I dubbi vantaggi dell’aziendalismo sanitario di fronte all’ineludibile processo di scelta delle priorita’

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Sommario: 1) L’irresoluta quaestio dei disavanzi di bilancio. 2) La discutibile equazione: prestazione assistenziale uguale processo produttivo. 3) Il direttore generale tra la quota capitaria del cittadino e la volatilità degli interessi politici. 4) Il tempo delle scelte in sanità: un approccio comparato. 5) Una nuova prospettiva: il ruolo degli economisti sanitari nella definizione di una teoria fondamentale.
 
 
 
Il lungo cammino dell’aziendalismo avrebbe dovuto portare alla coincidenza tra responsabilità manageriale e recupero di efficienza del sistema. Senza voler dar corpo a riflessioni di retroguardia, è oggi legittimo avanzare qualche dubbio sui vantaggi dell’aziendalismo sanitario come strumento per produrre qualità e contrazione di spese, dal momento che affidare la sanità alla concorrenza e agli automatismi del mercato significa rafforzare ulteriormente la domanda. L’intento di queste pagine non è quello di discutere l’importanza della valutazione economica dei programmi sanitari, tanto meno di negare l’esistenza di una dimensione economica nell’ambito della tutela della salute, ma di sottolineare che il valore dei sistemi sanitari non è un valore solo economico, e che è azzardato derivare l’efficacia di un sistema di assistenza (la sua capacità di affrontare e risolvere i problemi di salute delle persone), dalla sua efficienza, cioè dall’utilizzazione ottimale delle risorse. Per rendere sostenibile la spesa è tempo di scegliere, ordinare secondo priorità, decidere quali prestazioni meritano di essere erogate con fondi pubblici e in che ordine di precedenza. Il ricorso alla scienza dell’economia sanitaria può contribuire all’affermazione del principio della responsabilità e della condivisione ed a sviluppare sempre più la cultura della scelta.
 
 
 
            L’irresoluta quaestio dei disavanzi di bilancio
 
Le riforme sanitarie varate negli anni ’92 e ’93 comportavano, rispetto all’impianto solidaristico espresso nella legge 833, un profondo riordino in senso aziendalistico del sistema sanitario nazionale. Nel ’99 la riforma Bindi, con l’istituzione dell’atto aziendale di diritto privato e del collegio di direzione, riproponeva ancora più incisivamente il ruolo imprenditoriale delle aziende sanitarie, affidando ulteriori poteri decisionali ai direttori generali.
L’idea era quella di “mettere a reddito” la sanità, facendo agire le leggi di mercato e le regole del management per recuperare efficienza, articolando il sistema sanitario nazionale in aziende, cioè in organizzazioni di persone che agiscono secondo principi di razionalità economica; ma, nonostante le tre riforme sanitarie aziendaliste citate, l’equilibrio tra costi e risultati non è stato per ora raggiunto, né il mercato sembra costituire una macchina di progresso nel soddisfacimento dei bisogni di salute. Anzi, la massa critica di equivoci, nodi irrisolti e sassolini nell’ingranaggio dello strano incontro economia-sanità non ha solo stravolto l’originale impianto concettuale alla base della riforma (diritto alla salute, partecipazione dei cittadini, prevenzione delle malattie, ecc.), ha sottoposto le aziende sanitarie ad una forzatura imprenditoriale asfissiante: il pareggio di bilancio sembra costituire l’obiettivo primario del sistema.
Il lungo cammino dell’aziendalismo avrebbe dovuto portare alla coincidenza tra responsabilità manageriale e recupero di efficienza del sistema (fare più interventi, di qualità, spendendo di meno) e di efficacia (fare gli interventi giusti) attraverso una stretta condivisione di obiettivi e un ferreo coordinamento operativo tra tutti i gangli del sistema. A ben vedere, siamo molto lontani dalla realtà. In molte circostanze, l’efficienza è diventata nemica dell’efficacia. Arbitrarietà gestionali, imperscrutabilità di strategie, essoterismo di programmi nati troppo lontano dalle trincee della medicina hanno portato gli operatori dei servizi sanitari ad uno scenario di abbattimento spirituale, al decadimento delle risorse umane, cioè del vero “capitale sociale” di un sistema il cui prodotto finito si identifica con la prestazione stessa; alla diffidenza da parte di un pubblico che avverte il disaccoppiamento tra i propri interessi e quelli di un sistema oggi più lontano, ma non meno inefficiente, congestionato, dispensatore di sprechi e di sempre presunta “malasanità”. Buon ultimo in ordine di tempo, si è rovesciato sul mondo della sanità il cumulo dei problemi legati al federalismo, con l’incombente minaccia (più che realistica) di un futuro prossimo gravato da squilibri contributivi, sofferenze finanziarie e derive pauperistiche di regioni che avranno difficoltà a sbarcare il lunario.
La storia recente del nostro servizio sanitario ci insegna che il più netto recupero di funzionalità della rete ospedaliera è avvenuto prima degli anni ’80, cioè ben prima dell’idea della aziendalizzazione. Gli indicatori di quel periodo testimoniano un chiaro incremento di efficienza espressa dagli indici di degenza media, di occupazione dei letti, di case-flow (Venanzoni, 1994). I guadagni di efficienza degli anni successivi sono stati, al confronto, del tutto marginali. Il recupero delle risorse consentiva un’enorme estensione dell’assistenza sanitaria: negli anni ’50 solo la metà degli italiani aveva diritto all’assistenza gratuita; nel 1960 ancora il 15% ne era sprovvisto. Il servizio sanitario nazionale, istituito nel 1978, estendeva l’assistenza pubblica alla totalità della popolazione, diminuiva gli squilibri territoriali, dava impulso alla prevenzione e alla medicina del territorio. Negli anni successivi, il cumulo di inefficienze, velleitarismi e vischiosità burocratiche motivava un drastico intervento “risanatore” del sistema, un profondo mutamento dei meccanismi di funzionamento e degli assetti istituzionali. Purtroppo, a dispetto degli intendimenti di comprimere la spesa pubblica tramite l’aziendalizzazione dei servizi di assistenza, nel corso degli anni ’90 si ripresentava puntualmente l’annoso problema dei disavanzi di bilancio delle unità sanitarie locali: il deficit annuale era pari a 6.500 miliardi del vecchio conio prima delle riforme aziendalizzanti, tale e quale è rimasto successivamente.
Ma non è affatto vero che “i conti della sanità sono fuori controllo”: la realtà è che un servizio sanitario moderno costa, e molto. Nel 1999 quello italiano è stato giudicato, stando ai criteri dell’indice di efficacia globale dell’Organizzazione mondiale della sanità, al secondo posto nel mondo. L’Inghilterra si trova al diciottesimo posto, la Germania al venticinquesimo, gli Stati Uniti al trentasettesimo. Spendiamo per la salute 1.855 dollari per abitante, contro i 2.369 della Francia, i 2.713 della Germania e i 4.187 degli Stati Uniti. In altri servizi pubblici, ad esempio i trasporti, non stiamo nelle stesse posizioni, rispetto alla media europea. Nonostante ciò, ha preso corpo una sfiducia crescente nei confronti delle risorse interne del sistema che ha motivato tre riordini nel giro di dieci anni, seguiti da un corollario stupefacente di provvedimenti legislativi e deliberativi, quasi un voler ripartire da zero.
 
