Danno da demansionamento: deve essere quantificato in maniera proporzionale alle competenze e all’esperienza lavorativa del lavoratore (Cass. n. 23530/2013)

Redazione 16/10/13
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Svolgimento del processo

Con sentenza non definitiva in data 17.1.2008 – 19.2.2009, la Corte d’Appello di Roma, disponendo con separata ordinanza per la prosecuzione del giudizio, rigettò il gravame incidentale proposto dall’A. spa avverso la pronuncia di prime cure che aveva accolto la domanda dell’ex dipendente S. W., volta al risarcimento del danno da dedotta dequalificazione professionale, asseritamene attuata ai suoi danni dall’ottobre 1996, quando era stato trasferito alla Direzione Centrale Progettazione Programmazione Studi e Rapporti, ove non aveva più svolto alcun incarico, fino alla cessazione del rapporto
lavorativo avvenuta nel luglio 2000. A sostegno del decisum la Corte territoriale ritenne di condividere, sul punto, la decisione impugnata (che aveva liquidato il danno in ragione di euro 83.084,30, oltre accessori), osservando che la prova della dedotta inattività del lavoratore e, quindi, della sua assoluta dequalificazione, era costituita da un documento proveniente dal Direttore centrale della divisione presso cui si era verificato il trasferimento e dalle risultanze della prova testimoniale, attesa la “assoluta impossibilità, da parte dei testi escussi, di riferire una sia pur minima attività in capo al ricorrente”; ritenne altresì la Corte territoriale la congruità e correttezza della liquidazione equitativa del danno effettuata dal Tribunale (metà dell’ultima retribuzione netta mensile per 45 mesi), tenuto conto della quantità dell’esperienza lavorativa pregressa (il lavoratore era stato assunto dall’A. sin dal 1966) [l’indicazione “1996”, contenuta in sentenza, è palesemente frutto di mero errore materiale, non essendo stata contestata la data di assunzione, 1968 appunto, indicata nel ricorso introduttivo], del tipo dì professionalità colpita (il lavoratore aveva maturato una lunga esperienza lavorativa presso Uffici periferici ed in varie Direzioni operative dell’Ente, rivestendo, sin dal 1987, la qualifica di Direttore Coordinatore e svolgendo incarichi di coordinamento di diverse unità di personale e di capo Ufficio), alla durata del demansionamento (45 mesi) e all’esito finale della dequalificazione (licenziamento del lavoratore).
In ordine alta suddetta sentenza non definitiva l’A. formulò riserva di ricorso per cassazione.
Con sentenza definitiva del 30.9.2010 – 3.2.2011, la Corte d’Appello di Roma, dopo avere disposto l’espletamento di CTU medico legale ed avere richiesto l’integrazione dell’indagine con specifico riferimento al nesso causate tra le patologie denunciate ed il rapporto di lavoro a far data dall’accertato demansionamento, in dichiarata adesione alle conclusioni dell’ausiliario, riconobbe al lavoratore il diritto alla liquidazione del danno biologico (quantificabile nella misura del 20%), che, nell’ambito della sua liquidazione personalizzata e tenuto conto della percentuale invalidante e dell’età del danneggiato, in base ai valori espressi netta tabella adottata dal Tribunale di Roma per l’anno 2009, fissò in euro 67.000,00 liquidati all’attualità, con la spettanza quindi dei soli interessi legali dalla pronuncia al saldo.
La Corte territoriale disattese invece le doglianze afferenti alle domande di risarcimento dei danni esistenziale e per perdita di chance.
Avverso le anzidette sentenze della Corte territoriale, l’A. spa ha proposto ricorso per cassazione fondato su tre motivi e illustrato con memoria.
S. W. ha resistito con controricorso.

