A proposito della esecuzione delle sentenze tributarie di condanna della agenzia delle entrate

Redazione 01/05/02
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Di Claudio Cutrano

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Nell’ambito delle norme delegate introdotte dal decreto legislativo 30 dicembre 1992 n. 546, sorge un dubbio indiscusso di illegittimità delle norme che prevedono una irrazionale ed indiscriminata protezione delle posizioni erariali in aperta lesione del principio di uguaglianza.

Fra queste, certamente, è allocabile la previsione legislativa che impedirebbe di porre in esecuzione nei confronti della Amministrazione Finanziaria le sentenze di condanna al pagamento di somme emesse dalla Commissione Tributaria Provinciale che, sebbene notificate, non siano ancora passate in giudicato in quanto soggetti ad impugnazione.

Tale interpretazione risulta chiaramente espressa dalle iniziali Istruzioni ministeriali dettate dalla Circ. n. 98/E-II-3-1011 del 23 aprile 1996 Dir. AA.GG. e cont. trib. Le quali, riferendosi all’art. 69, recitavano: “La sentenza di condanna dell’ufficio del Ministero delle finanze o dell’ente locale impositore o del concessionario del servizio di riscossione al pagamento di somme dovute, sia essa emessa dalla Commissione tributaria provinciale, o in grado di appello dalla Commissione tributaria regionale, non è immediatamente esecutiva, essa può essere eseguita solo con il passaggio in giudicato, cioè quando si siano esauriti tutti i gradi del giudizio, o quando, per scadenza dei termini, non è impugnabile” con evidente ingresso del dubbio di legittimità in relazione all’art. 68 che, invece, sanciva la provvisoria esecuzione delle sentenze e la possibilità, tanto per l’A.F. quanto per il Concessionario, di porre immediatamente in esecuzione il provvedimento impugnato e non sospeso ovvero lo stesso dopo la sentenza di primo grado che, rigettando l’opposizione, caduca gli effetti della sospensione eventuale concessa.

Tale interpretazione ministeriale, ribadita con Circ. n. 224/E-II-3-158421 del 30 novembre 1999, si fonda sul disposto dell’art. 69 citato che prevede : “se la commissione condanna l’ufficio del Ministero delle finanze o l’ente locale o il concessionario del servizio di riscossione al pagamento di somme … e la relativa sentenza è passata in giudicato, la segreteria ne rilascia copia spedita in forma esecutiva a norma dell’art. 475 c.p.c. …”, tanto è che nella stessa Circolare si conclude affermando che la sentenza di condanna al rimborso obbliga l’Amministrazione ad eseguire il rimborso stesso soltanto dopo che è passata in giudicato.

La Direzione Regionale delle Entrate della Lombardia, con Circ. n. 5/10241 dell’11 febbraio 2000, ha ribadito anch’essa tale concetto, sostenendo :

“Per quanto concerne le controversie di rimborso instaurate avverso il rifiuto espresso o tacito manifestato dall’Amministrazione a seguito di pagamenti non conseguenti alla notifica di atti autonomamente impugnabili, in presenza di una sentenza non definitiva in tutto o in parte favorevole al ricorrente, non sorge alcun obbligo immediato in capo all’ufficio di provvedere al rimborso. Tale obbligo, invero, sorge soltanto, come ampiamente sottolineato dal Ministero nell’ambito della citata circolare ministeriale n. 224/E del 1999, quando la sentenza di condanna al rimborso è divenuta definitiva, come si evince dalla lettura degli artt. 37, comma 3, del d.p.r. 602/1973 e, in particolare, 69, del d.lgs. 546/1992, il quale consente il rilascio della copia della sentenza di condanna spedita in copia esecutiva a norma dell’art. 475 del codice di procedura civile, da parte della segreteria della Commissione, soltanto quando la stessa sia passata in giudicato”

Certamente siffatta interpretazione, che non trova conferma nella letterale espressione normativa, costituisce una opinione ministeriale, non certo una interpretazione autentica del dettato legislativo.