 
            La discutibile equazione: prestazione assistenziale uguale processo produttivo
 
Il trasferimento dei canoni dell’aziendalismo al mondo delle cure ha diffuso un equivoco di fondo, l’equazione: prestazione assistenziale uguale processo produttivo. La medicina non è, né può essere assimilata ad un’azienda, né la tutela della salute delle persone può essere affidata alle leggi di mercato. La medicina è un mondo assai più vasto, ricco e caldo di quello di un’azienda, richiede altri orizzonti di pensabilità. Sottrarsi alla complessità dell’argomento rifugiandosi in semplificazioni economicistiche, facendo agire un pensiero calcolante-quantitativo, porta alla confusione della medicina (che cura) con la sanità (che organizza le cure) (Cavicchi, 2001). Di finanziare un sistema di assistenza in linea con gli standard europei, questo almeno per qualche anno ce lo possiamo permettere. Il problema non è la sostenibilità economica né la protocollizzazione delle procedure, ma la complessità dei bisogni. Il problema è trovare gli strumenti in grado di promuovere realmente la salute e il benessere delle persone nelle società post-industriali, gestire ciò che è diventato un inafferrabile labirinto di percezioni, significati, ribollimenti, definizioni, ciò che ha “…una dimensione presente e una dimensione sfuggente, un sistema complesso ecologico e personale…” (Nordio, 2001).
E’ solo tra qualche anno che la questione meramente economica diventerà esplosiva. Diciamo tra una decina di anni, allorché le determinanti della spesa sanitaria di lungo periodo si porteranno via non meno del 10-15% del Pil. O nel 2040, quando gli analisti prevedono che le spese per la sanità arriveranno a erodere circa il 30% dell’intero bilancio. Dal momento che con il federalismo fiscale le regioni non potranno più contare sui trasferimenti dell’erario, l’alternativa sarà l’inasprimento fiscale o la drastica potatura dei servizi garantiti dal Ssn (a quel punto sarà molto difficile continuare a parlare di “Fondo di solidarietà interregionale” o di flussi di perequazione).
Di fronte al cumulo di problemi già operanti o incombenti, l’orientamento liberista ripete come una mantra la necessità di stimolare l’efficienza del sistema (“più mercato nella sanità”), promovendone la concorrenzialità. Eppure, a dispetto dei molteplici rivolgimenti istituzionali e della rifondazione in senso economicistico dei servizi sanitari, quella che sembra cambiata è più la forma che la sostanza dell’assistenza: grande sventagliamento di procedure e norme, diffuso uniformarsi a correttezze procedurali, conformità formali di canoni europei, esplosioni di controlli e rendicontazioni. Tramontata la spinta propulsiva dei programmi sanitari di lotta alle malattie portata avanti con la riforma del 1978, tramontate le politiche sanitarie “alte” – forse troppo – di promozione della salute, l’era dell’aziendalismo ci sta conducendo in una fase di convivenza, ad un punto di equilibrio tra sistema sanitario e malattia. Per assicurare un livello garantito di consumo sanitario è necessaria la circolazione di un numero critico di atti sanitari e di medicine, costituendo ciascuna malattia una linea di investimento, con un indotto in termini di attività di ricerca e di già negoziati finanziamenti per programmi di prevenzione (Grillo, 2001). Un sistema sanitario tendenzialmente inerziale che, vivendo di fatturato, è costretto ad un pareggio di bilancio convivendo con le malattie, a stabilire una divaricazione, un conflitto di interessi tra valore aggiunto sociale (tutela sanitaria reale nei confronti della cittadinanza) e valore aggiunto aziendale (consumo ottimizzato di materiale sanitario). Un sistema in cui l’ipocondriaco ansioso che consuma una quantità enorme di prodotti sanitari sembra possa produrre ricchezza. Un sistema che non incide su fenomeni vasti tragicamente attuali (incidenti automobilistici, inquinamenti ambientali, nomadismo,…). Un sistema in cui, tra breve, i bisogni sanitari (desideri, pretese, capricci?) espressi dalle persone saranno esauditi in base alle capacità tributarie delle singole regioni, sulla cui tenuta nel lungo periodo non pochi osservatori nutrono seri dubbi. In cui gli ospedali, divenuti da luoghi di cura presidi di offerta subordinati al gradimento dei cittadini, non disponendo di parametri di controllo affidabili in grado di rilevare la reale