Nota critica sulla giurisprudenza della Corte Europea e della cassazione in tema di appello su decisione assolutoria

Pardo Ignazio 29/10/13
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La Corte Europea dei diritti dell’uomo, III sezione, con la sentenza del 5 luglio 2011, nel caso Dan c/ Moldavia 1 ha ritenuto integrata la violazione dell’art. 6, par. 1, della Convenzione proprio nella parte in cui il processo di appello aveva condotto ad un ribaltamento della condanna, in assenza di qualsivoglia attività istruttoria e quindi sulla scorta soltanto dei soli atti assunti in primo grado stabilendo in particolare che:” La Corte ritiene che coloro che hanno la responsabilità di decidere la colpevolezza o l’innocenza di un imputato dovrebbero, in linea di massima, poter udire i testimoni personalmente e valutare la loro attendibilità. La valutazione dell’attendibilità di un testimone è un compito complesso che generalmente non può essere eseguito mediante una semplice lettura delle sue parole verbalizzate”2. Seppur, quindi, non contrasta in linea astratta con i principi della Convenzione europea dei diritti dell’Uomo una condanna emessa dal giudice di appello, in riforma di una pronuncia assolutoria, tuttavia l’affermazione di responsabilità in sede di gravame che dovesse conseguire ad una diversa valutazione di attendibilità delle prove orali ritenute decisive richiede, però, per essere rispettosa dell’art. 6 CEDU, l’esame diretto dei testimoni da parte del giudice d’appello.

Sulla scia del caso Dan c. Moldavia la Corte EDU ha pronunciato ulteriori pronunce nelle quali ha ancora una volta affrontato lo stesso tema della condanna in grado di appello in riforma della pronuncia assolutoria emessa all’esito del giudizio di primo grado; nel caso Hanu v. Romania 3 ha dichiarato che, qualora un giudice d’appello sia chiamato ad esaminare un caso in relazione ai fatti di causa e alla legge, e cioè a questioni sia di fatto che in diritto e a fare una valutazione completa della questione relativa alla colpevolezza o all’innocenza del ricorrente, non può, per una questione di giusto processo, adeguatamente stabilire questi problemi senza una valutazione diretta delle prove fornite di persona dall’accusato che sostiene di non aver commesso il fatto ritenuto integrativo di una fattispecie penale. Inoltre, anche se spetta normalmente al giudice nazionale stabilire se sia necessario o opportuno sentire testimoni, circostanze eccezionali come la condanna in appello in riforma portano a concludere che la mancata escussione di una persona come testimone è incompatibile con l’articolo 6 della Convenzione e ciò anche se non ne sia stata fatta richiesta dalla parte; ribadito che uno dei requisiti di un processo equo è la possibilità per l’imputato di affrontare i testimoni in presenza di un giudice che deve decidere la causa, in virtù del principio di immediatezza e della rilevanza della condotta del testimone nel corso dell’escussione, si concludeva che, nel caso di specie, i giudici nazionali non sono riusciti a rispettare le esigenze di un processo e ciò comportava una violazione dell’art. 6 & 1 della Convenzione.

Trattasi con evidenza di asserzioni dal rilevante effetto pratico poiché impone al giudice di appello la riapertura dell’istruzione dibattimentale nel giudizio di secondo grado anche oltre gli stretti parametri consentiti dall’art. 603 c.p.p. e ciò ogni qual volta sussistano due presupposti:1) sia stata appellata una sentenza di assoluzione in primo grado; 2) il giudice di appello intenda addivenire ad una sentenza di condanna in forza della diversa valutazione della attendibilità di una prova orale. In questi casi, quindi, i principi evolutivi del doppio grado di giurisdizione di merito impongono al giudice di appello non soltanto un obbligo di motivazione rafforzato secondo le osservazioni della corte di cassazione ma, anche, un procedimento differente da quello ordinario non potendo addivenirsi al ribaltamento della decisione assolutoria emessa all’esito del primo giudizio soltanto sulla base di un mero esame “cartolare” degli atti.

La Corte EDU ha poi approfondito il tema dell’individuazione del soggetto processuale obbligato a formulare le richieste di prova nei procedimenti di appello aventi ad oggetto il gravame proposto dalla pubblica accusa; secondo la prospettazione difensiva di molti governi nazionali, infatti, una questione di violazione dei principi della Convenzione europea non può porsi in assenza di istanze probatorie ritualmente formulate dalle parti; sicchè solo ove l’imputato tramite il proprio difensore avesse richiesto procedersi all’escussione del mezzo di prova il principio di diritto precedentemente indicato avrebbe potuto essere formulato. Anche tale impostazione è stata disattesa; con una recente pronuncia la Corte Europea ha stabilito che in caso di riforma della pronuncia assolutoria da parte del giudice di appello è compito di questi provvedere anche d’ufficio all’acquisizione della prova orale fondamentale 4. L’affermazione segue una pronuncia di appena un mese prima 5; in questo caso la Corte d’appello rumena aveva riformato la sentenza di assoluzione emessa del Tribunale di primo grado, sulla base di una diversa valutazione delle testimonianze rese da persone che non erano state nuovamente e direttamente udite dai giudici di secondo grado; è stata rilevata la violazione dell’art. 6 CEDU osservando che la nuova audizione dei testi finalizzata alla valutazione della attendibilità è misura che deve essere presa d’ufficio anche senza la istanza di parte. La Corte parte dalla premessa che la valutazione della attendibilità posta a fondamento della decisione deve basarsi sull’analisi non solo del dichiarato scritto, ma anche del comportamento posto in essere durante l’audizione e conclude per la violazione delle regole del processo giusto.

