Fallimento: l’amministratore che cede i beni dell’azienda in crisi a un prezzo irrisorio è colpevole del reato di bancarotta fraudolenta (Cass. pen. n. 35597/2012)

Redazione 17/09/12
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Svolgimento del processo – Motivi della decisione

Propongono ricorso per cassazione D.M.D., ***** avverso la sentenza della Corte d’appello di Napoli in data 30 marzo 2011 con la quale è stata confermata quella di primo grado (del 2007), di condanna in ordine ai reati di bancarotta fraudolenta patrimoniale e documentale, relativi al fallimento della SIRE Srl, dichiarato il 20 aprile 2000.

D.M. è stato ritenuto responsabile, nella qualità di amministratore di fatto mentre R., nella qualità di socio at 50% nonchè amministratore soltanto formale, della sottrazione di beni della società citata, per un valore di circa 330 milioni di lire e di pagamenti non giustificati per circa 35 milioni di lire.

In realtà, era rimasto accertato che due rami d’azienda fondamentali della società **** erano stati ceduti dal D.M. – che ne era l’effettivo dominus – alla società di ******** – di cui lo stesso D.M. era anche l’amministratore formale – ad un prezzo vile, neppure versato: in sostanza, una vendita simulata da parte dell’imputato a se stesso, con la complicità del R., mero uomo di paglia del primo. Inoltre i beni strumentali non erano stati rinvenuti dalla curatela.

Deduce la difesa dei ricorrenti.

1) il vizio della motivazione con riferimento ai motivi di appello.

In particolare; non era stata data risposta al rilievo della difesa sulla crisi che aveva investito il settore commerciale in cui operava la società ****; sulla messa a disposizione, da parte di D.M., per il ricovero della merce che non voleva dunque distrarre; sul fatto che le operazioni contestate erano lontane dal fallimento; che il valore dei beni strumentali era coperto da un fondo di ammortamento registrato in bilancio per oltre 133 milioni di lire di valore; che nella determinazione del valore della merce asseritamente distratta, doveva tenersi conto che era residuato soltanto quello pari al 10,15% del costo iniziale; che era stata omessa un’importante rinnovazione parziale del dibattimento; che il consulente del pubblico ministero aveva reso una relazione carente specie con riferimento alle pagine 175 e 169 del libro giornale.

2) in secondo luogo viene denunciato il vizio di motivazione in ordine in ordine al mancato riconoscimento, nei confronti di D. M., delle attenuanti generiche come prevalenti.

Con una memoria successivamente depositata la difesa ha chiesto la modulazione temporale delle pene accessorie.

Il ricorso è infondato e deve essere rigettato.

Il giudice dell’appello ha motivato la conferma della condanna inflitta dal primo giudice sulla base di un apparato argomentativo che, in sè, appare completo, logico e plausibile e, come tale, non si espone alle censure formulate nel ricorso nè all’ulteriore controllo correttivo da parte della cassazione.

I punti fondamentali della motivazione qui in esame sono dati del rilievo che la cessione dei due rami d’azienda della **** ad altra società amministrata dallo stesso imputato D.M. è andata ad esclusivo vantaggio di quest’ultima dal momento che il prezzo della cessione, oltre ad essere stato fissato in misura irrisoria, non è stato nemmeno versato.

Una simile constatazione è più che sufficiente a sostanziare e a fondare l’accusa di bancarotta fraudolenta patrimoniale alla stregua della costante giurisprudenza di legittimità secondo cui l’operazione con la quale si estrometta un bene dal patrimonio dell’impresa senza che l’equivalente entri nel patrimonio acquisito al fallimento è idonea a configurare l’ipotesi di fallimento per distrazione di cui alla *******., art. 216, comma 1, n. 1, ovvero, qualora ad essa non faccia seguito alcuna attività intesa al recupero, persi no quella della causazione dolosa del fallimento di cui alla *******., art. 223, comma 2, n. 2, (Sez. 5, Sentenza n. 5408 del 26/11/1997 Cc. (dep. 20/01/1998) Rv. 209883).

stessa linea si è rilevato che integra il reato di bancarotta fraudolenta impropria patrimoniale la cessione di un ramo d’azienda che renda non più possibile l’utile perseguimento dell’oggetto sociale senza garantire contestualmente il ripiano della situazione debitoria della società (Sez. 5, Sentenza n. 10778 del 10/01/2012 Ud. (dep. 19/03/2012) Rv. 252008).

