Affidamenti interni senza obbligo di procedura ad evidenza pubblica: il (di cui all’art. 113, comma 5, lett. c), del decreto legislativo n. 267/00) non vuol dire forme di dipendenza o di subordinazione gerarchica ma la possibilità di e

Lazzini Sonia 14/06/07
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La sentenza numero 7345 del 22 dicembre 2005 del Consiglio di Stato merita di essere segnalata per gli importanti principi, in tema di affidamento in house, in essa contenuti.
 
Partendo dal seguente presupposto:
 
< la Corte di Giustizia si è pronunciata con la sentenza 18 novembre 1999 C-107, meglio nota come sentenza Teckal, affermando la legittimità dell’affidamento di un servizio pubblico locale anche senza l’osservanza della procedura ad evidenza pubblica, se l’ente locale eserciti sulla società un controllo analogo a quello che esso esercita sui propri servizi e la società realizzi la parte più importante delle propria attività con l’ente o gli enti che la controllano.>
 
il supremo giudice amministrativo si sofferma sul problema del “controllo analogo:
 
< l’adozione nel diritto comunitario della figura societaria, come strumento alternativo alla prestazione diretta dei servizi pubblici, impone di risolvere il problema del “controllo analogo” secondo un criterio coerente con la peculiarità dell’istituto in questione. La giurisprudenza comunitaria si mostra consapevole del fatto che, se si effettua l’affidamento diretto ad una società, il servizio verrà gestito da una persona giuridica separata e distinta dall’Amministrazione aggiudicatrice, un ente, cioè, che determina la propria azione mediante gli organi di cui è dotato. E’ quindi da escludere, in linea di principio, che il diritto comunitario possa imporre un modulo che riproduca, tra Amministrazione e società affidataria, quella forma di dipendenza che è tipica degli uffici interni all’ente.
 
Per conseguenza, si rivela improponibile l’impostazione accolta dalla Presidenza del Consiglio dei Ministri, Dipartimento delle politiche comunitarie, 19 ottobre 2001 n. 12727, nella quale si fa riferimento, addirittura, alla ”subordinazione gerarchica”.>
 
Inoltre:
 
< Osserva inoltre il Collegio che la sentenza della Corte di giustizia 27 febbraio 2003 n, in causa C-373 citata sopra, non autorizzi a ritenere che il possesso della totalità o della maggioranza delle azioni della società affidataria da parte dell’ente o degli enti pubblici consorziati non permetta l’esercizio di una funzione di direzione e di controllo della gestione, che, se pure non identico nelle modalità, sia sostanzialmente equivalente a quello svolto sulle unità operative direttamente dipendenti. L’ente pubblico, o gli enti pubblici, proprietari dell’intero pacchetto delle azioni, sia mediante la nomina degli organi, sia mediante l’approvazione di opportune deliberazioni, sono in condizioni di imporre, o meglio, di svolgere, ogni tipo di verifica e di rendiconto, in modo che sia operante la sostanziale identificazione riscontrabile tra il soggetto societario agente con la mano pubblica che le affida il servizio.
 
Ed è, appunto, tale identificazione che rende compatibile con le regole comunitarie che tutelano la concorrenza l’affidamento di un servizio pubblico ad una società privata senza l’adozione delle procedure ad evidenza pubblica. >
 
La considerazione finale quindi del supremo giudice amministrativo è che:
 
< il problema della sussistenza del “controllo analogo” si risolve in senso affermativo se la mano pubblica possiede la totalità del pacchetto azionario della società affidataria>
 
REPUBBLICA ITALIANA IN NOME DEL POPOLO ITALIANO
IL CONSIGLIO DI STATO IN SEDE GIURISDIZIONALE
Sezione Quinta
ha pronunciato la seguente
 