Commentando i suddetti arresti della giurisprudenza europea si è affermato che la Corte EDU, pur ribadendo che l’art. 6 della Convenzione non detta regole sulla ammissibilità delle testimonianze e sul modo di valutarle, rileva dunque come la mancata audizioni di testimoni, in particolari circostanze, può  essere incompatibile con la tutela convenzionale del diritto di difesa. In particolare, se la Corte di seconda istanza ha pieni poteri in ordine alla valutazione della responsabilità, con integrale cognizione del fatto e del diritto; se l’accertamento della responsabilità avviene attraverso la rivalutazione su base cartolare dei soli contenuti della testimonianza, a prescindere da ogni analisi dei dati comunicativi extraverbali, e se la nuova valutazione risulta decisiva per la sentenza di condanna e fonda l’overturning  della decisione di primo grado, allora il diritto di difesa patisce una lesione, in quanto si nega all’accusato il diritto alla valutazione affidabile della prova testimoniale, garantito pienamente solo dal  rispetto del principio di oralità. Non è dunque sufficiente che all’accusato sia stata data, in primo grado, una occasione di entrare in contatto con la fonte delle accuse 6.

Proprio sul punto introdotto dalle sentenze CEDU è in seguito intervenuta la corte di cassazione 7; con una prima pronuncia si è stabilito essere manifestamente infondata l’eccezione di legittimità costituzionale dell’art. 603 cod. proc. pen. per contrasto all’art. 117 della Costituzione e all’art. 6 della Convenzione Europea dei diritti dell’Uomo (CEDU) nella parte in cui non prevede la preventiva necessaria obbligatorietà della rinnovazione dell’istruttoria dibattimentale per una nuova audizione dei testimoni già escussi in primo grado, nel caso in cui la Corte di Appello intenda riformare “in peius” una sentenza di assoluzione dell’imputato.

Su questo stesso percorso si inseriscono quelle affermazioni giurisprudenziali secondo cui il giudice di appello per riformare in “peius” una sentenza assolutoria è obbligato – in base all’art. 6 CEDU, così come interpretato dalla sentenza della Corte Europea dei diritti dell’uomo del 5 luglio 2011, nel caso Dan c/Moldavia – alla rinnovazione dell’istruzione dibattimentale solo quando intende operare un diverso apprezzamento di attendibilità di una prova orale, ritenuta in primo grado non attendibile 8 in sostanza volendosi limitare l’operatività della regola sancita dai giudici di Strasburgo ai soli casi di rivalutazione di attendibilità di una prova esclusivamente orale e di decisività della stessa ai fini del giudizio di responsabilità. Solo quando la diversa valutazione della prova testimoniale ovvero delle dichiarazioni di un imputato di reato connesso determina l’affermazione di responsabilità il giudice di appello è quindi tenuto alla riassunzione d’ufficio della prova.

Ciò che infatti appare necessario evidenziare è la circostanza che in tali casi l’obbligo di riassunzione della prova ricade sul giudice il quale dovrà procedervi anche in assenza di richieste di parte evidentemente in tali casi facendo riferimento al potere di rinnovazione ex officio pure disciplinato dall’art. 603 c.p.p..

In questi termini successivi interventi hanno decretato l’annullamento delle pronunce di appello che non si erano uniformate al suddetto principio; si è infatti avuto modo di sancire l’obbligo imposto dalla giurisprudenza della corte europea affermandosi che è illegittima la pronunzia del giudice di appello che riformi la decisione assolutoria assunta in primo grado sulla base di un diverso apprezzamento dell’attendibilità della testimonianza della persona offesa, senza procedere a rinnovazione dell’istruttoria dibattimentale 9.

Un ultimo arresto giurisprudenziale ha poi esteso l’obbligo di riassunzione della prova ritenuta non attendibile in primo grado e posta a fondamento dell’affermazione di responsabilità in secondo grado anche al caso del giudizio abbreviato; la massima recita infatti che il giudice di appello qualora intenda riformare la precedente sentenza di assoluzione deve procedere alla rinnovazione dell’istruzione dibattimentale per l’audizione dei testimoni ritenuti inattendibili, a nulla rilevando che il procedimento in primo grado sia stato definito con il rito abbreviato 10.