Motivi della decisione

1. Il controricorrente ha eccepito l’Inammissibilità del ricorso non risultando in atti la procura notarile in forza della quale l’avv. G.C.P., indicato quale legale rappresentante della ricorrente, aveva conferito il mandato ai difensori.
Contrariamente all’avviso del controricorrente, l’A. ha depositato la suddetta procura notarile, dall’esame della quale risulta l’attribuzione della rappresentanza, anche sostanziale, all’av. P.; l’eccezione in parola non merita quindi accoglimento (cfr, Cass., n. 12547/2003).
2. Con ulteriore eccezione il controricorrente eccepisce l’inammissibilità del ricorso proposto avverso la sentenza non definitiva, essendo state, con tale pronuncia, decise integralmente alcune delle domande cumulate, con la prosecuzione del processo per le altre; in relazione alla prima sentenza, da ritenersi in effetti come definitiva, non poteva perciò ritenersi consentita la formulazione della riserva di ricorso per cassazione, onde il ricorso stesso, rispetto ad essa, avrebbe dovuto essere proposto immediatamente, con la conseguente inammissibilità dell’impugnazione al riguardo così come svolta. Già con sentenza n. 711/99, le Sezioni Unite di questa Corte, in sede di risoluzione di contrasto, hanno affermato il principio secondo cui, nell’ipotesi di cumulo di domande tra gli stessi soggetti, è da considerarsi non definitiva, agli effetti della riserva di impugnazione differita, la sentenza con la quale il giudice si pronunci su una (o più) di dette domande, con prosecuzione del procedimento per le altre, senza disporre la separazione ex art. 279, comma 2, n. 5, cpc e senza provvedere sulle spese in ordine alla domanda (o alle domande) così decisa, rinviandone la relativa liquidazione all’ulteriore corso del giudizio;
tale principio, ribadito dalle Sezioni Unite con la sentenza n. 9441/2011 e che trova diretto riscontro nella nuova formulazione dell’art. 361, comma 1, cpc, come sostituito dall’art. 3 d.l. vo n. 40/06, esclude la fondatezza dell’eccezione in parola.
3. Con il primo motivo, denunciando violazione di plurime disposizioni di legge e vizio di motivazione, la ricorrente deduce:
– la contraddittorietà della sentenza non definitiva, laddove, dopo avere affermato che correttamente il primo Giudice aveva ritenuto provato che al S. non erano stati conferiti incarichi “almeno fino al 1997”, aveva poi reputato che la sua assoluta inattività si era protratta “nel corso di quasi quattro anni”;
– la mancata considerazione di alcuni documenti che dimostravano l’avvenuto svolgimento di attività lavorativa nel periodo 1996 – 2000.
Con il secondo motivo, denunciando violazione di plurime disposizioni di legge e vizio di motivazione, la ricorrente deduce che:
– erroneamente, avuto riguardo a quanto sostenuto con il primo motivo, la Corte territoriale aveva commisurato il danno da dequalificazione ad un periodo di 45 mesi;
– la Corte territoriale aveva erroneamente ritenuto che tale danno sussistesse in re ipsa, “non indicando in modo chiaro ed afferrabile la tipologia di danno specifico concretamente accertato e valutato nel caso di specie” e lo aveva liquidato sulla base di circostanze “generiche e stereotipate”, senza mai individuarne natura e contenuti.
Con il terzo motivo, denunciando violazione di plurime disposizioni di legge e vizio di motivazione, la ricorrente deduce che:
– gli elaborati peritali d’ufficio di secondo grado e la sentenza che li aveva seguiti non contenevano traccia di una motivazione logica, sufficiente ed adeguata in ordine alta sussistenza di un danno biologico ascrivibile al datore di lavoro ed alla misura del danno ivi individuata, posto che con la prima CTU non risultava specificato il nesso causale tra la diagnosticata sindrome ansioso-depressiva ed il comportamento datoriale, mentre quanto affermato dal CTU nella consulenza tecnica resa ad integrazione era del tutto inidoneo, oltre che erroneo, a comprovare l’esistenza del danno biologico da sindrome ansioso depressiva e la percentuale di danno indicata;
– la Corte territoriale, nel liquidare il danno biologico, non avrebbe potuto prescindere da una specifica allegazione, nel ricorso introduttivo del giudizio, sulla natura e sulle caratteristiche del pregiudizio medesimo;
– la Corte territoriale non aveva tenuto conto delle numerosissime assenze per malattia o per congedi straordinari del lavoratore, risultanti dal dimesso prospetto riepilogativo, mentre, alla luce di tale documentazione, avrebbe dovuto ritenere insussistente la malattia diagnosticata dal CTU, in ogni caso riferibile eziologicamente al complessivo quadro clinico personale del dipendente.
