Alcune considerazioni in tema di ragionevole durata dei processi civili italiani in attesa dell’edizione 2019 del rapporto del CEPEJ

Redazione 04/11/19
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di Mattia Polizzi*

* Dottorando di ricerca presso l’Università degli Studi dell’Insubria

Sommario

1. Introduzione

2. La ragionevole durata del processo civile e la Cedu: concetti introduttivi

3. L’edizione 2018 del rapporto del CEPEJ: le indicazioni metodologiche ed il quadro comune di riferimento

4. (Segue) Il quadro comune e la situazione italiana

5. Riflessioni conclusive

1. Introduzione

È affermazione notoria quella per cui lo stato della giustizia civile italico more non gode di ottima salute. E ciò, in particolare, sotto l’angolo visuale della durata dei singoli giudizi. Una affermazione, questa, sicuramente avvalorata dall’esperienza pratica della maggior parte degli operatori del diritto a vario titolo chiamati a prestare la propria opera all’interno del processo. E avvalorata altresì dalle numerose notizie giornalistiche che più volte colorano di (spesso meritate) sfumature drammatiche questo annoso problema. Una criticità, quest’ultima, che rende maggiormente stridente il raffronto tra la law in the books e la law in action, tra il diritto così come positivizzato nelle più alte Carte nazionali ed internazionali e lo svolgersi pragmatico del giudizio.

Ma cosa dicono, al riguardo, le ricerche scientifiche? Certo non si può in questa sede procedere con la disamina articolata di anche uno solo nei numerosi ed autorevoli studi sullo stato dell’arte. La prossima pubblicazione dell’ottava edizione (relativa ai dati dell’anno 2017) del rapporto “European judicial systems. Efficiency and quality of justice” curato dall’European Commission for the Efficiency of Justice (d’ora in avanti, per comodità espositiva, anche CEPEJ), fornisce tuttavia l’occasione per ricordare i risultati dell’edizione del 2018 del medesimo studio svolto a livello del c.d. “circuito Cedu”, per cercare di trarre alcuni spunti di riflessione.

Al riguardo, con questo scritto si cercherà in primo luogo di richiamare, pure in via necessariamente sintetica, i tratti salienti del concetto di “ragionevole durata del processo civile”, così come scolpito nella Cedu; in un secondo momento si analizzerà invece la sostanza del report del 2018.

2. La ragionevole durata del processo civile e la Cedu: concetti introduttivi

È noto che il secondo comma dell’art. 111 Cost., come modificato dalla l. cost. 23 novembre 1999, n. 2, si conclude con la solenne statuizione secondo la quale la legge deve assicura la ragionevole durata del processo: il processo, dunque, per essere giusto deve essere – anche – caratterizzato da una durata per l’appunto ragionevole[1].

Si tratta di una novità per la tradizione costituzionale nostrana, in quanto la nostra Carta fondamentale non conteneva nella sua stesura originaria, un’espressa enunciazione del principio della tempestività della tutela giudiziaria, a differenza di quanto previsto negli ordinamenti di altri Paesi[2]. La previsione della ragionevole durata del processo riecheggia la formula di cui al primo paragrafo dell’art. 6 Cedu che, come noto, contempla il diritto di ogni persona “a che la sua causa sia [decisa] equamente, pubblicamente ed entro un termine ragionevole“. Nonostante l’assonanza linguistica, tuttavia, la previsione costituzionale differisce p>a quo, ma deve esclusivamente pronunciarsi su disposizioni legislative in eventuale contrasto con il dettato costituzionale.

Ciò premesso è possibile soffermarsi sul merito dell’art. 6 Cedu in tema di ragionevole durata del giudizio[3].

Preliminarmente è opportuno rilevare che l’art. 6 Cedu, così come l’intera Convenzione, vive delle integrazioni e dei chiarimenti operati dalla Corte Europea dei diritti umani, ai quali non si potrà non fare riferimento. Peraltro, come accennato supra, la giurisprudenza della Corte di Strasburgo opera all’interno del sistema in maniera decisamente differente rispetto alla Corte costituzionale. La prima, difatti, è chiamata ad operare un giudizio sul caso processuale concreto, sicché è “il fatto processuale, non meno che l’ordinamento giudiziario e la disciplina del processo, che vengono sottoposti all’esame della Corte Europea”[4]. La seconda, dal canto proprio, è chiamata a giudicare sulla (legittimità costituzionale della) norma processuale in sé considerata. Tuttavia, come autorevolmente osservato in dottrina[5], l’alterità è totale per quanto riguarda l’effetto delle decisioni: l’eventuale condanna dello Stato, da un lato, l’espunzione della norma dall’ordinamento, dall’altro. Vi sarebbe, tuttavia, una coincidenza parziale (ed eventuale) tra i titoli giustificativi delle relative pronunce: in questa prospettiva l’eventuale differenza tra titoli starebbe nel fatto che nel caso del giudizio rimesso alla Consulta le violazioni delle garanzie processuali derivano necessariamente ed esclusivamente da atti aventi forza di legge, laddove il sindacato della Corte di Strasburgo può trovare la propria ragion d’essere anche da eventuali disfunzioni più strettamente connesse al caso di specie (quali, ad esempio, disfunzioni amministrative ovvero una non efficiente gestione della vicenda processuale).