L’affermazione appare con evidenza poco comprensibile posto che il giudizio di appello in tal caso è sì di natura puramente “cartolare” risolvendosi cioè in un esame delle fonti di prova separatamente ed antecedentemente acquisite ma, in tale ipotesi di cui all’art. 438 c.p.p., è del tutto parallelo alle modalità di svolgimento del giudizio di primo grado ove il giudice dell’abbreviato decide pure esso allo stato degli atti e senza procedere ad alcuna istruttoria ispirata ai principi di oralità ed immediatezza.

Tuttavia una più attenta lettura della motivazione della pronuncia non pare confermare l’assioma così come massimato posto che la stessa pronuncia riferisce soltanto di un tendenziale obbligo di audizione nel caso di riforma secondo la giurisprudenza della Corte europea da assolvere anche ove la condanna in riforma sia pronunciata all’esito di rito abbreviato11.

Se questo è lo stato dell’arte e se è quindi facilmente prevedibile che in futuro gli arresti giurisprudenziali della corte di legittimità si adegueranno al principio stabilito dai giudici della CEDU occorre chiedersi quali siano i procedimenti nei quali la rivalutazione di una prova orale fondamentale può portare ad un ribaltamento della pronuncia assolutoria di primo grado. Sebbene infatti non possa procedersi ad una completa analisi e catalogazione di casi pratici la prassi insegna che alcune fattispecie di reato sono maggiormente “esposte” a situazioni in cui la colpevolezza dell’imputato si gioca sul duplice binario del giudizio di attendibilità-inattendibilità di un determinato teste. Sono questi i c.d. procedimenti a teste unico in cui cioè la prova del fatto-reato deriva unicamente da una deposizione testimoniale e nella quale gli altri elementi acquisiti nel corso dell’istruzione dibattimentale svolgono, in sostanza, una sola funzione di controllo poiché servono esclusivamente quali elementi di corroborazione dell’attendibilità intrinseca delle dichiarazioni del teste. Gli altri elementi, che possono avere natura documentale od anche orale, non si riferiscono cioè al fatto-reato quanto alla veridicità della deposizione del teste fondamentale; detti procedimenti vedono spesso coincidere la figura del teste fondamentale con quella della persona offesa del reato sicchè ove vi sia anche stata costituzione di parte civile si pone, con evidenza, una problematica di credibilità della deposizione che diviene fondamentale 12. L’applicazione della citata giurisprudenza della Corte EDU a tali casi vorrebbe significare che ogni qual volta al giudizio di assoluzione in primo grado segua una riforma da parte del giudice di appello e l’affermazione di responsabilità dell’imputato a ciò può addivenirsi soltanto in seguito all’escussione della fonte testimoniale. Tuttavia il problema è solo in astratto facilmente risolvibile mentre in concreto lo è molto meno e l’applicazione del principio può portare a conclusioni tali da fare entrare in conflitto anche diversi orientamenti della stessa Corte europea.

E’ facile infatti rammentare che i procedimenti c.d. a teste unico fondamentale sono innanzi tutto quelli che hanno ad oggetto fatti di violenza di parti offese deboli e cioè reati di violenza sessuale, maltrattamenti in famiglia, lesioni in ambienti di lavoro, minacce e, soprattutto, estorsioni, usure etc.. In tutti questi casi, e soprattutto nelle violenze sessuali e nelle violenze intrafamiliari, la fonte di prova è costituita esclusivamente o nella stragrande maggioranza dei casi dalla sola parola della persona offesa che spesso pur avendo subito il fatto reato può non dimostrarne l’esistenza attraverso elementi di riscontro di segno diverso, del resto poco comuni in episodi di tal genere.

Orbene l’applicazione dei principi affermati nelle pronunce Dan contro Moldavia ed Hani contro Romania porta ad affermare che, conclusi con una sentenza assolutoria in primo grado, i detti procedimenti possono vedere ribaltata la pronuncia assolutoria solo a seguito della escussione della parte offesa in appello.

L’affermazione però oltre a non essere condivisibile entra in conflitto con altre asserzioni che mirano proprio a tutelare il teste vittima nel procedimento, impedendone o comunque sconsigliandone la sua ripetuta escussione. Si è detto al proposito che emerge con chiarezza la necessità di effettuare il bilanciamento tra il diritto dell’accusato a confrontarsi con la fonte delle accuse ed il diritto della vittima di essere protetta dal “processo”.

Nel caso S.N v. Sweden, del 2 luglio 2002, la Corte europea dei diritti dell’uomo, considerando un caso legato all’abuso sessuale di un minore di 10 anni, dove erano state effettuate due dichiarazioni in videoconferenza (una su richiesta della difesa), ha affermato: “la Corte ha avuto riguardo alle caratteristiche speciali dei processi penali concernenti le offese sessuali. Questi processi vengono spesso svolti in modo da rappresentare un’esperienza difficile per la vittima, in particolare quando quest’ultima è posta a spiacevole confronto con l’imputato. Queste caratteristiche sono spesso preminenti nei casi che riguardano i minori. Nel valutare se una persona accusata riceva o meno in tali processi un trattamento di ‘giusto processo’, deve essere anche tenuto in considerazione il rispetto per la vita privata della presunta vittima. Quindi, la Corte accetta che, nei processi penali riguardanti gli abusi sessuali, certe misure per la protezione della vittima possano essere prese, garantendo che tali misure possano essere allineate con un adeguato ed effettivo esercizio dei diritti della difesa”.