capacità di tutela della salute delle persone che vi si rivolgono, moltiplicano i controlli sull’aderenza dei processi interni a standard qualitativi procedurali (statali, regionali, ecc.), lasciando fuori da ogni contabilità situazioni comuni e diffuse fonte di grandi sofferenze (depressioni, anoressie, malattie cronico degenerative, ecc.), che non motivano atti sanitari inventariabili. Ieri come oggi, i soggetti alle prese con questi problemi sperimentano spesso la sovrana latitanza di ogni risorsa assistenziale: riordini, privatizzazioni, concorrenza e devoluzione di poteri non hanno impedito che sia stato loro semplicemente sottratto l’intero sistema sanitario nazionale.
 
Tab. 1 – I principali nodi al pettine del sistema sanitario
  • Affidare il servizio sanitario nazionale alle logiche del mercato senza una predefinizione dei bisogni di salute della popolazione, delle priorità e dei limiti di una politica sanitaria certa e condivisa (in grado di sostanziare la “mission” dell’istituzione) e senza disporre di una mappatura completa di piani sanitari regionali, costituisce una leggerezza progettuale, in grado di esporre il servizio pubblico al rischio di soddisfare non bisogni sanitari, ma esigenze/pretese di un pubblico sempre più orientato al consumo.
  • Difficile misurabilità del prodotto finale del sistema sanitario in termini di qualità intrinseca. Gli indicatori misurano la quantità media delle singole prestazioni, non la tempestività o la congruità degli interventi.
  • Ridefinizione incessante del quadro normativo, a fronte di scarsi programmi strategici di largo respiro e investimenti a lungo termine.
  • Prestazione assistenziale = processo produttivo: questa equazione non è scontata. I tentativi di monetizzare le prestazioni sono sempre imprecisi: non è rendicontabile in dettaglio il costo di produzione del bene-salute. Quanto “vale” (quanto rende) il dialogo con i genitori di un bambino malato? Quanto le direttive relative all’igiene, il sostegno psico-sociale alle famiglie multirischio, il counseling, le operazioni preventive?
  • Mercato sanitario: è un vero mercato? Concorrenza, produttività, efficienza possono risultare concetti ambigui all’interno di un sistema che non ha precisato i confini del bilancio economico e del bilancio sociale.
  • Finanziamento a prestazione: la lodevole intenzione di abbandonare il finanziamento a piè di lista della “spesa storica” che incentivava l’immobilismo e ripianava gli sprechi, si scontra con la difficoltà di remunerare la reale qualità delle prestazioni, anche utilizzando maggiorazioni tariffarie per gli istituti ad alta specializzazione.
  • Aziende sanitarie sempre più ripiegate su se stesse, sulla perfettibilità delle dinamiche di razionalizzazione interna suggerite dall’aziendalismo. Disinteresse per la verifica epidemiologica, per l’educazione sanitaria, la prevenzione, le “esternalità”. Aziende sempre più lontane dalla “catena del valore”, dal superamento dei conflitti di interesse.
  • La prevenzione non conviene, nell’ambito di un sistema di finanziamento che premia la malattia. Confusione tra il rapporto prestazioni/costi (efficienza) e il rapporto salute/costi (efficacia). Al punto che: più salute, più efficacia uguale minori entrate. Più efficienza, più prestazioni uguale maggiori entrate, più avanzi di gestione.
  • La maggiore ricchezza dell’azienda sanitaria sono i malati. Dovrebbe essere la salute; il valore aggiunto, la qualità degli operatori. Disaccoppiamento tra obiettivi di salute e obiettivi di chi lavora nell’azienda. Debole tradizione valutativa dei servizi sanitari. Difficoltà di individuare veri parametri di risultato (i risultati primari): efficacia sanitaria, miglior rapporto costi/efficacia, priorità, soddisfazione dei cittadini.
  • In nome di cosa si giudica un buon direttore generale, quando nessuno definisce qual è il “rischio d’impresa” o il “vantaggio competitivo”? Nonostante l’ampia delega manageriale, esiste una condizione di costante precarietà del ruolo, che può essere una pessima consigliera circa gli investimenti a lungo termine e l’allocazione delle risorse.
  • Pressioni e vincoli legati alla internazionalizzazione economica, scarsi dati sull’impatto effettivo delle riforme degli anni ’90, processi decisionali oscillanti tra ideologismi e tecnicalità, mancata depoliticizzazione delle Usl, ora Aziende sanitarie.
 