La principale differenza tra il dictum costituzionale e quello convenzionale sta nel fatto che l’art. 6 Cedu attribuisce al cittadino il diritto di ricevere la decisione della controversia della quale sia entro un termine ragionevole. Si tratta, secondo la dottrina pressoché unanime, di un vero e proprio diritto soggettivo, azionabile nei confronti dello Stato che abbia negato la tutela giurisdizionale tempestiva[6]: la ragionevole durata del processo, in altri termini, viene qui in rilievo nel suo aspetto più squisitamente soggettivo. In realtà, come attentamente osservato in letteratura, la preminenza del profilo soggettivo non significa un disinteresse rispetto a quello oggettivo, essendo quest’ultimo funzionalmente collegato al primo: la Corte di Strasburgo, anzi, ha costantemente ricordato che l’art. 6, par. 1, Cedu obbliga gli Stati contraenti ad organizzare il proprio sistema giudiziario in modo tale da consentire alle corti ed ai tribunali di soddisfare tutte le esigenze e le garanzie di cui al dettato convenzionale[7].

Ma cosa intende la disposizione da ultimo citata quando afferma che la causa debba essere risolta entro un “délai raisonnable”? Pare opportuno ricordare al riguardo che la dottrina ha, condivisibilmente, messo in guardia dalla opportunità di stabilire termini per così dire secchi alla durata del svolgimento del processo. La CoEdu ha individuato alcuni criteri per la perimetriazione del reasonable time di cui all’art. 6, par. 1, Cedu, che qui si intende passare in rassegna, seppur limitandosi a quelli di maggiore rilievo. Per ciò che attiene ai criteri elaborati dalla giurisprudenza convenzionale per indagare in merito alla ragionevolezza delle tempistiche processuali viene in rilievo al riguardo il dictum contenuto nella sentenza Laino c. Italia[8]. In tale pronuncia la CoEdu ha affermato, in linea con il proprio orientamento passato, che la ragionevolezza della durata di un processo deve essere parametrata sulla base della “complexity of the case and of the conduct of the applicant and of the relevant authorities”[9]. Complessità del caso, comportamento del ricorrente (che abbia eventualmente prolungato la durata del procedimento) e condotta delle autorità nazionali rappresentano dunque i “pilastri” del giudizi ai sensi dell’art. 6, par. 1, Cedu.

La Corte di Strasburgo non ha mancato di illustrare con una certa precisione anche il momento di origine e quello finale per il giudizio in merito alla ragionevolezza del tempo impiegato per il processo. In particolare, il dies a quo dal quale far partire la valutazione in merito al termine ragionevole è quello dell’atto di citazione o comunque, più in generale, quello dell’atto introduttivo di primo grado[10]. Al riguardo la Corte di Strasburgo reputa che non si debba tener conto di eventuali periodi di tempo dedicati a tentativi di conciliazione preventiva delle vertenze[11]. Tuttavia, l’opinione della Corte muta qualora si versi in un’ipotesi di giurisdizione condizionata. La fattispecie è stata analizzata dalla sentenza resa nel caso X c. Francia[12], ove il ricorrente era un soggetto emofiliaco divenuto sieropositivo al virus dell’AIDS in occasione di una trasfusione di sangue infetto. In tal caso il caput iniziale del termine viene anticipato al momento dell’instaurazione della procedura amministrativa preliminare alla domanda (giudiziale) di indennizzo dei danni patiti. Il termine finale è stato invece usualmente identificato nella pronuncia della sentenza di ultimo grado o, comunque, nel passaggio in giudicato della decisione[13]. Tuttavia, la Corte di Strasburgo ha operato un passo ulteriore e di particolare interesse, mostrando una certa sensibilità all’intera vicenda processuale inerente il ricorrente. Nel caso Hornsby c. Grecia[14] la Corte parte da una premessa invero condivisibile, ossia che il diritto di accesso alla tutela giurisdizionale ricavato dall’art. 6, par. 1, Cedu“would be illusory if a Contracting State’s domestic legal system allowed a final, binding judicial decision to remain inoperative to the detriment of one party”: conseguenza logica di questa affermazione è che la “execution of a judgment given by any court must therefore be regarded as an integral part of the “trial” for the purposes of Article 6″[15]. Dunque, la ragionevole durata del giudizio deve tener conto sia della fase di cognizione sia di quella di esecuzione forzata, alla luce dei criteri supra evidenziati. Non solo. Come autorevolmente osservato in dottrina il giudizio di ragionevolezza deve essere valutato sia separatamente con riferimento ai due momenti processuali sia come sommatoria delle due fasi, così da poter operare un apprezzamento compiuto del casus dal momento di proposizione della domanda di tutela sino all’effettivo e concreto soddisfacimento del diritto azionato[16].

