Corte di Cassazione Penale sez. IV 3/6/2008 n. 22162; Pres. Licari C.

Redazione 03/06/08
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Ritenuto in fatto

Il Giudice di Pace di Palestrina condannava D.G.G. alla pena pecuniaria dell’ammenda di Euro 516,00, per il reato di guida in stato di ebbrezza. Il giudicante motivava il proprio convincimento, circa la ritenuta colpevolezza dell’imputato, richiamando la deposizione del verbalizzante – il quale aveva riferito di aver riscontrato nel D.G. taluni dati sintomatici dello stato di ebbrezza (forte alito vinoso e sguardo addormentato) – e l’esito del test con l’etilometro.

Ricorre per Cassazione l’imputato, denunciando: a) violazione di legge, in relazione alla mancata indicazione nell’atto di citazione delle circostanze oggetto dell’esame testimoniale richiesto dal P.M.;

2) violazione di legge in ordine all’acquisizione agli atti dello scontrino relativo al secondo test con l’etilometro, ed ancora violazione di legge perchè gli scontrini erano scritti a mano e non corredati dall’attestato di regolare funzionamento dell’etilometro;

c) violazione del D.Lgs. n. 274 del 2000, art. 34 per la mancata declaratoria della tenuità del fatto.

Considerato in diritto

Il ricorso è inammissibile perchè basato su doglianze manifestamente infondate. Nel caso di specie, il giudicante ha posto a fondamento del suo convincimento non solo l’esito dell’accertamento strumentale, ma anche dati fattuali (elementi sintomatici dello stato di ebbrezza del D.G.), riferiti dal verbalizzante. Giova ricordare al riguardo che le Sezioni Unite di questa Corte hanno a suo tempo affermato che lo stato di ebbrezza può essere accertato e provato con qualsiasi mezzo e non necessariamente, nè unicamente, attraverso la strumentazione e la procedura indicate nell’art. 379 reg. att. esec. C.d.S., anche in virtù del principio del libero convincimento del giudice e per l’assenza di prove legali (Sez. Un., N. 1299, 5/2/1996 – ud. 27/9/1995 – imp. **********, RV. 203634).

Destituita di qualsiasi fondamento è la doglianza finalizzata ad eccepire l’inutilizzabilità della deposizione del verbalizzante, quale conseguenza della sanzione di inammissibilità derivante dalla omessa indicazione nell’atto di citazione delle circostanze che avrebbero dovuto formare oggetto dell’esame testimoniale. Questa Corte, invero, ha già avuto modo di precisare che la disposizione di cui al D.Lgs. n. 274 del 2000, art. 20 – nello stabilire che la richiesta di esame dei testi e dei consulenti tecnici deve contenere, a pena di inammissibilità, l’indicazione delle circostanze su cui deve vertere l’esame – si riferisce, in conformità all’analogo disposto contenuto nell’art. 468 c.p.p., comma 2, all’ipotesi in cui si tratti di circostanze diverse da quelle contenute nella descrizione del capo di imputazione e non già al caso (come nella specie) in cui tale diversità non sussista, "considerato che una diversa interpretazione implicherebbe che il citato art. 20 preveda l’inutile ripetizione in calce alla lista testimoniale dei fatti specificamente indicati nell’imputazione e che la finalità di entrambe le norme in questione è quella di tutelare le parti del processo dall’introduzione di eventuali prove a sorpresa, consentendo loro la tempestiva predisposizione di controdeduzioni" (Sez. 5, Sentenza n. 46868 del 29/11/2005 – dep. 22/12/2005 – imp. *******, Rv. 233049). Non rilevano i precedenti giurisprudenziali citati dal ricorrente, posto che: a) detti precedenti sono stati indicati con riferimento alla sola data (senza specificare se quella di udienza o di deposito) ed alla sezione (manca il numero della sentenza, il nome dell’imputato, il numero di massima) e quindi non è possibile individuarli per poterne valutare il contenuto; b) peraltro, in base alle date riferite dal ricorrente, gli stessi risultano addirittura anteriori all’entrata in vigore della legge istitutiva della competenza del Giudice di Pace, e quindi assolutamente non pertinenti.

Quanto sopra detto, circa la valenza probatoria della deposizione del verbalizzante, per il suo carattere assorbente (c.d. prova di resistenza) renderebbe superfluo l’esame delle doglianze relative alle caratteristiche dell’etilometro ed all’acquisizione degli scontrini. Mette conto tuttavia sottolineare, "ad abundantiam", quanto segue: a) il ricorrente si è limitato a lamentare la mancanza di documentazione attestante il regolare funzionamento dell’etilometro, ma non ha dedotto alcun concreto elemento da cui poter desumere che il macchinario utilizzato per l’alcoltest nei confronti del D.G. non fosse regolarmente funzionante; b) alcuna nullità è prevista dalla legge al riguardo; c) in ogni caso, è di tutta evidenza che una eventuale contestazione circa il funzionamento dell’etilometro o le sue caratteristiche avrebbe dovuto essere formulata al momento del compimento dell’atto, o immediatamente dopo, e non certo a distanza di tempo ed addirittura nella fase del giudizio.