I sistemi di assistenza ispirati al liberismo sanitario – di solito viene preso ad esempio il modello degli Stati Uniti – sono caratterizzati da un sistema misto in cui il sistema statale è integrato da mutue private e assicurazioni di categoria. L’esperienza ha dimostrato che questi sistemi sono complessivamente meno efficienti, meno equi, gravati da enormi costi di transazione relativi al computo dei trasferimenti economici tra i vari enti, dei rimborsi dei soldi anticipati dai cittadini, delle contestazioni e delle vertenze (un’enorme massa di incombenze burocratiche che divora un terzo della spesa globale). Nell’insieme, il sistema statunitense assegna alla sanità il 13,5% del Pil, contro una media del 6-8% dei paesi a sistema statale, lasciando tuttora senza alcuna copertura assistenziale circa quaranta milioni di cittadini.
Come molti sistemi complessi, anche la sanità soffre di una crisi di produttività sempre più acuta: si paga sempre di più per ottenere benefici sempre più modesti in termini di salute. Il lavoro dei programmatori e dei valutatori della qualità e dell’efficienza dei servizi sanitari è sempre più complicato. In nome di che si giudica? In economia, è il mercato a determinare il punto d’incontro tra domanda e offerta di un bene: in medicina questo punto d’incontro è sottoposto a tremende leggi discorsive, indotte o inducibili dai produttori, dai consumatori, dai programmatori, dai gestori dei servizi. Spesso è l’offerta a influenzare la domanda (legge di Roemer: “un letto ospedaliero offerto è un letto occupato”). Il paziente-cliente-utente, e, tra poco, committente, nonostante lo sventagliamento dell’offerta è sempre meno libero nelle sue scelte, sottoposto a intense pressioni psicologiche in occasione di malattia o condizionato da scelte del medico curante o dei familiari. E, se anche fosse libero di scegliere, non avrebbe strumenti conoscitivi per scegliere la qualità intrinseca del prodotto, il servizio migliore o più adatto per il suo caso, e se “il prezzo è giusto” (Auconi, 2002).
 
 
            Il direttore generale tra la quota capitaria del cittadino e la volatilità degli interessi politici
 
Queste poche pagine vogliono essere una seminagione di dubbi sui vantaggi dell’aziendalismo sanitario come strumento per produrre qualità e contrazione di spese, dal momento che affidare la sanità alla concorrenza e agli automatismi del mercato significa rafforzare ulteriormente la domanda, creare un clima in cui è fondamentale la varietà dei prodotti offerti, in cui la molteplicità e perfino la stravaganza diventano un valore in sé, fino ad un uso strumentale delle nostre preoccupazioni di salute. Questa evoluzione manageriale sta rendendo l’aziendalizzazione in fine, non un mezzo per realizzare una migliore assistenza, nell’ambito di una società di individui che tendono a rifiutare la socializzazione dei rischi, a identificare i malati alla stregua di “oneri” a carico di chi è impegnato attivamente nel ciclo produttivo (Becattini, 2002).
L’intento di queste riflessioni non è quello di discutere l’importanza della valutazione economica dei programmi sanitari, ma quello di ribadire che il valore dei sistemi sanitari non è un valore solo economico, e che è impossibile derivare l’efficacia di un sistema di assistenza (cioè la sua capacità di affrontare e risolvere i problemi di salute delle persone), dalla sua efficienza, vale a dire dall’utilizzazione ottimale delle risorse.
 