[1] La bibliografia sul tema della ragionevole durata del processo è decisamente ampia e, pertanto, le indicazioni che seguiranno devono essere intese come meramente semplificative. Tra i molti ed autorevoli contributi sul punto si v. non potrà che essere parziale. Si v., oltre ai contributi individuati infra, Andronio, Art. 111, in Bifulco, Celotto, Olivetti (a cura di), Commentario della Costituzione, III, 2006, Torino, pagg. 2115 e ss.; Biavati, Osservazioni sulla ragionevole durata del processo di cognizione, in Riv. trim dir. proc. civ., 2012, II, pagg. 475 e ss.; Capponi, Il processo civile e la crescita economica (una commedia degli equivoci), in www.giustiziacivile.com, 22 giugno 2015, pagg. 1 e ss.; Id., Le crisi della giurisdizione civile, in Corr. giur., 2014, X, pagg. 1277 e ss.; Cecchetti, voce Giusto processo a) Diritto costituzionale, in Enc. Dir., Agg. V, 2001, Milano, pagg. 610 e ss.; Chiarloni, voce Giusto processo (diritto processuale civile), in Enc. Dir., Ann. II-1, Milano, 2008, pagg. 416 e ss.; Id., Il nuovo art. 111 Cost. e il processo civile, in Riv. dir. proc., 2000, IV, pagg. 1032 e ss.; Giacobbe, I nodi irrisolti della giustizia civile, in Iustitia, 2006, II, pagg. 171 e ss.; Giussani, Sull’accelerazione del processo civile di cognizione, in Riv. dir. proc., 2015, II, pagg. 468 ss.; Olivieri, La «ragionevole durata» del processo di cognizione (qualche considerazione sull’art. 111, 2° comma, Cost.), in Foro it., 2000, X, V, pagg. 251 e ss.; Proto Pisani, Il nuovo art. 111 Cost. e il processo civile, in Foro it., 2000, X, V, pagg. 248 e ss.; Rovelli, La crisi della giustizia civile. Diagnosi e terapie, in Giur. it., 2009, II, pagg. 514 e ss.; Tarzia, Danovi, Lineamenti del processo civile di cognizione, 2014, Milano, pagg. 14 ss.; Trocker, Il nuovo articolo 111 della Costituzione e il “giusto processo” in materia civile, in Riv. trim. dir. proc. civ., 2001, II, pagg. 403 e ss.; Verde, Il processo sotto l’incubo della ragionevole durata, in Riv. dir. proc., 2011, III, pagg. 505 e ss.

[2] Si pensi, ad esempio, all’art. 24, comma 2, della Cost. spagnola del 27 dicembre 1978 a norma del quale tutti hanno diritto ad un processo pubblico “senza indebite dilazioni e con tutte le garanzie”.

[3] Sul tema si v., senza pretesa di esaustività, Andronio, op. cit., pagg. 2106 e ss.; Bartole, De Sena, Zagrebelsky, Commentario breve alla Convenzione dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali, 2012, Padova, pagg. 172 e ss.; Chiarloni, op. ult. cit., pagg. 1032 e ss.; Id., voce Giusto processo cit., pagg. 416 ss.; Chiavario, Art. 6, in Bartole, Conforti, Raimondi, Commentario alla Convenzione europea per la tutela dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali, 2001, Padova, pagg. 153 e ss.; Falcone, La ragionevolezza del processo: tra vincoli europei e autonomia dell’ordinamento interno, in Giust. civ., 2010, V, pagg. 254 e ss.; Olivieri, op. cit., pagg. 254 e ss.; Tarzia, L’art. 111 Cost. e le garanzie europee del processo civile, in Riv. dir. proc., 2001, I, 1 ss.; Trocker, op. cit., pagg. 404 ss.