Anche per quel che riguarda l’acquisizione degli scontrini concernenti il risultato del test con l’etilometro, la tesi del ricorrente è priva di qualsiasi giuridico fondamento, trattandosi di documentazione che ben può entrare a far parte del fascicolo del dibattimento, secondo il consolidato indirizzo affermatosi nella giurisprudenza di questa Corte: "In tema di guida in stato di ebbrezza, il cosiddetto alcooltest, eseguito con le procedure e gli strumenti di cui all’art. 186 C.d.S. e all’art. 379 reg. esec. C.d.S., costituisce un atto di polizia giudiziaria urgente ed indifferibile ai sensi dell’art. 354 c.p.p., comma 3, cui il difensore può assistere in virtù del successivo art. 356 senza diritto ad essere previamente avvisato del compimento dell’atto, ed i relativi esiti possono legittimamente essere acquisiti al fascicolo per il dibattimento" (Cass. 6, 6.5.2003, ******, RV 227420); "Il verbale di constatazione della violazione di cui agli artt. 186 e 379 reg. esec. C.d.S. (cosiddetto alcool test), redatto dall’agente accertatore ai sensi dell’art. 200 c.p., non è soggetto al regime del deposito in cancelleria, atteso che costituisce atto pubblico che può essere inserito nel fascicolo del dibattimento ex art. 431 c.p." (Cass. 4, 30.10.2003, *******, RV 229695).

Resta da esaminare l’ultima censura, quella relativa alla mancata declaratoria della (asserita) particolare tenuità del fatto. Anche tale assunto difensivo risulta manifestamente infondato posto che dagli atti non si rileva che la difesa, nemmeno in sede di conclusioni, abbia rivolto al giudice una esplicita richiesta in tal senso: in proposito questa Corte ha enunciato il principio di diritto secondo cui "la previsione contenuta nel D.Lgs. 28 agosto 2000, n. 274, art. 34 (procedimento penale davanti al giudice di pace), in forza della quale viene attribuito al giudice il potere-dovere di chiudere il procedimento, sia prima che dopo l’esercizio dell’azione penale, quando il fatto incriminato risulti di "particolare tenuità", rispetto all’interesse tutelato, e tale da non giustificare l’esercizio o la prosecuzione dell’azione penale, configura un potere discrezionale del giudice, il cui mancato esercizio non impone una esplicita motivazione, allorchè l’applicabilità dell’istituto non sia stata invocata dall’interessato" (Sez. 4, Sentenza n. 41702 del 20/09/2004 – dep. 26/10/2004 – imp. ********, Rv. 230277).

Non sfugge al Collegio che, nella concreta fattispecie, la sentenza impugnata è stata pronunciata da un giudice incompetente; ed invero il decreto di citazione è stato emesso il 16 ottobre 2003, e quindi successivamente alla novella dell’agosto 2003, per cui la competenza spettava al Tribunale e non al Giudice di Pace. Tuttavia, l’inammissibilità del ricorso per manifesta infondatezza delle censure – quale causa originaria di inammissibilità – non consente alla Corte, in applicazione dei principi enunciati dalle Sezioni Unite con plurime decisioni, di rilevare formalmente detta incompetenza per materia (che, pur non eccepita con il ricorso, sarebbe stata rilevabile di ufficio), al pari delle nullità di ordine generale; così come non consente neppure la rilevabilità della prescrizione del reato, ove maturata in epoca successiva alla sentenza impugnata (cfr. Sez. Un., *******; Sez. Un., ********).

Giova sottolineare quanto precisato dalle Sezioni Unite con la sentenza Gioia (Sez. U, Sentenza n. 4419 Cc del 25/01/2005, dep. 08/02/2005, Rv. 229982), laddove, in presenza di un ricorso ritenuto inammissibile per carenza di interesse (anch’essa causa originaria di inammissibilità), è stata esclusa la possibilità di rilevare l’incompetenza funzionale del giudice che pure era stata dedotta con il ricorso: "In tema di applicazione della pena a richiesta delle parti ai sensi dell’art. 444 c.p.p. e segg., poichè la decisione del giudice che ratifica l’accordo corrisponde all’interesse che le parti hanno ritenuto di soddisfare con la richiesta di patteggiamento, l’ammissibilità del ricorso per Cassazione avverso detta decisione, con cui si lamenti unicamente l’incompetenza del giudice ad emetterla, è subordinata alla specifica indicazione di un’utilità concreta perseguita con il mezzo di gravame, a nulla rilevando la natura funzionale dell’incompetenza dedotta e la sua conseguente rilevabilità di ufficio. (Fattispecie nella quale l’imputato, dopo l’emissione del decreto di giudizio immediato, aveva tempestivamente chiesto al g.i.p. – e ottenuto dopo la prestazione del consenso del P.M. – l’applicazione della pena a norma dell’art. 444 c.p.p., censurandone poi la decisione sull’unico rilievo che competente a pronunciarsi sarebbe stato il giudice del dibattimento; la Corte, nell’enunciare il principio di cui sopra, ha ritenuto la declaratoria di nullità preclusa dalla inammissibilità dell’impugnazione dovuta a carenza di interesse)".

Alla declaratoria di inammissibilità segue, per legge, la condanna del ricorrente al pagamento delle spese processuali, nonchè (trattandosi di causa di inammissibilità riconducibile alla volontà, e quindi a colpa, del ricorrente: cfr. Corte Costituzionale, sent. N. 186 del 7-13 giugno 2000) al versamento a favore della cassa delle ammende di una somma che si ritiene equo e congruo determinare in Euro 1000,00 (mille).

P.Q.M.

Dichiara inammissibile il ricorso e condanna il ricorrente al pagamento delle spese processuali e della somma di Euro 1000,00 in favore della cassa delle ammende.

Redazione