Tab. 2 – Cosa manca nella sanità
  • Sufficiente informazione sui livelli di salute della popolazione.
  • Esplicitazione chiara degli obiettivi di salute.
  • Preparazione specifica dei professionisti clinici e dei manager della salute circa i problemi da affrontare.
  • Comunicazione tra il sistema sanitario e coloro che beneficiano di esso e tra manager e addetti ai lavori. La carta di Lubiana recita: “uno dei principi che devono ispirare il processo di trasformazione dei servizi sanitari è che la voce e la scelta dei cittadini devono influenzare in maniera decisiva il modo in cui i servizi sanitari vengono progettati e funzionano”. Nella realtà i decisori della sanità sono sempre più lontani dai cittadini.
  • Meccanismi incentivanti: mancano nella pratica e sono più virtuali che reali.
  • Organismi autorevoli di technology assessment, per modificare atteggiamenti organizzativi, e giustificare scelte impopolari, mancano quasi dappertutto.
  • Chiara evidenza di efficacia di molte procedure. Difficoltà metodologiche specifiche per l’età infantile.
  • Le politiche sanitarie dipendono da altri fattori oltre le prove di efficacia: a) limitazioni economiche; b) economia locale; c) pressioni degli addetti ai lavori.
  • La salute della comunità non deriva solo dalle prestazioni erogate. La chiave dei problemi di salute delle società economicamente avanzate è sempre più socio-culturale e sempre meno medica. Le più frequenti cause di mortalità dei giovani adulti sono: incidenti automobilistici, overdose, Aids.
  • Difficoltà nella misurazione dell’attività in termini di risultati. Necessità di differenziare l’output (numero di casi trattati, numero di giornate di degenza, numero di prestazioni ambulatoriali) dall’outcome, cioè il risultato dell’attività in termini di effetto dell’intervento nelle condizioni di salute presenti e future del paziente. L’output è misurabile nel momento in cui termina l’attività, l’outcome ha bisogno di una valutazione di lungo periodo (Liberati, 1997).
 