SENTENZA
 
sul ricorso n. 534 del 2004, proposto dal Comune di Pistoia, rappresentato e difeso dagli avv.ti *************** e ***************** elettivamente domiciliato presso il primo in Roma, Piazza San Salvatore in ***** 10
 
contro
 
la società *** Service s.r.l., rappresentata e difesa dagli avv. ti *********************** e ******************, elettivamente domiciliata   presso il sig. *************** in Roma, ******************** 46
 
e nei confronti
 
della società *** s.p.a., non costituita in giudizio
e
sul ricorso n. 658 del 2004, proposto dalla società *** s.p.a., rappresentata e difesa dagli avv.ti   ***************, ************** e *******************, elettivamente domiciliata nello studio del primo in Roma, Viale America 11
contro
la società *** Service s.r.l., rappresentata e difesa dagli avv. ti *********************** e ******************, elettivamente domiciliata   presso il sig. *************** in Roma, ******************** 46
e nei confronti
della società *** s.p.a., non costituita in giudizio
per la riforma
della sentenza del Tribunale Amministrativo Regionale per la Toscana 19 dicembre 2003 n. 6137, resa tra le parti.
Visti i ricorsi con i relativi allegati;
Visti gli atti di costituzione in giudizio della società appellata;
Viste le memorie prodotte dalle parti a sostegno delle rispettive difese;
Visti gli atti tutti della causa;
Relatore alla pubblica udienza del 5 aprile 2005 il consigliere *************, e uditi gli avvocati ****** su delega dell’avv. ***************** e l’avv. ******** su delega dell’avv. ********;
Ritenuto in fatto e considerato in diritto quanto segue.
FATTO
 
Con la sentenza in epigrafe è stato accolto il ricorso proposto dalla società *** Service s.r.l. per l’annullamento degli atti relativi all’affidamento da parte del Comune di Pistoia alla società *** s.p.a. del servizio di riscaldamento degli edifici comunali.
 
Il TAR ha ritenuto fondato ed assorbente il motivo con il quale si è sostenuto che la c.d. “gestione calore” non possa configurarsi come servizio pubblico locale ai sensi dell’art. 112 del d.lgs n. 267 del 2000, in quanto attività espletata in favore dell’ente locale e non dei membri della comunità comunale.
 
Il Comune di Pistoia e l’aggiudicataria *** s.p.a. hanno proposto separati appelli per la riforma della sentenza, previa sospensione dell’efficacia.
 
La società *** Service si è costituita per resistere ai gravami.
 
La Sezione con ordinanze in data 24 febbraio 2004 ha accolto le istanze cautelari.
 
Alla pubblica udienza del 5 aprile 2005 le cause venivano trattenute in decisione.
 
DIRITTO
 
Gli appelli investono la medesima sentenza. Essi vanno quindi riuniti e decisi unitariamente.
 
Le appellanti contestano la affermazione dei primi giudici circa la impossibilità di ricomprendere nella nozione di servizio pubblico locale di cui all’art. 22 della legge n. 142 del 1990, poi art. 122 del d.lgs. 18 agosto 2000 n. 267, la complessa attività preordinata a fornire il riscaldamento agli edifici di proprietà o comunque nella disponibilità del Comune. Da ciò sarebbe scaturito l’obbligo di procedere alla scelta del contraente secondo le procedure ad evidenza pubblica di cui al d.lgs. n. 157 del 1995, e, quindi, l’illegittimità dell’affidamento diretto dell’appalto ad una società per azioni a capitale pubblico e privato, secondo la previsione dell’art. 113 del d.lgs. n. 267 del 2000, nel testo originario, concernente appunto le modalità di svolgimento dei servizi pubblici locali.
 
Si assume, in senso contrario, che la decisione, pur potendo richiamarsi ad un precedente specifico della Sezione (10 marzo 2003 n. 1289), non è confortata dalla giurisprudenza prevalente del Consiglio di Stato e della Corte di Giustizia della Comunità Europea, nella quale riceve rilievo preminente il rapporto instaurato tra l’Amministrazione aggiudicatrice e la soggettività affidataria del servizio, potendosi trascurare la circostanza che il fruitore immediato del servizio sia l’Amministrazione e non i membri della comunità comunale.
 