[4] Tarzia, op. cit., pag. 7.

[5] Tarzia, , op. cit., pagg. 7-8.

[6] Andronio, op. cit., pag. 2106; Chiarloni, Il nuovo cit., pag. 1032; Trocker, op. cit., pag. 404.

[7] Cfr. Tarzia, op. cit., pag. 17.

[8] CoEdu, Grande Camera, Laino c. Italia, 18 febbraio 1999, ric. 33158/96; si v. altresì, a titolo di esempio, CoEdu, Bouilly c. Francia, 7 dicembre 1999, ric. 38952/97.

[9] Così il par. 18 della decisione.

[10] Così la cit. CoEdu Santilli c. Italia, in particolare par. 18; si v. altresì CoEdu, Poiss c. Austria, 23 aprile 1987, ric. 9816/82.

[11] Così ex pluris CoEdu, Zimmermann e Steiner c. Svizzera, 13 luglio 1983, ric. 8737/79.

[12] CoEdu X c. Francia, 31 marzo 1992, ric. 18020/91.

[13] Senza che venga in considerazione il tempo utilizzato per la proposizione dell’appello: cfr. ancora CoEdu Zimmermann e Steiner c. Svizzera; Tarzia, op. cit., pag. 19, ritiene che dal computo debba, più in generale, essere escluso il tempo utilizzato per la proposizione di qualsiasi mezzo di impugnazione.

[14] CoEdu, Hornsby c. Grecia, 19 marzo 1997, ric. 18357/91.

[15] CoEdu Hornsby c. Grecia cit., par. 40. In senso analogo si v. CoEdu, Di Pede c. Italia, 26 settembre 1996, ric. 15797/89 nonché CoEdu, Zappia c. Italia, 26 settembre 1996, ric. 24295/94.

[16] Cfr. Tarzia, op. cit., pag. 20.

3. L’edizione 2018 del rapporto del CEPEJ: le indicazioni metodologiche ed il quadro comune di riferimento

A fronte di queste importanti conquiste nel diritto positivo esistono i dati fattuali, raccolti dagli studi empirici. I report in questione provengono sia da organismi nazionali sia da organismi sovranazionali. Tra questi ultimi assume un sicuro rilievo quello svolto dalla European Commission for the Efficiency of Justice, organismo istituito nell’ambito del Consiglio d’Europa e deputato al monitoraggio ed al miglioramento dello stato della giustizia dei Paesi contraenti.

Le ricerche del CEPEJ sono state trasfuse, con riferimento ai dati raccolti nell’anno 2016, nella settima edizione (anno 2018) del rapporto “European judicial systems. Efficiency and quality of justice”[17], nonché in un database dinamico, denominato CEPEJ-STAT[18]. Tra i vari ambiti di tale imponente studio si è preso in considerazione quello avente per oggetto le cause civili e commerciali di primo grado. In questo contesto, le ricerche del CEPEJ partono dalla rilevazione, per ogni cento abitanti dello Stato considerato, del numero di processi incardinati nel corso dell’anno di riferimento (incoming cases), di quello relativo alle pendenze ancora in essere (pending cases) e di quello avente ad oggetto le vertenze giudicate (resolved cases).

Sulla base di questi parametri vengono elaborati due importanti indicatori. Il Clearance Rate (CR) mostra “how the judicial system is coping with the in-flow cases” e consiste nel risultato percentuale ottenuto dividendo il numero dei casi decisi nel periodo di riferimento con l’ammontare di quelli introdotti nello stesso lasso di tempo: un CR superiore al 100% implica una positiva capacità di risposta da parte del sistema giudiziario, in grado di risolvere un numero maggiore di cause rispetto a quelle incardinate; per converso, un CR inferiore alla soglia indicata fa emergere una situazione opposta. Il Disposition Time (DT), invece, “compares the total number of pending cases at the end of the year with the number of resolved cases” e misura (in giorni) il lasso di tempo teoricamente necessario per la risoluzione di una vertenza, alla luce dello stato attuale del carico di lavoro relativo a quello Stato; è ottenuto moltiplicando per il coefficiente 365 il quoziente della divisione operata tra il numero dei pending cases e quello dei resolved cases di uno stesso periodo di riferimento[19].