E però a proposito di valore probatorio delle dichiarazioni della vittima testimone la Corte europea ha avuto modo ripetutamente di stabilire il principio che compressioni significative del diritto di difesa possono essere accettate soltanto a condizione che l’eventuale condanna non sia basata esclusivamente su dichiarazioni predibattimentali rese da soggetto che non è stato controinterrogato dalla difesa.

Si esprime in tali termini, P.S. v. Germany del 20 dicembre 2001, affermando l’incompatibilità con l’art. 6 di una condanna fondata in via esclusiva o in maniera determinante su dichiarazioni rese prima del dibattimento da chi non sia stato sottoposto ad esame dibattimentale a causa della sua vulnerabilità (in quanto minore), con la precisazione che potrebbe risultare peraltro legittima l’adozione di specifiche modalità di acquisizione probatoria idonee a tutelare contemporaneamente sia il diritto di difesa dell’imputato, sia la salute e la privacy del dichiarante.

Appare pertanto evidente che il contemperamento degli opposti interessi si profila di difficile realizzazione ed ancora più con riguardo allo svolgimento del giudizio di appello avverso decisione assolutoria nel corso del quale una rigorosa applicazione dei principi stabiliti dalla Corte EDU nelle pronunce in precedenza esaminate può determinare una rivittimizzazione della parte offesa la cui escussione diviene obbligatoria.

E ciò si badi bene non per garantire il contraddittorio sulla prova d’accusa, già assicurato in primo grado, bensì in virtù del principio di immediatezza, inteso ora quale obbligatorio contatto tra il giudice della condanna e la prova sulla quale tale affermazione di responsabilità è basata.

In un più recente intervento anche a seguito di clamori suscitati in altri paesi europei sulle modalità di intervento della Corte EDU nella regolamentazione dei procedimenti penali, l’orientamento sembra essersi assestato su principi più “duttili” quanto all’utilizzazione delle dichiarazioni predibattimentali rese dalla parte offesa. Invero è intervenuta la Grande Camera, con la pronuncia resa il 15 dicembre 2011, nei casi Al Khawaja c. Regno Unito e Tahery c. Irlanda del Nord nei quali si è affermato che pur ribadita la necessità che la mancata escussione del testimone nel contraddittorio davanti al giudice chiamato a decidere deve fondarsi su un motivo serio e riaffermata la regola che non si debba trattare di prova unica e determinante la condanna, tuttavia, l’assunzione di una testimonianza determinante cui la difesa non ha potuto partecipare non può ritenersi determinare una automatica violazione dell’art.6, paragrafo 1, della CEDU, occorrendo un esame più rigoroso della procedura, per verificare l’esistenza di solide garanzie processuali e l’esistenza di elementi che compensino le difficoltà connesse all’ammissione, accertando altresì che le garanzie siano state concretamente applicate al caso 13.

Concludendo sul punto non può che evidenziarsi l’atteggiamento “ondeggiante” della Corte EDU che da un lato cerca di assicurare il contraddittorio in ogni fase del processo ritenendo che un aspetto di esso sia l’immediatezza tra il giudice della condanna e la prova a carico e dall’altro non può negare che la tutela dei diritti della persona vittima del reato impongono limitazioni alla sua riaudizione nelle varie fasi processuali pena una rivisitazione negativa delle fasi del delitto da parte della stessa ed in sostanza una sua rivittimazione, figlia del sistema procedurale che si vuole imporre.

Certamente il tema è foriero di nuovi sviluppi e però non può mancare di osservarsi che tutte le disposizioni sull’anticipazione della prova in sede di incidente probatorio appaiono a rischio se confrontate con il rigido e rigoroso orientamento secondo cui il giudice di appello investito della sentenza assolutoria su gravame dell’accusa deve sempre procedere all’escussione della prova fondamentale orale ove intenda concludere per la condanna, con conseguenze che possono determinare il sacrificio di quegli interessi della vittima-testimone che proprio il ricorso all’anticipazione della prova alla fase delle indagini preliminari intende tutelare.

Si pensi alle vittime delle organizzazione criminali; ai soggetti passivi dei reati di estorsione o usura che un’accorta scelta investigativa può avere portato a sentire in incidente probatorio; bene ove il giudice di primo grado concluda per l’assoluzione dell’imputato il gravame del p.m. potrà svolgersi solo mediante l’obbligatoria audizione dello stesso testimone in fase di appello.

L’adozione al criterio interpretativo della CEDU non è perciò senza conseguenze ed appare assai discutibile che per affermare la responsabilità in grado di appello il giudice debba obbligatoriamente procedere ad escutere soggetti la cui audizione è, invece, vivamente sconsigliata e ciò solo per assicurare il rapporto diretto tra chi decide e la fonte probatoria, principio che solo a viva forza può essere ricondotto al diritto di difesa, già pienamente esplicatosi nelle precedenti fasi di giudizio con l’assunzione della stessa prova in contraddittorio.