A quest’ultimo riguardo il Collegio ritiene di dover confermare l’orientamento seguito dalla Sezione con la sentenza 9 maggio 2001 n. 2605 e con la sentenza 16 dicembre 2004 n. 8090, con la quale ha affermato che sono indifferentemente servizi pubblici locali, ai sensi dell’art. 112, T.U.E.L. n. 267/2000, quelli di cui i cittadini usufruiscano uti singuli e come componenti la collettività, purché rivolti alla produzione di beni e utilità per obiettive esigenze sociali. L’ultima decisione, che aveva ad oggetto l’illuminazione pubblica, ha espresso principi che ben possono applicarsi al complesso delle attività che garantiscono la temperatura necessaria alla vita ed al lavoro nelle numerose strutture gestite dall’ente comunale. E’ evidente, infatti, che l’utenza del servizio in questione non va individuata, restrittivamente, nei dipendenti comunali, ma si estende al pubblico che si reca negli uffici, e, soprattutto, ai frequentatori delle biblioteche, delle palestre, dei centri anziani e altri sevizi ospitati in immobili comunali.
 
Appare decisivo, d’altra parte, che secondo la Direttiva 92/50, recepita in Italia con il d.lgs. n. 157 del 1995, tra i servizi pubblici cui si applica la specifica normativa, elencati nell’Allegato “A”, sono indicati i “servizi di pulizia e di gestione delle proprietà immobiliari”, risultando quindi testualmente stabilito che il riscaldamento delle proprietà comunali, in quanto evidente attività di gestione, al pari dal servizio di pulizia, è un servizio pubblico.
 
Con riguardo alle fonti giurisprudenziali europee va ricordato che la Corte di Giustizia si è pronunciata con la sentenza 18 novembre 1999 C-107, meglio nota come sentenza Teckal, affermando la legittimità dell’affidamento di un servizio pubblico locale anche senza l’osservanza della procedura ad evidenza pubblica, se l’ente locale eserciti sulla società un controllo analogo a quello che esso esercita sui propri servizi e la società realizzi la parte più importante delle propria attività con l’ente o gli enti che la controllano.
 
La parte appellata contesta che nella specie tali circostanze si verificassero perché il Comune di Pistoia non era in condizioni di esercitare sulla società affidataria un controllo analogo a quello esercitatile sui propri uffici. E ciò perché il capitale sociale della aggiudicataria era detenuto da più enti pubblici tramite una società per azioni capo gruppo, e in questa figurava la partecipazione dell’1% di una banca privata, la Cassa di risparmio di San Miniato.
 
La tesi non può essere condivisa alla stregua dei chiarimenti forniti sul tema della giurisprudenza comunitaria più recente.
 
Va sottolineato, in via preliminare, che l’avviso espresso dalla Commissione della comunità con la nota 26 giungo 2002, diretta al Governo Italiano, circa l’insufficienza degli strumenti propri dell’azionista di maggioranza ai fini dell’esercizio del controllo “analogo”, di cui alla sentenza Teckal, citata sopra, non è mai stato fatto proprio dalla Corte di Giustizia, che, a quanto consta, non ha ancora fornito risposta al quesito pregiudiziale avanzato da questa Sezione con l’ordinanza 22 aprile 2004 n. 2316.
 
L’appellata, peraltro, cita in proposito la sentenza della Corte di giustizia 27 febbraio 2003, in causa C-373, nella quale si afferma l’esigenza che l’ente controllante svolga delle verifiche contabili particolarmente approfondite, da cui si desumerebbe, sempre secondo l’assunto, che il controllo “analogo” richieda un “effettivo potere di programmazione, direzione e controllo”.
 