In medicina, maggiore efficienza non significa necessariamente maggior efficacia. L’enfasi sulla ottimizzazione dei processi sanitari rimuove l’idea che ci sono fenomeni sociali dotati di impatto ben maggiore sulla salute delle persone. Per molti anni il medico ha semplicemente rifiutato ogni accenno all’analisi comparativa dei programmi sanitari, sia dal lato dei costi che delle conseguenze. Ogni giorno in Francia muoiono cinquanta persone a causa del tabacco, venticinque per incidenti stradali, trenta per incidenti domestici, trenta per suicidio (Martinetti, 2002). L’aziendalismo non può nulla nei confronti della nuova epidemiologia, degli stili di vita delle persone, tanto meno nei confronti dei fattori strutturali di incremento della spesa sanitaria, della lievitazione progressiva dei costi di produzione che sono tipici dei settori ad alto componente personale (Micossi et altri, 1999).
E poi, come valutare la produttività dei referenti generali di tutto il sistema, i direttori generali, alle prese con la continua revisione delle regole d degli scopi generali dell’assistenza, in assenza di chiari punti di partenza e di obiettivi stabili (se non autoassegnati dalle stesse aziende), o di metodiche di technology assessment? Dal pareggio di bilancio? Dalla non belligeranza con i politici locali o con la Conferenza con i rappresentanti degli enti locali? Dalla qualità dell’”orientamento al cliente”?
Con l’aziendalizzazione dei servizi sanitari, tramontata la collegialità degli anni ’80, si è realizzata un’inedita forma di “democrazia azionaria”: un’azionariato diffuso, costituito dai cinquantasei milioni di italiani portatori della propria “quota capitaria”. Questi ultimi avrebbero interesse a incrementare il proprio capitale di salute, a vivere in un ambiente non inquinato, a poter contare su strutture sanitarie capaci di intervenire in modo efficiente, in caso di necessità. Ora, il vertice dell’azienda sanitaria, il direttore generale, colui che ha la capacità di prendere decisioni (l’unico abilitato a farlo, attualmente), deve rendere conto delle sue azioni non agli azionisti (i cittadini), ma ai suoi referenti politici (gli assessorati regionali). Proprio come l’azienda che dirige, si trova in condizione di continua valutazione, sottoposto ad un monitoraggio costante. Impegnato a remunerare le risorse che l’ospedale impiega, a creare beni immateriali quali la soddisfazione degli utenti, a ottimizzare i processi di produzione, è esposto come piuma al vento ai cambiamenti di orientamento dell’amministrazione regionale tanto quanto ai capricci degli elettori. Costretto ad un continuo “pensare strategico”, dovrebbe guidare il difficile processo di selezione delle complessità, di continuo adattamento reciproco ospedale-ambiente esterno, di difficile ascolto dei bisogni di salute espressi e inespressi della popolazione. Nella sua dotazione si possono trovare volumi di management, problem solving, procedure reporting, audit, balanced score. Tutto inutile: il giudizio di scarsa produttività non uscirà dalla colonnina di un computer, ma dalla volatilità e dall’incessante oscillazione delle pulsioni e degli interessi delle politiche comunali, provinciali, regionali, nazionali.
D’altra parte, la perenne instabilità del sistema aziendale ha abituato gli addetti ai lavori, dal vertice alla base, a non dover necessariamente condividere con l’azienda orientamenti e scelte gestionali, a non doversi riconoscere in una stabile impostazione dei servizi. Sono nate aziende che non condividono il loro stesso sistema di valori, che hanno imparato ad oscillare tra scelte e interessi non maturati nel rapporto con gli utenti. Aziende inabilitate a progettare il futuro, ancorate a progetti immediati di budget e a ritorni economici rapidi quanto visibili.
Nell’era dei limiti, la destinazione delle risorse è una responsabilità politica che riflette il progetto etico-culturale di una società, non è una scelta tecnica. Tanto meno lo sarà nel prossimo futuro. In medicina l’eguaglianza ha un costo, l’equità distributiva va, in molti casi, a scapito dell’efficienza. Trovare il punto di equilibrio tra equità e efficienza è una scelta etico-politica, non una scelta tecnica. Opporsi alle richieste, esigenze, pretese di un pubblico sempre più orientato al consumo, che spesso preferisce spendere per benefici immediati rispetto a benefici futuri, è una scelta etico-politica.
La sanità è un’attività altamente simbolica di una società, è il centro di una organizzazione comunitaria, di altruismo, da cui riceviamo tante altre cose oltre alla salute: fiducia, coesione sociale, reciprocità, disponibilità a sostenersi vicendevolmente. Siamo tutti chiamati alle scelte di oggi, che influenzeranno la salute e il benessere degli adulti di domani.
 
