita nel pensiero di Gregorio Peces-Barba e di L. Ferrajoli

Anche Gregorio Peces Barba, filosofo del diritto spagnolo, afferma a gran voce come debba essere completamente accantonata e lasciata alla storia l’idea di cittadinanza intesa come status, composto da diritti non universali e attribuito ad un individuo piuttosto che ad un altro solo sulla base dell’appartenenza di un di esso a un dato territorio, ad una data cultura o lingua. Tale visione della cittadinanza ha ottenuto come unico risultato quello di avere, nel tempo, calpestato la dignità umana e posto in secondo piano quel dovere imprescindibile che è il profondo rispetto di ogni di un ordinamento che rigetti una volta per tutte la cittadinanza intesa come essere umano. Quello che il filosofo spagnolo auspica, in linea con il pensiero espresso da Ferrajoli[8], è la creazione status privilegiato, a favore della creazione e della promozione di una cittadinanza universale[9].

Cittadinanza universale: tra utopia e concreta applicazione alla luce dell’inefficienza degli Stati nella tutela dei diritti imprescindibili dell’uomo

Risulta innegabile, dunque, come da questa prospettiva le vecchie forme di cittadinanza perdano buona parte della loro ragion d’essere, poiché una visione che tenda all’universalizzazione dei diritti umani è, naturalmente, incompatibile con qualsivoglia altra forma di cittadinanza che sia ancora legata a vecchi dogmi, quali ad esempio i concetti di nazione, limite e confine.

Affacciarsi, seppur minimamente, alla visione della cittadinanza intesa come “cosmopolita”, porrebbe in netta ed imbarazzante evidenza l’inefficienza da parte dei singoli Stati in materia di tutela piena ed effettiva dei diritti fondamentali dell’individuo. Forse è anche per questa ragione che tale utopia non è stata ancora presa in seria considerazione per un suo sviluppo pratico da parte dei paesi occidentali, che sembrano ergersi a custodi ed esportatori di democrazia, libertà e diritti umani, quando si tratta di questioni di principio, ma che appaiono molto meno a loro agio quando è necessario guardare concretamente alla vita degli esseri umani.

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Note

[1] L. Ferrajoli, diritti fondamentali, Laterza e figli, Bari 2001.

[2] Spesso si fa confusione tra diritti umani e diritti fondamentali, motivo per il quale risulta necessario un piccolo chiarimento: i primi, infatti, spettano a tutti gli esseri umani indipendentemente dal fatto che siano o meno effettivi; i secondi, di contro, si caratterizzano proprio per la loro effettività, essendo incorporati nelle costituzioni dei paesi democratici.

[3] Il chiaro riferimento è a Carl Schmitt, che utilizza tale dicotomia nella sua opera Le categorie del politico, il Mulino, Bologna, 2014.

[4] Una parte di questi migranti, infatti, viene resa oggetto di respingimento immediato; un’altra  viene “accolta” in quelli che in Italia chiamiamo CIE (centri di di identificazione ed espulsione) dove permangono per un periodo che non può andare oltre i 18 mesi: giusto il tempo di essere identificati e, se del caso, espulsi.

[5] L’asilo politico è concesso in virtù dell’articolo 1 della Convenzione di Ginevra (1957) a quegli individui che nel proprio paese hanno subito, o potrebbero subire, persecuzioni per motivi di razza, religione, o per il solo fatto di appartenere ad un determinato gruppo sociale o politico.

[6] Corte europea dei diritti dell’uomo, Grande Camera, Causa Hirsi Jamaa e a altri c. Italia, Sentenza Strasburgo 23 Febbraio 2012.

[7] W. Kymlicka, Fronteras territoriales. Una perspectiva liberal igualitarista, Trotta editorial, Madrid 2006.

[8] L. Ferrajoli, Dei diritti e delle garanzie, Il Mulino, Bologna 2013.

[9] G. Peces Barba, Educacion para la ciudadania y derechos humanos.

Dott. Andrea Cubello

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