1http://www.magistraturademocratica.it/mdem/qg/doc/Cedu_sentenza_Dac_c_Moldavia_5_luglio_2011.pdf

2Ed in motivazione la stessa pronuncia della Corte di Strasburgo aggiunge e precisa:” Tornando ai fatti del presente caso, la Corte osserva che le principali prove contro il ricorrente erano le dichiarazioni testimoniali secondo cui egli aveva sollecitato una tangente e l’aveva ricevuta in un parco. Il resto delle prove erano prove indirette che non potevano condurre da sole alla condanna del ricorrente…. Pertanto le testimonianze e il peso dato a esse era di grande importanza per la determinazione del caso. Il Tribunale di primo grado ha assolto il ricorrente perché esso non ha creduto ai testimoni dopo averli uditi personalmente. Nel riesaminare il caso, la Corte d’Appello ha dissentito dal Tribunale di primo grado sulla attendibilità delle dichiarazioni dei testimoni dell’accusa e ha condannato il ricorrente. Nel far ciò, la Corte d’Appello non ha udito nuovamente i testimoni ma si è semplicemente basata sulle loro dichiarazioni come verbalizzate agli atti. Visto quanto è in gioco per il ricorrente, la Corte non è convinta del fatto che le questioni che dovevano essere determinate dalla Corte d’Appello quando essa ha condannato il ricorrente e gli ha inflitto una pena – e facendo ciò ribaltando la sua assoluzione da parte del Tribunale di primo grado – avrebbero potuto, in termini di equo processo, essere esaminate correttamente senza una diretta valutazione delle prove fornite dai testimoni dell’accusa. La Corte ritiene che coloro che hanno la responsabilità di decidere la colpevolezza o l’innocenza di un imputato dovrebbero, in linea di massima, poter udire i testimoni personalmente e valutare la loro attendibilità. La valutazione dell’attendibilità di un testimone è un compito complesso che generalmente non può essere eseguito mediante una semplice lettura delle sue parole verbalizzate. Naturalmente, vi sono casi in cui è impossibile udire un testimone personalmente durante il processo perché, per esempio, egli o ella è deceduto/a, o per proteggere il diritto del testimone di non auto-accusarsi (vedi Craxi c. Italia (n. 1), n. 34896/97, § 86, 5 dicembre 2002). Tuttavia, non sembra che le cose stessero così in questo caso”.

3 04/06/2013 – Corte EDU – Hanu v. Romania; in http://www.camerepenali.it/public/file/newsletter/Newsletter%20OE/Newsletter%20straordinaria%208.07.2013%20-%20Corte%20EDU%204%20giugno%202013%20HANU%20c.%20Romania.pdf; in motivazione si aggiungeva:” Passando al caso di specie, la Corte rileva che è pacifico che il ricorrente sia stato assolto dal tribunale distrettuale, ma è stato in seguito condannato dalla Corte d’Appello e dalla Corte Suprema, nonostante nessuna di esse avesse direttamente escusso la sua testimonianza o raccolto qualsiasi altra prova direttamente. Anche se la Corte d’Appello ha consentito al ricorrente di fare una dichiarazione al termine dell’udienza , si deve rilevare che la Corte ha già rilevato che l’uso fatto di una tale opportunità non è sufficiente allo scopo dell’articolo 6 della Convenzione….. Pertanto, al fine di determinare se vi sia stata una violazione dell’articolo 6, deve essere effettuato un esame del ruolo di questi due livelli di giurisdizione e della natura dei problemi che sono stati chiamati a risolvere (v. Popa e Tănăsescu c. Romania………..). In primo luogo, la Corte rileva che le disposizioni del codice di procedura penale in vigore al momento dei fatti non richiedevano che la corte di appello si pronunciasse sul merito della causa, ma che essa aveva comunque la possibilità di farlo… Nel caso di specie, la Corte d’Appello si è avvalsa di questa possibilità e, basandosi unicamente sulla prova costituita dalle dichiarazioni del ricorrente e dei testimoni dinanzi al tribunale distrettuale, ha annullato l’assoluzione del ricorrente. Le questioni che la Corte d’appello ha esaminato al fine di decidere se il ricorrente era colpevole erano di una natura fattuale tale da giustificare un nuovo esame degli elementi di prova, soprattutto perché si trattava del primo giudice che pronunciava una sentenza di condanna nei suoi confronti…Inoltre, per quanto riguarda l’argomento del governo che né il ricorrente né il suo avvocato avevano chiesto espressamente alle giurisdizioni nazionali di sentire il ricorrente o di escutere i testimoni, la Corte rileva che il ricorrente ha basato il suo ricorso su questioni di diritto concernenti la mancata diretta escussione da parte della Corte di appello delle testimonianze e sul rifiuto dell’accusa di ammettere la registrazione su nastro relativa all’operazione di polizia nel fascicolo di causa (v. supra, punto 15). La Corte ritiene che il ricorrente abbia fornito ai giudici nazionali informazioni sufficienti per giustificare un nuovo esame degli elementi di prova, soprattutto dal momento che era stato assolto dal tribunale distrettuale. In ogni caso, la Corte ricorda che le corti nazionali hanno l’obbligo di adottare misure positive a tal fine, anche se il ricorrente non ha fatto richiesta (v. Danila c. Romania, n. 53897/00, § 41, l’8 marzo 2007 e Găitănaru, citata, § 34). Sembra quindi che quando hanno condannato il ricorrente né la Corte di appello, né la Corte Suprema abbiano fatto affidamento su alcuna nuova prova. Invece, hanno basato le loro decisioni sulle prove fornite dal ricorrente e sui testimoni sentiti nel procedimento dinanzi al pubblico ministero e al tribunale distrettuale. Tuttavia, quest’ultimo, dopo aver ascoltato i testimoni in persona, aveva ritenuto che nessuna delle prove costituiva la prova conclusiva della colpevolezza del ricorrente, e lo ha assolto (v. supra, punto 12). Anche se i giudici di appello avrebbero potuto, in linea di principio, dare la propria interpretazione degli elementi sottoposti dinanzi a loro, nel caso di specie il ricorrente è stato giudicato colpevole sulla base di testimonianze che erano state ritenute insufficienti dal tribunale distrettuale e avevano fondato la sua assoluzione. In queste circostanze, la mancata escussione da parte della Corte d’Appello dei testimoni in prima persona e il fatto che la Suprema Corte non ha cercato di porvi rimedio rinviando il caso alla Corted’Appello per un nuovo esame degli elementi di prova , ha sostanzialmente ridotto il diritti di difesa del ricorrente ( Destrehem c. Francia…) La Corte ribadisce che la sua giurisprudenza sottolinea che uno dei requisiti di un processo equo è la possibilità per l’imputato di affrontarei testimoni in presenza di un giudice che deve decidere la causa , perché le osservazioni del giudicesul comportamento e la credibilità di una certa testimone possono avere conseguenze per l’imputato.(cfr. PK c. Finlandia). Le considerazioni che precedono sono sufficienti per consentire alla Corte di concludere che, nel caso di specie , i giudici nazionali non sono riusciti a rispettare le esigenze di un processo equo. Poiché tali esigenze non sono state rispettate , la Corte ritiene che c’è stata una violazione dell’art. 6 & 1 della Convenzione”.