Né, tampoco, appare (o, almeno, non risulta allo scrivente) che, dopo la riforma introdotta dal d.lgs. 546/92, la Corte di legittimità sia stata chiamata a pronunciarsi in tema, cioè se la esecuzione di sentenze di condanne possano essere iniziata ancora prima del passaggio in giudicato della sentenza e, diversamente, se la norma, come sopra interpretata, verifichi ipotesi di incostituzionalità, con rimessione della “quaestio” alla Consulta.

L’espresso rinvio contenuto nell’art. 1 d.lgs. 546/92 alle norme del codice di procedura civile, non escludendosi certamente la provvisoria esecuzione delle sentenze di primo grado (art. 282 c.p.c.), e la disposizione “i giudici tributari applicano le norme del presente decreto e, per quanto da esse non disposto” e con esse compatibili, le norme del codice di procedura civile” non risolvono il dubbio interpretativo, dovendosi verificare la compatibilità dell’art. 282 c.p.c. con le norme delegate e la fondatezza della preclusione voluta dal Ministero in tema di soddisfacimento dei diritti del contribuente.

In sede giurisprudenziale, una tesi contraria è stata sancita nell’affermazione di principio da parte della Corte di Cassazione, Sezione Tributaria, la quale, con Sent. n. 15388 dei 26 giugno – 5 dicembre 2001 ammette, per la prima volta, che “Invero gli artt. 68 e 69 del d.lgs. 546/1992 sono espliciti nell’affermare che le sentenze delle Commissioni tributarie sono provvisoriamente esecutive a favore del contribuente (sia pure dopo notifica delle stesse da parte del contribuente) per quanto attiene agli esborsi che il contribuente abbia compiuto a favore del fisco in esecuzione del provvedimento impositiva”.

Ciò essendo, sarebbe di tutta evidenza che, per porre in esecuzione una sentenza di condanna, il contribuente non debba attenderne il passaggio in giudicato, ma è anche vero, pur nondimeno, che la questione merita un più approfondito esame per la certa aspettativa di una opposizione da parte della Avvocatura dello Stato avanti l’A.G.O. fondata sulla tesi ministeriale.

Occorre pertanto esaminare più compiutamente la questione, rifacendosi all’art. 30 Legge 30 Dicembre 1991 n. 413 che delega il Governo della Repubblica ad emanare uno o più Decreti legislativi recanti disposizione per la revisione della disciplina e l’organizzazione del contenzioso tributario, con l’osservanza dei determinati principi e criteri direttivi e, fra questi, “l’adeguamento delle norme del processo tributario a quelle del processo civile” (lett. g).

Occorre, ancora, trarre fonte interpretativa dalla Relazione Ministeriale al d.lgs. 546/1992 laddove si afferma :

“Il presente schema di decreto legislativo attua la legge delega nella parte riguardante la disciplina del processo dinanzi agli organi specifici di giurisdizione in materia tributaria secondo i princìpi e i criteri direttivi indicati nell’art. 30 della Legge 30 dicembre 1991, n. 413, al comma 1, lett. a), b), c), d), g), i), l), m), t), v), z): …. “

“Nell’attuare la delega si sono seguiti questi tre criteri: in primo luogo, si è evitato di prendere posizione normativa sulla questione, tipicamente dottrinale, della natura del processo tributario, se cioè tale processo debba considerarsi un giudizio di annullamento di atti ovvero un giudizio di rapporti o, ancora, un giudizio misto, talvolta avente ad oggetto rapporti giuridici e talvolta veri e propri provvedimenti;…. in secondo luogo, nel dettare la nuova disciplina, si è fatto costante riferimento al processo regolato dal codice di procedura civile, tenendo ovviamente conto dalle innovazioni apportate dalla legge 26 novembre 1990, n. 353. Ma si è, al contempo, avuto riguardo anche della precedente normativa contenuta nel decreto del Presidente della Repubblica 26 ottobre 1972, n. 636 e successive modificazioni e integrazioni.