[17] European judicial systems – Efficiency and quality of justice. CEPEJ studies no. 26, 2018 Edition (2016 data).

[18] Entrambi consultabili liberamente alla pagina web https://www.coe.int/en/web/cepej/cepej-work/evaluation-of-judicial-systems.

[19] Le formule di calcolo dei due indicatori sono esplicitate in European judicial systems cit., 237 ss.

4. (Segue) Il quadro comune e la situazione italiana

Il dato European median che risulta da questi studi mostra una valore di 2,39 incoming cases, di 65,45 pending cases e di 2,18 resolved cases[20]: sulla base di tali parametri il CR ed il DT mediani sono pari rispettivamente al 100% ed a 192 giorni; i due indicatori sono invece pari, in termini di media aritmetica, al 101% e a 233 giorni[21].

Esaminando il dato nostrano è possibile rilevare che il quadro di riferimento è incentrato su 2,57 incoming cases, 4,096 pending cases e 2,91 resolved cases.

Gli indici calcolati sulla base di questi dati si discostano, significativamente ed eloquentemente, dalla media. Il CR, difatti, è ben superiore sia di quello mediano sia di quello medio e si attesta al 113,2%. L’indicatore è altresì maggiore di quello relativo alla maggior parte dei Paesi aderenti all’UE: a titolo esemplificativo si possono riferire i dati riguardanti l’Austria (102%), la Francia (99%), la Germania (102,7%), la Grecia (99,1%), la Norvegia (101,5%), la Polonia (98,8%), il Portogallo (112,3%), la Repubblica Ceca (110%), la Romania (102,0%), la Spagna (103,1%) o la Svezia (99,3%)[22]. Un dato, quello rivelato dagli studi CEPEJ che farebbe ben propendere verso una visione ottimistica dell’attuale stato della giustizia civile italiana, capace di far fronte alle richieste di giustizia provenienti dalla società civile.

Un entusiasmo, tuttavia, che non può che essere frenato di fronte a due considerazioni. In primo luogo l’indice CR italiano risulta avere un trend negativo nel corso degli anni[23]. Inoltre, Il DT nostrano è pari a 514 giorni, a fronte di una media impietosamente attestata sui 233 giorni e di un dato mediano pari a 192 giorni. Il divario è particolarmente significativo se si prendono in considerazione i DT dei Paesi sopra richiamati. Escludendo dal raffronto il dato greco, ove l’indicatore è di 610 giorni, gli altri Stati presentano un indice decisamente inferiore di quello italiano: quello austriaco è pari a 133 giorni, quello francese a 353 giorni, quello tedesco a 196 giorni, quello norvegese a 161 giorni, quello polacco a 225 giorni, quello portoghese a 289 giorni, quello ceco a 153 giorni, quello romeno a 153 giorni, quello spagnolo a 282 giorni e quello svedese a 164 giorni[24]. Nonostante il risultato raggiunto dal nostro Stato sotto tale angolo visuale sia decisamente negativo, è opportuno ricordare che, inversamente a quanto rilevato con riferimento al CR, l’indice DT si trova in un trend discensionale e, pertanto, positivo per la durata dei giudizi[25].

Alla luce di questa sintetica disamina, ciò che suscita diversi interrogativi in relazione alla situazione italiana è il raffronto tra i due indicatori. Si è visto supra, infatti, che l’indice CR risulta particolarmente positivo. Ci si aspetterebbe, pertanto, che l’alto grado di performance raggiunto dal nostro sistema processuale sia in grado di influenzare positivamente l’indice DT, conducendo automaticamente ad una minor durata dei giudizi esaminati. Ciò, tuttavia, è smentito dalle rilevazioni richiamate. È spontaneo, allora, chiedersi quale sia la ragione di questa discrasia. Ancora una volta, non si può che rimarcare come lo scopo e la natura di questo scritto non siano la sede più consona per abbozzare una risposta del tutto esaustiva. Tuttavia, non sfugge un dato significativo, rappresentato dai pending cases del nostro Stato: il numero di controversie pendenti al 31 dicembre dell’anno di riferimento è, difatti, pari a 4,096 unità ogni cento abitanti, a fronte di una media di 1,6 e di un dato mediano di 1,2 unità[26]. Si tratta del dato peggiore realizzato dai Paesi presi in considerazione dal CEPEJ, tanto da quelli appartenenti all’UE tanto da quelli extracomunitari, con la sola eccezione della Bosnia-Erzegovina[27]. Si può ricordare, nel campione preso a riferimento, che esso si attesta a 0,3608 per l’Austria, a 2,4302 per la Francia, a 0,8758 per la Germania, a 2,2514 per la Grecia, a 0,1586 per la Norvegia, a 1,892 per la Polonia, a 2,6604 per il Portogallo, a 1,445 per la Repubblica Ceca, a 2,906 per la Romania, a 1,7102 per la Spagna, nonché a 0,2665 per la Svezia. Peraltro è opportuno osservare che, come nel caso del DT, anche i pending cases italiani sono interessati da un positivo trend di decremento[28].