4 09/04/2013 – Corte Europea – Flueras v. Romania – Art 6 CEDU – Prova testimoniale e appello; La Corte ribadisce la necessità che le condanne in appello – qualora i giudici di secondo grado abbiano la piena congnizione del fatto e del diritto in ordine alla valutazione della responsabilità – debbano essere fondate su testimonianze orali e non cartolari. . La Corte di Strasburgo rileva che il diritto al processo equo è stato leso anche in assenza della richiesta dell’imputato di sentire nuovamente i testi. Tale misura doveva essere presa dai giudici di ufficio La Cour estime que la juridiction de recours était tenue de prendre d’office des mesures positives à cette fin, même si le requérant ne l’avait pas sollicitée expressément en ce sens; affermazione che testualmente tradotta sta a dire che la Corte Europea ritiene che la giurisdizione di appello è tenuta ad assumere di ufficio misure positive al fine di procedere all’assunzione diretta delle prove orali anche se il ricorrente non ha effettuato alcuna sollecitazione in tal senso.

5 05/03/2013 – Corte EDU – Manolachi v. Romania; in motivazione:” La Cour observe que lorsque la cour d’appel et la Haute Cour ont substitué une décision de condamnation à la décision initiale d’acquittement, elles ne disposaient d’aucune donnée nouvelle. La jurisprudence de la Cour souligne à cet égard que la possibilité pour l’accusé de se confronter avec un témoin en la présence du juge appelé à statuer en dernier lieu sur l’accusation est une garantie d’un procès équitable, dans la mesure où les observations du juge en ce qui concerne le comportement et la crédibilité d’un témoin peuvent avoir des conséquences pour l’accusé. Pour autant que le Gouvernement souligne le fait que le requérant n’a pas demandé son audition ni celle des témoins, la Cour estime que la juridiction de recours était tenue de prendre d’office des mesures positives à cette fin, même si le requérant ne l’avait pas sollicitée expressément en ce sens (Dănilă, § 41 et Găitănaru, § 34, précités). En tout état de cause, la Cour note que l’on ne saurait reprocher au requérant un manque d’intérêt pour son procès

6 Recchione, La rivalutazione in appello della testimonianza “cartolare”: la posizione della Corte di Strasburgo e quella della Cassazione a confronto; in www.penalecontenmporaneo.it