 
Il tempo delle scelte in sanità: un approccio comparato
 
La coperta è diventata stretta e sono sempre più quelli che ne hanno bisogno. Se nessuno è disposto a pagare più imposte per la sanità, è inevitabile fare delle scelte. L’universalismo all’italiana consiste nell’erogare “un po’ di tutto a tutti”, comprese molte prestazioni di scarsa essenzialità o di dubbia efficacia.
Anche in sanità, come si diceva, è più che mai giunto il tempo delle scelte: come rendere compatibili i bisogni di salute, tendenzialmente illimitati, con le risorse scarse, raccolte tramite la fiscalità. In economia tale problema viene definito un problema di razionamento che si pone quando la domanda di beni di prima necessità risulta in eccesso rispetto alla produzione ed il prezzo non può funzionare (normalmente è appunto il prezzo che “raziona” i bisogni di chi non può o non è disposto a pagarlo). Non si sfugge dunque al problema della scarsità di risorse: se si spende di più per la sanità, vi saranno meno fondi per l’ambiente, l’istruzione e la giustizia.
La scarsità delle risorse è relativa: mai come oggi la nostra società ha potuto disporre di tanti mezzi per migliorare la durata e la qualità della vita. Ma la sproporzione tra desideri, aspettative e risorse rimane. In senso stretto, non esiste neppure un problema di razionamento (se mai esiste per i trapianti di organo), ma di scelta tra ciò che è essenziale e ciò che è superfluo. Sul carro di Tespi della sanità pubblica, nel corso degli anni, è stato caricato anche tanto ciarpame ed occorre buttare a terra ciò che non serve, prima che soccomba sotto il suo peso. Razionare significa scegliere, ordinare secondo priorità – non tagliare indiscriminatamente prestazioni per contenere la spesa. E’ tempo di decidere – secondo criteri espliciti e condivisi – quali prestazioni meritano di essere erogate con fondi pubblici e in che ordine di priorità.
In assenza di regole, in sanità il razionamento avviene comunque, sotto varie forme (ad es. dilazione, interruzione e diluizione dei servizi), a differenti livelli istituzionali e da parte di numerosi soggetti (medici, amministratori e politici), che seguono criteri personali, non necessariamente coincidenti con gli interessi e il benessere della collettività. Il razionamento in sanità è sempre esistito ed è presente in tutti i sistemi sanitari. Tuttavia, l’interesse politico attorno al tema delle priorità è maturato alla fine degli anni ’80, per i timori, da un lato, di una crescita incontrollata della spesa e, dall’altro, per l’avvio di riforme di tipo concorrenziale, che richiedevano una definizione ex lege delle prestazioni “essenziali” (basic package nei Paesi Bassi) da garantire a tutti. Da implicito e affidato in sostanza alla responsabilità dei medici – che decidono chi, come e quanto curare – il razionamento si è fatto esplicito e di competenza di politici e amministratori, che sono chiamati a pronunciarsi su chi ha diritto a cosa e in quale ordine di priorità.
Gli approcci seguiti dai paesi che hanno imboccato questa strada sono abbastanza diversi. Lo stato americano dell’Oregon, che ha fatto da apripista, volendo “tirare una linea” per stabilire quali trattamenti fossero compresi nel budget del Medicaid (assistenza ai poveri), ha compilato una lista di 587 trattamenti su 709, che potevano essere finanziati, sulla base di una valutazione dei costi per anno di vita guadagnato, aggiustato con la qualità, dei diversi trattamenti e di ordinarli secondo una graduatoria, fino ad esaurire il budget. Ma questo approccio economico, basato sull’analisi costo utilità, dovette essere in parte abbandonato, perché ancora troppo contraddittorio nei risultati. Fu sostituito da una classificazione degli interventi sanitari in 17 categorie (dai trattamenti che evitano la morte a quelli che migliorano solo marginalmente la qualità della vita).
Nei Paesi Bassi, in concomitanza con la riforma sanitaria, fu istituita una commissione tecnica con lo scopo di definire un pacchetto-base di prestazioni da garantire a tutti gli assicurati. La commissione fissò quattro criteri per vagliare i servizi da includere: essi devono essere necessari (dal punto di vista della comunità), efficaci, efficienti e non si possono lasciare alla responsabilità individuale. Nell’opinione della commissione, ad esempio, i servizi per la fertilizzazione in vitro non dovevano rientrare, mentre quelli per gli incidenti sportivi potevano stare nel pacchetto-base.
La Svezia ha seguito un approccio basato piuttosto sui principi etici, che sono: la dignità umana, il bisogno e la solidarietà, la costo-efficienza (ricerca di una ragionevole relazione tra costi ed effetti). Il principio della dignità umana ha precedenza su tutti gli altri, per cui non sono ammesse discriminazioni basate, ad esempio, sull’età, il peso alla nascita, lo stile di vita o le malattie autoinflitte.
In Italia finora il problema è stato eluso, ma il “caso Di Bella” ha mostrato quanto sia necessario compiere scelte esplicite. In ordine a questo, si dovrebbero intraprendere due operazioni di grande portata:
  • definire, una volta per tutte, le prestazioni “essenziali, efficaci, appropriate ed uniformi” – il pacchetto base – cui i cittadini hanno diritto;
  • individuare i criteri di priorità per l’accesso ai servizi, esplicitando i principi di giustizia distributiva che dovrebbero presiedere alle scelte.
Il primo passo da compiere è di “separare il grano dalla pula”: per entrare nella lista, una prestazione dev’essere innanzitutto efficace, efficiente ed appropriata – ciò che oggi spesso non avviene (se si esclude il caso dei farmaci). Le prestazioni del pacchetto-base dovrebbero inoltre essere necessarie o essenziali, rispettando un criterio allo stesso tempo tecnico e politico. Le prestazioni sono necessarie se presentano un “significativo” beneficio netto e se questo è “ragionevolmente” dimostrato sul piano scientifico. La discrezionalità politica sta nel valutare quanto “significativo” sia il beneficio netto: quanto più ridotto è il budget, tanto più si richiede di essere selettivi. La definizione di un pacchetto-base non è certo un’operazione facile e breve, ma l’esperienza americana dimostra che è fattibile.
La seconda operazione è stabilire dei criteri per conferire priorità alle prestazioni e ai soggetti che le richiedono (ad es. in lista d’attesa): è essenzialmente un’operazione di distribuzione dei benefici. Esistono diverse teorie a questo riguardo. Secondo l’egualitarismo, ogni individuo dev’essere trattato come uno ed in quanto essere umano, che ha una sua dignità, indipendentemente dall’età, dal sesso o da altre condizioni; secondo l’utilitarismo, dev’essere accordata priorità a chi maggiormente può beneficiare degli interventi sanitari e quindi a chi presenta il rapporto più favorevole tra costi e benefici; secondo il principio di differenza rawlsiano, devono aver priorità gli individui che sono in condizioni più svantaggiate e, quindi, in condizioni di salute peggiori. Nella pratica, i tre approcci distributivi sono spesso applicati in modo combinato (ad es. il terzo principio per ordinare gli interventi secondo la gravità, il secondo per individuare i beneficiari, il primo per le liste d’attesa).
Le scelte in sanità sono inevitabili, anche se non vi fossero problemi di contenimento della spesa, perché – alla fine – un impiego non ottimale delle risorse significa perdere inutilmente vite umane.
 