4. In ordine al primo motivo di ricorso deve rilevarsi che, secondo la giurisprudenza di questa Corte (cfr, ex plurimis, Cass., SU, nn. 13045/1997; 5802/1998; Cass., n. 3547/1994; 12121/2004), il vizio di motivazione, sotto il profilo della omissione, insufficienza, contraddittorietà della medesima, può legittimamente dirsi sussistente solo quando, nel ragionamento del giudice di merito, sia rinvenibile traccia evidente del mancato (o insufficiente) esame di punti decisivi della controversia, prospettato dalle parti o rilevabile di ufficio, ovvero quando esista insanabile contrasto tra le argomentazioni complessivamente adottate, tale da non consentire l’identificazione del procedimento logico – giuridico posto a base della decisione.
Al contempo la deduzione di un vizio di motivazione della sentenza impugnata con ricorso per cassazione conferisce al giudice di legittimità non il potere di riesaminare il merito della intera vicenda processuale sottoposta al suo vaglio, bensì la sola facoltà di controllo, sotto il profilo della correttezza giuridica e della coerenza logico – formale, delle argomentazioni svolte dal giudice del merito, al quale spetta, in via esclusiva, il compito di individuare le fonti del proprio convincimento, di assumere e valutare le prove, di controllarne l’attendibilità e la concludenza, di scegliere, tra le complessive risultanze del processo, quelle ritenute maggiormente idonee a dimostrare la veridicità dei fatti ad esse sottesi, dando, così, liberamente prevalenza all’uno o all’altro dei mezzi di prova acquisiti.
Premesso che il motivo all’esame presenta profili di inammissibilità, per essere stato riportato in ricorso, nella sua effettiva consistenza, il contenuto soltanto di una delle fonti che si assumono erroneamente non esaminate, mentre per le altre, in violazione quindi del principio di autosufficienza, il richiamo è stato fatto in termini riassuntivi, deve rilevarsi che, nel caso di specie, la Corte territoriale ha reso, nei termini diffusamente riportati nello storico di lite, una motivazione perfettamente comprensibile e coerente con le risultanze processuali esaminate in ordine alla sussistenza della dedotta dequalificazione, sicché, tenuto conto del ricordato ambito della facoltà di controllo consentita al riguardo in sede di legittimità, la decisione impugnata non resta scalfita dalle censure che le sono state mosse.
5. Dall’inaccoglibilità del primo motivo discende l’infondatezza del primo profilo di doglianza svolto con il secondo mezzo. Quanto al secondo profilo del medesimo mezzo, deve osservarsi che, secondo la giurisprudenza di questa Corte, in tema di demansionamento e di dequalificazione, il riconoscimento del diritto del lavoratore al risarcimento del danno non patrimoniale che asseritamele ne deriva – non ricorrendo automaticamente in tutti i casi di inadempimento datoriale – non può prescindere da una specifica allegazione, nel ricorso introduttivo del giudizio, sulla natura e sulle caratteristiche del pregiudizio medesimo; tale danno va dimostrato in giudizio con tutti i mezzi consentiti dall’ordinamento, assumendo peraltro precipuo rilievo la prova per presunzioni, per cui dalla complessiva valutazione di precisi elementi dedotti (caratteristiche, durata, gravità, conoscibilità all’interno ed all’esterno del luogo di lavoro dell’operata dequalificazione, frustrazione di precisate e ragionevoli aspettative di progressione professionale, effetti negativi dispiegati nelle abitudini di vita del soggetto) si possa, attraverso un prudente apprezzamento, coerentemente risalire al fatto ignoto, ossia all’esistenza del danno (cfr, ex plurimis, Cass., nn. 6572/2006; 14729/2006; 29832/2008).
La doglianza all’esame è priva del requisito dell’autosufficienza nella parte in cui, sostanzialmente, deduce un difetto di allegazione da parte dell’originario ricorrente, non essendo stati riportati in ricorso, nel loro effettivo contenuto e non in modo meramente riassuntivo, quei passi dell’atto introduttivo del giudizio dai quali, secondo l’assunto svolto, dovrebbe desumersi tale carenza. Le critiche rivolte al procedimento seguito per la liquidazione del danno sono peraltro infondate, poiché la Corte territoriale, al riguardo, ha fatto ricorso alla prova per presunzioni, individuando specifici e significativi aspetti della vicenda lavorativa del danneggiato, che come tali non costituiscono affatto, come sostiene il ricorrente, circostanze generiche e stereotipate. Al riguardo, inoltre, deve essere considerato che, secondo il costante orientamento di questa Corte, anche a Sezioni Unite (cfr, ex