7 Cass. Sez. 5, Sentenza n. 38085 del 05/07/2012 Ud.  (dep. 02/10/2012 ) CED 253541; In motivazione, la Corte ha rilevato che l’art. 6 CEDU, così come interpretato dalla sentenza della Corte europea dei diritti dell’Uomo del 5 luglio 2011, nel caso Dan c/ Moldavia, impone di rinnovare l’istruttoria soltanto in presenza di due presupposti, assenti nell’ipotesi in trattazione, quali la decisività della prova testimoniale e la necessità di una rivalutazione da parte del giudice di appello dell’attendibilità dei testimoni. Seppure quindi si è implicitamente affermata l’applicabilità del principio introdotto dalla CEDU se ne sono con evidenza limitati gli effetti stabilendosi che l’obbligo di rinnovazione della prova sussisterebbe solo quando la prova orale contestata ed oggetto di giudizio di attendibilità difforme da quello espresso dal primo giudice che pure la ha direttamente assunta sia l’unica posta a fondamento dell’affermazione di responsabilità; obbligo quindi che corrispondentemente non sussiste quando soccorrano altri elementi di prova (documenti, intercettazioni, etc.) che confermino l’esattezza e correttezza della valutazione compiuta dal giudice di appello.

8Cass. Sez. 6, Sentenza n. 16566 del 26/02/2013 Ud.  (dep. 12/04/2013 ) CED 254623

9 Cass. Sez. 5, Sentenza n. 28061 del 07/05/2013 Ud.  (dep. 26/06/2013 ) CED 255580, che precisa in motivazione come:” La violazione dell’art. 6 della Convenzione Europea dei diritti dell’Uomo (così come interpretato dalla sentenza della Corte europea dei diritti dell’Uomo del 5 luglio 2011, nel caso Dan ci Moldavia) non può essere ignorata, alla stregua della pronuncia delle Sezioni Unite di questa Corte di legittimità (ordinanza n. 34472 del 19.4.2012, Ercolano, Rv. 252933, secondo la quale “Le decisioni della Corte EDU che evidenzino una situazione di oggettivo contrasto – non correlata in via esclusiva al caso esaminato – della normativa interna sostanziale con la Convenzione EDU assumono rilevanza anche nei processi diversi da quello nell’ambito del quale è intervenuta la pronunzia della predetta Corte internazionale”) e della sentenza della Corte costituzionale del 7 aprile 2011, n. 113 (che, nel dichiarare l’illegittimità costituzionale dell’art. 630 c.p.p. ha ribadito che le norme della CEDU, nel significato loro attribuito dalla Corte europea dei diritti dell’uomo, integrano, quali “norme interposte”, il parametro costituzionale espresso dall’art. 117, primo comma, Cost., nella parte in cui impone la conformazione della legislazione interna ai vincoli derivanti dagli “obblighi internazionali”; nello stesso senso si sono espresse le sentenze n. 1 del 2011; n. 196, n. 187 e n. 138 del 2010. Nelle prime decisioni di questa Corte, successive alla sentenza della Corte EDU, si è precisata la portata del principio affermato nel caso Dan c/ Moldavia. Così in una decisione di questa Sezione (Sez. V, n. 38085 del 5 luglio 2012, dep. il 2 ottobre 2012, Luperi Rv. 253541), che ha dichiarato manifestamente infondata l’eccezione di legittimità costituzionale dell’art. 603 c.p.p., per carenza del requisito di rilevanza, si è osservato che la violazione dell’art. 6, par. 1, CEDU, con riferimento al giudizio di appello, è ancorata “al duplice requisito della decisività della prova testimoniale e della rivalutazione di essa da parte della Corte di appello, in termini di attendibilità, in assenza di nuovo esame dei testimoni dell’accusa per essere la diversa valutazione di attendibilità stata eseguita non direttamente, ma solo sulla base della lettura dei verbali delle dichiarazioni da essi rese”; tali requisiti non ricorrevano nel caso esaminato. In altra decisione della Sesta Sezione (Sez. 6, n. 16566 del 26/02/2013, Caboni, Rv. 254623) si è affermato che “Il giudice di appello per riformare in peius una sentenza assolutoria è obbligato – in base all’art. 6 CEDU, così come interpretato dalla sentenza della Corte Europea dei diritti dell’uomo del 5 luglio 2011, nel caso Dan c/Moldavia – alla rinnovazione dell’istruzione dibattimentale solo quando intende operare un diverso apprezzamento di attendibilità di una prova orale, ritenuta in primo grado non attendibile”; il principio è stato ritenuto poi applicabile anche in caso di giudizio definito in primo grado con rito abbreviato (Sez. 3, n. 5854 del 29/11/2012, R., Rv. 254850). La decisione della Sesta Sezione ha osservato che la Corte EDU ha affermato una regola non assoluta, perché la rinnovazione della prova orale deve avvenire “in linea di massima”, poiché “generalmente’ la semplice lettura non risolve il compito complesso di valutazione della attendibilità del testimone. In altri termini, il giudice di appello, per disporre condanna, è tenuto a raccogliere nuovamente la prova innanzi a sé per poter operare una adeguata valutazione di attendibilità intrinseca, che può conoscere eccezione solo in casi particolari (nella sentenza si fa l’ipotesi dell’evidente errore del primo giudice che, per esempio, ritenga la testimonianza falsa, perché nega una circostanza che il giudice erroneamente ritenga vera o viceversa).