 
Una nuova prospettiva: il ruolo degli economisti sanitari nella definizione di una teoria fondamentale
 
Non c’è dubbio che l’esame condotto finora ha interessato soltanto problemi concreti ed attuali. E’ altrettanto incontrovertibile che nella prima parte di questo secolo un ruolo importante lo debbano rivestire gli economisti sanitari. L’economia sanitaria può essere considerata uno strumento culturale utile ed efficace per affrontare e risolvere il controverso rapporto che lega e divide il concetto di denaro da quello di salute e, soprattutto, per ricomporre la frattura ideologica che separa oggi la classe medica dal mondo della burocrazia e della politica. Credo che una profonda applicazione degli studiosi di economia sanitaria all’elaborazione di una teoria economica fondamentale nel campo sanitario rappresenti un contributo non soltanto strategico, ma imprescindibile, se vogliamo dare risposte convincenti in termini di sostenibilità finanziaria del nostro sistema sanitario nell’immediato futuro.
In gran parte ciò riguarda la distinzione tra il concetto economico standard di “domanda” e il molto più nebuloso concetto sociale di “bisogno”. La domanda è determinata dai desideri di ogni singolo individuo e dalla possibilità di pagare da parte di questi. Questi due fattori variano per importanza secondo il tipo di beni o servizi offerti. Così nel mondo occidentale, la domanda di pane è determinata principalmente da quanto ogni individuo sceglie di mangiarne, in proporzione ad altri cibi basilari alternativi, come patate e biscotti. Il prezzo relativo del pane, dei biscotti e delle patate è comparativamente non rilevante. D’altra parte, la domanda per i vestiti di alta sartoria è determinata prevalentemente dal numero di persone che possono e vogliono pagare per questa particolare forma di lusso. Qui i prezzi giocano una parte più importante nella determinazione della domanda.
Allo stesso modo, anche la natura della domanda di servizi sanitari può essere influenzata sia dal desiderio di ottenerli che dalla possibilità di pagarli, se si opera in una economia di mercato. Tuttavia, la maggior parte delle società ha deciso che la possibilità di pagare non debba più essere una condizione per ottenere servizi medici. Basandosi su questo principio sono stati istituiti sistemi di pre-pagamento come il Servizio Sanitario Nazionale Britannico o il “Medicare” negli Stati Uniti.
Ma, una volta che un servizio sia disponibile gratuitamente, la teoria economica standard non ha più valore. Non sono più i prezzi a determinare la domanda. La disponibilità di servizi medici spesso deriva da decisioni burocratiche piuttosto che da regole di mercato. E nel determinarne la disponibilità i burocrati tengono conto più dei bisogni che della domanda. Ora il problema in termini economici è che il bisogno è molto più difficile da definire che non la domanda. Nessuno avrà bisogno di pane, se al suo posto sono disponibili patate e biscotti. Certamente nessuno ha “bisogno” di vestiti di alta moda, in senso assoluto, anche se una signora che deve andare ad un importante ricevimento mondano può certamente sentire che il suo bisogno è assoluto per quel che le concerne. Perciò gli economisti devono cominciare a pensare in termini di bisogni relativi per quel che attiene i servizi sanitari, e devono cominciare a misurare i gradi di bisogno. Allo stesso tempo, se si deve tener conto dei valori umani e delle libertà personali, è impossibile ignorare completamente la domanda per quel che riguarda i servizi sanitari.
Su questo versante si stanno già verificando importanti cambiamenti. Mentre fino agli anni ’70 i medici erano considerati arbitri dei bisogni sanitari, viene ora riconosciuto che i pazienti possono capire meglio da soli quale forma di trattamento vogliano in realtà. Spesso può non essere il tipo di trattamento che darebbe i risultati “migliori” in termini medici. Ciò si ricollega alla misurazione della qualità di vita del paziente. L’obiettivo futuro dell’indagine economica deve tener conto del fatto che si dovrà raggiungere il massimo benessere dei pazienti, senza riguardo per quello che i medici considerano essere il meglio per loro. Questa supremazia del “cliente” – che è alla base di molte teorie economiche – è difficilmente accettabile da parte di una categoria professionale sostanzialmente autoritaria come quella medica. E, naturalmente, nell’economia sanitaria il principio della supremazia dell’individuo deve anche essere integrato in un sistema che massimizza il benessere dell’intera comunità. Tutto ciò fa sorgere difficili problemi filosofici che gli economisti dovranno affrontare a mano a mano che la loro professione si andrà sviluppando nel futuro.
 
 
 
 
 
 
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Franzoni Alessio

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