[20] Giova ricordare che l’European median non rappresenta il dato medio aritmetico (average). L’European judicial systems cit., 10, chiarisce infatti che il primo rappresenta infatti “the middle point of a set of ordered observations. The median is the value that divides the data supplied by the countries concerned into two equal groups so that 50 % of the countries are above this value and 50 % below. When there is an odd number of observations, the median is the value that is just in the middle of these two groups. The median is sometimes better to use than the average, as it is less sensitive to extreme values. The effect of the extreme values is then neutralised”.

[21] Cfr. European judicial systems cit., 248 e 250, nonché il CEPEJ-STAT.

[22] Non mancano, tuttavia, Stati con un CR maggiore di quello italiano, come quello slovacco (CR pari al 132%), quello finlandese (124,8%) ovvero quello croato (118%); al di fuori dell’area UE, l’unico Paese con un CR maggiore di quello italiano è la Bosnia-Erzegovina (115%).

[23] Il CR italiano, infatti, era pari al 118% per i dati raccolti nel 2010, al 131% per i dati del 2012 ed al 119% per i dati relativi al 2014.

[24] Il DT italiano, peraltro, è superiore anche rispetto a quello totalizzato dai Paesi extracomunitari esaminati dal CEPEJ, con la sola eccezione della Bosnia-Erzegovina, ove il DT si attesta sui 574 giorni.

[25] Infatti il DT italiano era pari a 493 giorni nel 2010, a 590 giorni nel 2012 e a 532 giorni nel 2014.

[26] European judicial systems cit., 252, a cui si rinvia anche per gli ulteriori dati specificati infra. La media dei pending cases si è costantemente attestata sulle 1,8 unità nel 2010, nel 2012 e nel 2014; il dato mediano, invece, era pari a 1,3 unità nel 2010 e a 1,1 unità nel 2012 e nel 2014.

[27] Ove i pending cases sono di 7,2 unità ogni cento abitanti.

[28] Difatti, l’analisi condotta in Italia consente di osservare che sono stati rilevati ogni cento abitanti 6,3 pending cases nel 2010, 5,5 nel 2012 e 4,5 nel 2014 (i dati sono arrotondati all’unità).

5. Riflessioni conclusive

Il quadro così tracciato consente di delineare una situazione composita.

Da un lato emerge un contesto operativo caratterizzato da un p>trend negativo, pare essere capace di fronteggiare le istanze provenienti dalla società civile con un grado di performance che rende onore agli sforzi profusi da ogni categoria coinvolta nel sistema-giustizia. Dall’altro ci si trova in presenza di un arretrato di dimensioni tali da rallentare p>trend positivo nella prospettiva diacronica tanto sul piano della durata dei processi tanto su di quello delle pendenze arretrate.

Volendo tentare un semplice – ma significativo – esperimento si potrebbe provare ad ipotizzare un dimezzamento dei pending cases, italiani portandoli dalle attuali 4,096 unità per cento abitanti a 2,096 unità. Utilizzando la formula adoperata per il calcolo del DT (quoziente risultante dalla divisione tra il numero di pending cases ed il numero di resolved cases, moltiplicato per 365) avremmo un ipotetico indicatore pari a 262,9 giorni. Un ottimo risultato, considerato il reale DT italiano (pari, come si è detto, a 514 giorni), ma ancora superiore alla media, che, come visto, si attesta su di un lasso di tempo di 233 giorni. In altri termini, anche a voler considerare come percorribile nel breve periodo una riduzione pari addirittura al 50% di tutte le pendenze civili e commerciali il sistema processuale italiano impiegherebbe per la definizione delle liti un lasso di tempo comunque superiore a quello medio dei Paesi considerati dallo studio del CEPEJ. Una considerazione, questa, che – pur nella sua semplicità – consente di prendere atto dello stato di affanno della giustizia italiana sotto il profilo della ragionevole durata dei giudizi.

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