A tale riguardo va ritenuto, per esigenze fondamentali di logica interpretativa, che l’adozione nel diritto comunitario della figura societaria, come strumento alternativo alla prestazione diretta dei servizi pubblici, impone di risolvere il problema del “controllo analogo” secondo un criterio coerente con la peculiarità dell’istituto in questione. La giurisprudenza comunitaria si mostra consapevole del fatto che, se si effettua l’affidamento diretto ad una società, il servizio verrà gestito da una persona giuridica separata e distinta dall’Amministrazione aggiudicatrice, un ente, cioè, che determina la propria azione mediante gli organi di cui è dotato. E’ quindi da escludere, in linea di principio, che il diritto comunitario possa imporre un modulo che riproduca, tra Amministrazione e società affidataria, quella forma di dipendenza che è tipica degli uffici interni all’ente.
 
Per conseguenza, si rivela improponibile l’impostazione accolta dalla Presidenza del Consiglio dei Ministri, Dipartimento delle politiche comunitarie, 19 ottobre 2001 n. 12727, nella quale si fa riferimento, addirittura, alla ”subordinazione gerarchica”.
 
Osserva inoltre il Collegio che la sentenza della Corte di giustizia 27 febbraio 2003 n, in causa C-373 citata sopra, non autorizzi a ritenere che il possesso della totalità o della maggioranza delle azioni della società affidataria da parte dell’ente o degli enti pubblici consorziati non permetta l’esercizio di una funzione di direzione e di controllo della gestione, che, se pure non identico nelle modalità, sia sostanzialmente equivalente a quello svolto sulle unità operative direttamente dipendenti. L’ente pubblico, o gli enti pubblici, proprietari dell’intero pacchetto delle azioni, sia mediante la nomina degli organi, sia mediante l’approvazione di opportune deliberazioni, sono in condizioni di imporre, o meglio, di svolgere, ogni tipo di verifica e di rendiconto, in modo che sia operante la sostanziale identificazione riscontrabile tra il soggetto societario agente con la mano pubblica che le affida il servizio.
 
Ed è, appunto, tale identificazione che rende compatibile con le regole comunitarie che tutelano la concorrenza l’affidamento di un servizio pubblico ad una società privata senza l’adozione delle procedure ad evidenza pubblica. La circostanza emerge in maniera palmare dal più recente intervento della Corte di Giustizia nella materia dell’affidamento in house, la sentenza 11 gennaio 2005, n. 2603 in C-26, ben nota alle parti in causa.
 
La sentenza afferma, in primo luogo (parag.50), che il possesso dell’intero pacchetto azionario della società da parte della mano pubblica garantisce lo svolgimento del servizio secondo “esigenze proprie del perseguimento di obiettivi di interesse pubblico”, mentre la partecipazione di capitali privati “persegue obiettivi di natura differente”. Ma, in disparte tale considerazione, che appare opinabile, se si considera che anche la procedura concorsuale conduce all’affidamento, pienamente legittimo, di un servizio pubblico a società private, risulta decisivo secondo la Corte che l’esplicazione di un attività economica da parte di società a capitale pubblico e privato        “offrirebbe ad una impresa privata presente nel capitale della detta società un vantaggio rispetto ai suoi concorrenti” (parag. 51); e ciò sarebbe lesivo della libera concorrenza se l’affidamento sia avvenuto senza il rispetto delle procedure previste dalla Direttiva 92/50 (parag. 51).
 
E’ palese dunque che, secondo questa giurisprudenza, cui il Collegio aderisce, il problema della sussistenza del “controllo analogo” si risolve in senso affermativo se la mano pubblica possiede la totalità del pacchetto azionario della società affidataria.
 
E tale presupposto nella specie va riconosciuto sussistente posto che il capitale della aggiudicataria è pubblico in percentuale superiore al 99%, mentre la quota in possesso della Cassa di Risparmio di San Miniato, di entità simbolica, non realizzerebbe comunque un illecito vantaggio ad una società concorrente operante nel settore energetico.
 
Anche il diverso requisito dello svolgimento del servizio in favore degli enti pubblici consorziati è da ritenere osservato osservato, tenendo conto che la giurisprudenza comunitaria richiede soltanto “la parte più importante” dell’attività esercitata dalla società.
 
