Riconosciuta l’aggravante per il furto commesso ai danni di un sacerdote (Cass. pen. n. 3339/2013)

Redazione 23/01/13
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Osserva

1. C.R. è stato condannato in entrambi i gradi di giudizio, dal Gup del Tribunale di Udine e dalla Corte d’appello di Trieste, alla pena di anni quattro di reclusione ed Euro 800,00 di multa per i reati di truffa pluriaggravata e furto.
1.1 Ricorre personalmente chiedendo l’annullamento della sentenza e deducendo con il primo motivo l’inosservanza della legge penale e il vizio di motivazione in relazione alla riconosciuta sussistenza dell’aggravante di cui all’art. 61 n. 10 cod. pen., ritenuta dalla Corte di merito anche se il sacerdote non era nell’esercizio delle sue funzioni quando conferì il denaro all’imputato; con il secondo motivo lamenta che più consona alla realtà dei fatti sarebbe stato riconoscere l’imputazione di truffa invece di quella di furto posto che il sacerdote aveva in mano il portafolio, pronto a cedere i soldi; con il terzo motivo lamenta il vizio di motivazione in relazione alla negata concessione delle attenuanti generiche.

 

Motivi della decisione

2. Il ricorso non è fondato e va rigettato.
Secondo il dettato dell’art. 61 n.10 cod. pen. aggrava il reato “l’avere commesso il fatto contro un pubblico ufficiale o una persona incaricata di pubblico servizio, o rivestita della qualità di ministro del culto cattolico o di un culto ammesso nello Stato, ovvero contro un agente diplomatico o consolare di uno Stato estero, nell’atto o a causa dell’adempimento delle funzioni o del servizio”.
2.2 In sintonia con una lontana ma sempre valida ed incisiva decisione di questa Corte (5 dicembre 1955 – Giust, pen., 1956, II, 673), questo collegio ritiene che l’avverbio “contro” stia ad indicare la necessità che la condotta illecita sia diretta contro la persona del soggetto che riveste la qualità di pubblico ufficiale, incaricato di pubblico servizio o di ministro del culto, con l’intenzione di vulnerarne il fisico ovvero l’integrità morale, e che l’offesa debba avere una peculiare coloritura, dovendo essere diretta proprio a svilire, anche circuendoli, i valori della funzione professata dalla vittima.
2.3 Ritiene, pertanto, il collegio che l’avverbio “contro” usato quale elemento differenziatore del più comune “in danno”, delimiti la previsione della circostanza aggravante, soggettivamente, ai soli reati dolosi in ragione della necessaria conoscenza della funzione svolta dalla vittima ed, oggettivamente, a tutte le condotte che si risolvono nell’aggressione alla persona, sia nel fisico che nel portato morale di cui ella è peculiare espressione, a motivo dell’incarico, funzione o missione espletata ed al ruolo che di conseguenza riveste ed a prescindere dagli effetti dannosi che tale condotta può aver generato.
2.4 A tale proposito la dottrina, con condivisibile apprezzamento, ritiene che nel caso del reato commesso nell’atto dell’adempimento delle funzioni o del servizio, la maggior tutela penale è apprestata per garantire la sicurezza e il decorso dell’esercizio delle funzioni o del servizio. Nell’ipotesi del reato commesso a causa dell’adempimento medesimo, la più energica tutela penale è stabilita per impedire le vendette e le altre ingiuste reazioni cui può dar luogo il detto esercizio”. Tale funzione sanzionatrice rafforza la convinzione che l’intento dell’offesa deve essere diretta contro la persona in ragione della istituzione, sovrana o religiosa, che la stessa rappresenta.
2.5 Questo aspetto è stato colto dalla Corte di merito che ha correttamente motivato la sussistenza dell’aggravante affermando che :”….Se è vero che si ritiene che la ratio dell’aggravante in esame consiste nell’esigenza di garantire una tutela rafforzata a favore di alcuni soggetti in ragione del peculiare ruolo svolto dagli stessi, non pare dubbio alla Corte che sia riferibile ai casi in questione. Le “opere di carità” rappresentano un “servizio” tipico del ministero cattolico – basti pensare alla destinazione delle elemosine o delle somme espressamente destinate dagli oblanti “ai poveri della parrocchia” – sicché modeste elargizioni a persone bisognose o indigenti costituiscono, di fatto, una costante dell’attività dei parroci.
Proprio per le loro funzioni si deve ritenere che gli imputati si siano ad essi rivolti facendo capo, non a caso, alla parrocchia e, non a caso, a sacerdoti – v. ann. dip.g. 28.12.2010 riguardante analoghi fatti in danno di don Ar.Co. …(pag. 16)”.
2.5 Gli ulteriori motivi di ricorso sono inammissibili perché prospettano, in modo generico, questioni che attengono al merito della decisione impugnata e che pertanto non compete a questa Corte di legittimità scrutinare.
3. Il ricorso per le argomentazioni su esposte deve essere rigettato: al rigetto consegue la condanna al pagamento delle spese processuali.

P.Q.M.

La Corte rigetta il ricorso e condanna il ricorrente al pagamento delle spese del procedimento.

Redazione