L’utilizzazione di questo doppio riferimento si è sviluppata nel senso di conservare quanto di meglio era previsto nella normativa speciale adeguandola per il resto alla normativa generale dettata dal codice di procedura civile, così da soddisfare pienamente le indicazioni in tal senso complessivamente fornite dal legislatore delegante; in terzo luogo, tenuto conto dell’ampiezza della delega e delle novità rispetto alla precedente normativa, si è voluto evitare il comodo rifugio in una legislazione di tipo novellistico, che avrebbe provocato non poche difficoltà a carico degli operatore pratici, e si è invece seguita la via, sicuramente meno facile, ma più proficua, di una disciplina tendenzialmente compiuta e sistematicamente organizzata, che dovrebbe essere in grado di ridurre, e non di alimentare, l’inevitabile problematica interpretativa sul dato legislativo.

Nella stessa relazione, con riferimento all’art. 1 del d.lgs. n. 546/1992, nel comma 2, si legge ancora:

“… la disciplina dettata dal codice di procedura civile, della quale ovviamente fanno parte anche le disposizioni di attuazione, si pone quale fonte immediatamente secondaria e generalizzata … rispetto alla normativa dettata nel Decreto. Il passaggio dall’una all’altra è dato, ovviamente, del doppio criterio dell’esistenza di una lacuna nella normativa speciale e della compatibilità della disciplina generale del codice di procedura civile con quella specialmente prevista dal decreto, in modo da realizzare compiutamente il principio di integrazione imposto dalla Legge Delega”.

Non appare comprensibile l’utilizzo, peraltro reiterato, del termine “adeguamento al codice di procedura civile ed integrazione della legge speciale”, laddove il termine “adeguare” venga interpretato in senso difforme dal suo letterale significato di translazione del codice di procedura civile nella normativa speciale, eliminandone di conseguenza ogni incompatibile previsione.

Peraltro, le intenzioni del legislatore, così come espresse nella richiamata relazione, non risultano chiaramente espresse nella lettera e nello spirito della legge delegata, per l’evidente contrasto del termine “adeguamento” usato dalla legge delega e le riserve contenute nella legge delegata che impone alla attività ermeneutica dei giudici tributari di risolvere – speriamo in tempi brevi ! – la quaestio in ordine alla parte “non disposta” dal d.lgs. 546/92 ed alla “compatibilità” delle relative disposizioni con quelle del codice di rito civile.

Invero, mentre nella l’art. 30, lett. g), della legge delegante, dispone un “adeguamento delle norme del processo tributario a quelle del processo civile”, l’art. 1, comma secondo, della legge delegata recita: “I giudici tributari applicano le norme del presente Decreto e, per quanto da esse non disposto e con esse compatibili, le norme del codice di procedura civile”.

Vero è, comunque, che la Relazione citata conclude affermando che “l’impiego eventualmente fatto di parole o espressioni anche astrattamente suscettibili di avallare la qualificazione del processo nell’uno o nell’altro senso è stato puramente casuale e deve imputarsi solo a esigenze lessicali”.

La dicotomia fra legge delegante e legge delegata, quindi, sarebbe da attribuirsi solamente ad una esigenza lessicale del legislatore, non alla sua volontà e reali intenzioni che, ex adverso, introdurrebbero il serio dubbio che si sia voluto preferire, a dispregio del principio di uguaglianza, gli interessi dello Stato rispetto quelli del Privato.

A quest’ultimo non può essere imposto un limite all’esercizio del suoi diritti, peraltro conclamati un sentenza, che non siano del pari posti a carico dello Stato.

Non può ancora negarsi che, a mente dell’art. 24 Cost., il processo tributario debba essere improntato alla luce della esigenza di evitare che la durata del processo possa recare danno (talvolta irreparabile, in quanto non sufficientemente remunerato dall’aggravio dei soli interessi) a chi ha ragione, consentendo una impugnativa della sentenza, ancorché assolutamente infondata, per procrastinare, durante il lungo tempo occorrente per la nuova pronuncia dei Giudici del gravame, l’adempimento da parte della P.A. delle proprie obbligazioni.