plurimis, Cass., SU, n. 9961/1996; Cass., nn. 2700/1997; 26081/2005), nella prova per presunzioni non occorre che tra il fatto noto e quello ignoto sussista un legame di assoluta ed esclusiva necessità causale, ma è sufficiente che il fatto da provare sia desumibile dal fatto noto come conseguenza ragionevolmente possibile, secondo un criterio di normalità, essendo sufficiente che il rapporto di dipendenza logica tra il fatto noto e quello ignoto sia accertato alla stregua di canoni di probabilità, con riferimento ad una connessione possibile e verosimile di accadimenti, la cui sequenza e ricorrenza possono verificarsi secondo regole di esperienza; e, a tale riguardo, l’apprezzamento del giudice di merito circa l’esistenza degli elementi assunti a fonte della presunzione e circa la rispondenza di questi ai requisiti di idoneità, gravità e concordanza richiesti dalla legge, non è sindacabile in sede di legittimità, salvo che risulti viziato da illogicità o da errori nei criteri giuridici (che nel caso di specie palesemente non sussistono).
Nei distinti profili in cui si articola, anche il motivo all’esame va dunque disatteso.
6. In ordine al terzo motivo di ricorso deve ricordarsi che, secondo quanto già esposto nello storico di lite, la Corte territoriale, dopo avere disposto l’espletamento di CTU medico legale, richiese all’ausiliario un’integrazione, con specifico riferimento al nesso causale tra le patologie denunciate ed il rapporto di lavoro a far data dall’accertato danno da demansionamento e che, proprio sulla base delle precisazioni fornite al riguardo, fondò la sua decisione. La diagnosi di sindrome ansioso depressiva resa con il primo elaborato trova logicamente la sua fonte nella documentazione esaminata dall’ausiliario e dal medesimo indicata nell’elaborato, fra cui, di evidente pertinenza e rilevanza, risulta la ivi ricordata relazione psichiatrica resa da un sanitario del Servizio di Psicologia Clinica; le critiche alla sussistenza di tale malattia, oltre che generiche, si risolvono quindi in un mero dissenso diagnostico, che, inerendo ad una valutazione di fatto, è inammissibile in sede di legittimità.
Secondo quanto esposto in ricorso, l’A. aveva svolto delle osservazioni in ordine al primo elaborato peritale; la ricorrente non ha invece specificato, come sarebbe stato suo onere, se e quali ulteriori osservazioni fossero state svolte all’esito della indicata integrazione dell’indagine e, quindi, in particolare, in ordine alla valutazione e quantificazione della parziale dipendenza del danno dalla subita dequalificazione professionale.
Ciò premesso, trova applicazione nella specie il condivisibile principio secondo cui non incorre nel vizio di carenza di motivazione la sentenza che recepisca per relationem le conclusioni e i passi salienti di una relazione di consulenza tecnica d’ufficio di cui dichiari di condividere il merito, cosicché, per infirmare, sotto il profilo dell’insufficienza argomentativa, tate motivazione, è necessario che la parte alleghi le critiche mosse alla consulenza tecnica d’ufficio già dinanzi al giudice a quo, la loro rilevanza ai fini della decisione e l’omesso esame delle stesse in sede di decisione, mentre, al contrario, una mera disamina, corredata da notazioni critiche, dei vari passaggi dell’elaborato peritale richiamato in sentenza, si risolve nella mera prospettazione di un sindacato di merito, inammissibile in sede di legittimità (cfr, ex plurimis, Cass., n. 18688/2007; 10222/2009).
6.1 II secondo profilo di doglianza, inerente al dedotto difetto di allegazione della natura e delle caratteristiche del danno, è inammissibile per violazione del principio di autosufficienza, non essendo stati riportati in ricorso, nel loro effettivo contenuto e non in modo meramente riassuntivo, i passi dell’atto introduttivo del giudizio dimostrativi di tale carenza.
6.2 Parimenti inammissibile è la terza censura svolta, che introduce una questione inerente alta valutazione di una circostanza di mero fatto (per di più indicata in termini del tutto generici), non consentita nel giudizio di legittimità.
6.3 Anche il terzo motivo, nei distinti profili in cui sì articola, non può dunque essere accolto.
7. In definitiva il ricorso va rigettato.
Le spese, liquidate come in dispositivo e da distrarsi a favore dell’avv. C.M., dichiaratosi antistatario, seguono la soccombenza.

P.Q.M.

Rigetta il ricorso e condanna il ricorrente alla rifusione delle spese, da distrarsi a favore dell’avv. C.M. e che liquida in euro 6.250,00 (seimiladuecentocinquanta), dì cui euro 6.200,00 (seimiladuecento) per compenso, oltre accessori come per legge.

Redazione