La società appellante ha anche riproposto due motivi, dichiarati assorbiti in primo grado.
 
Il primo concerne la illegittimità della procedura per aver applicato la normativa destinata allo svolgimento di servizi pubblici (artt. 113 del d.lgs. n. 267 del 2000) mentre l’attività appaltata doveva essere qualificata appalto di fornitura oppure appalto di lavori, in ragione della prevalenza del valore del combustibile, ovvero delle opere previste.
 
Il motivo è infondato.
 
Il riscaldamento degli uffici comunali si svolgeva già prima dell’appalto in questione mediante la fornitura di metano da parte della odierna aggiudicataria. Appare quindi corretto che l’individuazione del valore del contratto sia avvenuta sottraendo l’importo della fornitura del metano.
 
Con riguardo alla asserita eccedenza dell’importo dei lavori rispetto a quello dei servizi, le argomentazioni svolte dagli appellanti si rivelano persuasive, ove si tenga presente che, secondo le disposizioni invocate dall’appellata (art. 3, comma 3, del d.lgs. n. 157 del 1995; art. 2 della legge n. 109 del 1994), per aversi appalto di lavori, l’importo di questi ultimi deve superare il 50% dell’importo totale.
 
In disparte rilievo, che il Collegio condivide, secondo cui non possono farsi rientrare nell’importo dei “lavori” gli interventi che rientrano nell’attività di manutenzione, e quindi rappresentano spese di gestione, le cifre offerte dal Comune di Pistoia (L. 832.558.000, per spese di gestione più spese di carburante escluso il metano, e L. 750.000.000, per opere edili di varia natura) portano a concludere che il contratto poteva essere legittimamente considerato un contratto di servizi.
 
Si è poi denunciata in primo grado la violazione dell’art. 11, comma 1 del d.P.R. 26 agosto 1993 n. 142 e della circolare del Ministero delle finanze 23 novembre 1998 n. 273, assumendo che la appellante aggiudicataria non avrebbe potuto svolgere la funzione di terzo responsabile di un impianto, in quanto fornitrice del combustibile, e il contratto qui in discussione non potrebbe qualificarsi come contratto servizio energia. Si allega, in modo alquanto generico, la mancanza dei requisiti di cui ai punti 7, 8 e 9 della detta circolare, ma la doglianza non regge alle opposte osservazioni dell’appellante Comune sulla base delle previsioni della convenzione.
 
Il profilo della medesima doglianza, che attiene alla pretesa mancanza della abilitazioni prescritte dalla legge n. 46 del 1990 per svolgere il servizio appaltato, non può essere accolto. Al conseguimento delle abilitazioni in questione, effettivamente avvenuto nell’imminenza della data di inizio dello svolgimento del servizio, 1 novembre 2001, o qualche giorno dopo, può attribuirsi efficacia sanante del ritardo nella presentazione della documentazione, dovendo considerarsi che le relative istanze erano avviate al momento della stipula della convenzione, e che la prescrizione di cui si invoca la violazione risulta invece osservata, posto che il servizio è stato svolto da impresa regolarmente autorizzata.
 
In conclusione gli appelli devono essere accolti, con conseguente riforma della sentenza impugnata e rigetto del ricorso di primo grado.
 
Sussistono valide ragioni per disporre la compensazione tra le parti delle spese di lite
 
P.Q.M.
 
Il Consiglio di Stato in sede giurisdizionale, Sezione Quinta, riunisce   gli appelli in epigrafe, li accoglie e, per l’effetto, in riforma della sentenza appellata, rigetta il ricorso di primo grado;
 
dispone la compensazione delle spese;
 
ordina che la presente sentenza sia eseguita dall’Autorità Amministrativa.
 
Così deciso in Roma, nella camera di consiglio del 5 aprile 2005 con l’intervento dei magistrati:
DEPOSITATA IN SEGRETERIA – Il 22 dicembre 2005

Lazzini Sonia

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