Laddove volesse attribuirsi pregio giuridico alla interpretazione ministeriale dell’art. 68, la aberrante situazione che ne conseguirebbe si porrebbe in aperto contrasto con i più elementari principi costituzionali, consentendo alla P.A. strumenti processuali di intento dilatorio, quali la impugnazione della sentenza a mezzo atto di appello non notificato in luogo avente attinenza con il reale destinatario e/o fondato su nuove eccezioni e/o assolutamente pretestuoso.

La conseguenza ?

La sentenza dei Giudici di prima istanza non potrebbe essere messa in esecuzione fino alla pronuncia del giudizio di gravame, ancorché dichiarativa della inammissibilità dell’impugnazione e, ove impugnata anche quest’ultima in sede di legittimità, fino alla pronuncia della Corte di Cassazione.

Il rigetto eventuale e la notificazione della sentenza, però, non consentirebbe ancora di procedere esecutivamente, stante il disposto dell’art. 14, comma primo, del decreto legge 31 dicembre 1996 n. 669, conv., con modific., in Legge 28 febbraio 1997 n. 30 : “Le amministrazioni dello Stato e gli enti pubblici non economici completano le procedure per l’esecuzione dei provvedimenti giurisdizionali e dei lodi arbitrali aventi efficacia esecutiva e comportanti l’obbligo di pagamento di somme di danaro entro il termine di centoventi giorni dalla notificazione del titolo esecutivo. Prima di tale termine il creditore non ha diritto di procedere ad esecuzione forzata nei confronti delle suddette amministrazioni ed enti, né possono essere posti in essere atti esecutivi”.

Per ottenere copia della sentenza con formula esecutiva, non è però dato di conoscere (ulteriore questione interpretativa!) se debba richiedersi e sia competente la Segreteria della Commissione Tributaria ovvero quella del Giudice del gravame : in ogni caso, attendendo la restituzione del fascicolo da parte della Corte di Cassazione.

Unitamente alla notifica della sentenza con coeva formula esecutiva, occorre costituire in mora la P.A., invitandola al pagamento nel termine di gg. 120 sopra previsto, trascorso il quale, può notificarsi l’atto di precetto e, solo dopo ulteriori dieci giorni, procedersi ad esecuzione coatta, soggiacendo ai normali tempi previsti per le relative procedure avanti l’A.G.O.

In pratica, un “escamotage” processuale della P.A. procrastinerebbe il diritto del contribuente ad ottenere soddisfazione del proprio credito per un periodo non inferiore a DIECI anni (visto peraltro il carico di lavoro delle Commissioni Tributarie Regionali, della Sezione Tributaria della Corte di Cassazione e dell’Ufficio Esecuzioni Civili di qualsiasi Tribunale della Repubblica Italiana).

Il tutto con probabile compensazione delle spese di lite cui gran parte dei Giudici aditi è solito ricorrere, motivando con l’esistenza di “giusti motivi”.

Una situazione avversa, ad avvalorare la eccezione fondata sulla violazione del principio di parità ed eguaglianza, intravede la P.A., dopo la sentenza di rigetto della opposizione avverso un atto impositivo :

– la riscossione del terzo di imposta mediante iscrizione a ruolo provvisorio, con tempi di soddisfazione stimabili non oltre un anno dalla notifica dell’atto

– la soccombenza del contribuente agli interessi, ai diritti esattoriali di riscossione ed quelli di mora esattoriali

– la riscossione della concorrenza fino ai due terzi dell’imposta dopo la statuzione dei Giudici di primi cure, con eguali tempi di soddisfazione della prima quota (senza notifica di sentenza)

– ancora una volta la soccombenza del contribuente agli interessi, ai diritti esattoriali di riscossione ed quelli di mora esattoriali

– la riscossione fino alla concorrenza dell’intera imposta dopo la statuizione del Giudice del gravame, in uno all’intera quota delle sanzioni irrogate e con gli interessi, ai diritti esattoriali di riscossione ed quelli di mora esattoriali : tempo stimabile in un anno (senza notifica di sentenza)

Rag. Claudio Cutrano – Palermo

Redazione

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