10Cass…Sez. 3, Sentenza n. 5854 del 29/11/2012 Ud.  (dep. 06/02/2013 ) CED 254850

11Si afferma infatti nella suddetta pronuncia che:” Vale ricordare che anche la CEDU (da ultimo Terza Sezione nel caso Dan c/Moldavia; ricorso n. 8999/07) è orientata nel senso la riforma di una sentenza assolutoria debba tendenzialmente seguire ad un esame diretto degli elementi di prova da parte del giudice di appello, con l’ovvio limite della impossibilità di ripetere l’atto. Nella specie nulla avrebbe impedito, tra l’altro, un nuovo esame dei testi proprio per la riconosciuta possibilità per il giudice di appello di procedere alla rinnovazione degli atti consente di ritenere possibile l’applicazione del principio anche nel caso di rito abbreviato” Cass…Sez. 3, Sentenza n. 5854 del 29/11/2012 cit.

12 E’ nota la giurisprudenza della corte di cassazione (Cass. Sez. Un. 19 luglio 2012 n. 41461 CED 253214) sul punto e secondo cui: le regole dettate dall’art. 192, comma terzo, cod. proc. pen. non si applicano alle dichiarazioni della persona offesa, le quali possono essere legittimamente poste da sole a fondamento dell’affermazione di penale responsabilità dell’imputato, previa verifica, corredata da idonea motivazione, della credibilità soggettiva del dichiarante e dell’attendibilità intrinseca del suo racconto, che peraltro deve in tal caso essere più penetrante e rigoroso rispetto a quello cui vengono sottoposte le dichiarazioni di qualsiasi testimone; si tratta di un tradizionale orientamento che segue plurime affermazioni secondo cui: la testimonianza della persona offesa costituisce una vera e propria fonte di prova sulla quale può essere anche esclusivamente fondata l’affermazione di colpevolezza dell’imputato, a condizione che sia intrinsecamente attendibile e che di ciò si dia adeguata motivazione (Cass. Sez. III, 3 maggio 2011 n. 28913 CED 251075)

13 Diffusamente in motivazione la Grande Camera afferma:” L’art. 6 § 3 (d) stabilisce che, prima che un imputato possa essere condannato, tutte le prove contro di lui devono essere presentate alla sua presenza in una pubblica udienza, con la possibilità di presentare delle controprove. Questo principio ammette delle eccezioni, che però non devono diminuire le garanzie della difesa. Pertanto, l’imputato deve essere messo in condizione d’interrogare ogni testimone a suo carico, quando questo rilascia le sue dichiarazioni oppure anche in una successiva fase del procedimento. Da questo principio generale derivano due corollari. Innanzitutto, devono sussistere delle buone ragioni per ammettere in giudizio le dichiarazioni di un testimone assente. La decisione può essere giustificata, per esempio, quando il testimone è deceduto prima del processo, o è stato intimidito dall’accusato (in quest’ultimo caso, è come se questi avesse rinunciato ai diritti che l’art. 6 CEDU gli assicura). Se l’assenza del testimone, invece, è dovuta a una generica paura di essere esaminato in giudizio, comunque non cagionata direttamente o indirettamente dall’imputato, spetta al giudice condurre delle indagini appropriate per verificare se ci sono delle ragioni oggettive che giustificano questo timore. In secondo luogo, una condanna basata solamente o prevalentemente sulle dichiarazioni di un testimone assente che l’accusato non ha avuto alcuna possibilità d’interrogare, durante le indagini o al processo, deve considerarsi in via generale incompatibile con i requisiti di un giusto processo, quali stabiliti dall’art. 6 CEDU (c.d. «sole or decisive rule»). Questa regola non è assoluta e non deve essere applicata prescindendo dalle peculiarità dei vari ordinamenti nazionali, perché questo contrasterebbe con l’approccio tradizionalmente adottato dalla Corte rispetto alla valutazione dei processi nazionali, basato sulla necessità che gli interessi della difesa, della vittima, dei testimoni e l’interesse pubblico all’amministrazione della giustizia siano adeguatamente bilanciati. Di conseguenza, anche se la prova unica o comunque decisiva a carico dell’imputato consistesse in una testimonianza de relato, ciò non comporterebbe automaticamente una violazione dell’articolo 6 CEDU. Allo stesso modo, se una condanna è stata basata in modo esclusivo o prevalente sulle dichiarazioni di un testimone assente al processo, la Corte europea ha il compito di valutare nel dettaglio come il procedimento si sia svolto. Certamente, considerati i pericoli derivanti dall’ammissione di una simile prova, occorre che vi siano elementi altrettanto forti e garanzie procedurali altrettanto salde che bilancino lo svantaggio arrecato alla difesa. Il punto, in ciascun caso, diviene quindi valutare se alla difesa sono stati offerti strumenti adeguati per controbattere, mettendo in discussione la credibilità delle dichiarazioni lette durante il processo.

Pardo Ignazio

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