Assai illuminante, in argomento, è il principio espresso dalla sentenza della Sez. 5, n. 9430 del 17/05/1996 Ud. (dep. 06/11/1996) Rv. 205921, secondo cui il delitto di bancarotta per distrazione è qualificato dalla violazione del vincolo legale che limita, ex art. 2740 c.c., la libertà di disposizione dei beni dell’imprenditore che li destina a fini diversi da quelli propri dell’azienda, sottraendoli ai creditori. L’elemento oggettivo è realizzato, quindi, tutte le volte in cui vi sia un ingiustificato distacco di beni o di attività, con il conseguente depauperamento patrimoniale che si risolve in un danno per la massa dei creditori. L’ablazione è attività astrattamente legittima e lecita se mira alla realizzazione delle finalità dell’impresa. La liceità, però, è un valore che va accertato in concreto. L’elemento di differenziazione tra attività lecita ed attività illecita va individuato nella natura gratuita o onerosa della cessione, di guisa che, nel primo caso, il distacco del bene e dell’attività, con adeguata contropartita, si risolve in una finalità aziendale e viene conservata, con l’acquisizione della controprestazione, l’integrità del patrimonio sociale. Il rapporto sinallagmatico deve ovviamente essere integrale, effettivo e non fittizio, perchè diversamente, la bancarotta per distrazione si configura pienamente nelle ipotesi sia di apparente cessione del bene, occultato a proprio vantaggio dall’imprenditore, sia di apparente acquisizione del corrispettivo, rimasto nella propria o nell’altrui disponibilità e mai entrato nella cassa della società fallita, sia, infine, di acquisizione di un corrispettivo parziale.

Rispetto a tale principio appare non chiarito dell’impugnante il carattere decisivo che esso in ipotesi assegni al difetto di motivazione denunciato, difetto rilevabile da questa Corte non già in quanto tale ma soltanto in quanto valga a rendere la motivazione incompleta su un punto fondante per il suo equilibrio e la sua logicità.

Appare, in vero, in tale ottica scarsamente apprezzabile la mancanza di motivazione lamentata a proposito della crisi che avrebbe investito il settore commerciale in cui operava la società ovvero della maggiore o minore congruenza del valore assegnato alle merci cedute, comunque senza ritorno di qualsiasi corrispettivo.

Lo stesso difetto di motivazione lamentato non riesce ad incidere sui fondamentali rilievi contenuti nella sentenza – con i quali i ricorrenti trascurano di confrontarsi – secondo cui le scritture sono risultate al curatore tenute in modo da non rendere possibile la ricostruzione degli affari: e ciò in quanto l’attivo riportato nel libro giornale era di 172 milioni di lire circa, diverso da quello rinvenuto e non risultava annotato nel libro giornale il corrispettivo della vendita. Inoltre il libro giornale era redatto sino al 31 dicembre 1999 e non portava le annotazioni sino alla data della sentenza.

Del tutto infondato è infine il motivo di ricorso concernente il bilanciamento delle circostanze attenuanti, pure riconosciute a D. M..

Nella sentenza, la motivazione contraria ad un bilanciamento in termini di prevalenza è stata data valorizzando, ai fini del giudizio sulla personalità, l’esistenza della misura di sorveglianza speciale a carico del ricorrente e un simile rilievo, compatibile con i criteri che debbono regolare l’esercizio del potere discrezionale del giudice al riguardo, è ineccepibile.

Infine la questione posta dalla difesa in ordine alla pretesa modulazione delle pene accessorie trova ostacolo nella lettera della legge che le prevede in misura fissa e non modulabile, relativamente alla ipotesi di bancarotta fraudolenta.

Il contrasto nella giurisprudenza di legittimità che, sul punto, si è registrato in passato, ha trovato sfogo, stante la apparentemente inequivoca lettera della *******., art. 216, u.c., in una questione di legittimità costituzionale della stessa, dichiarata però inammissibile, dal giudice delle leggi, con sentenza n. 134 del 6 giugno 2012, nella quale è stata accreditata la maggioritaria giurisprudenza di questa corte di cassazione.

P.Q.M.

rigetta i ricorsi e condanna ciascun ricorrente al pagamento delle spese del procedimento.

Redazione