Verifiche fiscali

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1.Premessa e normativa di riferimento

Le indagini finanziarie rappresentano, tra i molteplici strumenti di cui dispone l’amministrazione finanziaria, quello che potenzialmente permette la maggior efficacia investigativa nella lotta all’evasione fiscale. È evidente, infatti, come il Fisco possegga un’arma dal carattere altamente invasivo della sfera patrimoniale del contribuente, tanto invasivo da costringere il legislatore a occuparsi con grande attenzione di come regolamentarne le procedure .

La normativa sulle indagini finanziarie cerca di realizzare un equo contemperamento tra l’interesse privato alla riservatezza, e l’interesse pubblico al conseguimento del gettito erariale e alla repressione dell’evasione.

E’ fuor di dubbio, il ruolo essenziale che possono svolgere le indagini finanziarie per ricostruire la capacità contributiva del contribuente, in grado di fornire dati certi e non contestabili e validi supporti di prova per la sua quantificazione.

Di fatto, però, l’ingresso di un organo verificatore in azienda è un evento che di solito suscita una forte apprensione nei responsabili degli adempimenti fiscali e amministrativi: nella molteplicità degli obblighi formali e sostanziali (pagamento delle imposte) stabiliti dalla normativa in materia tributaria, è molto frequente trovarsi esposti al rischio che organi verificatori, Guardia di finanza o ispettori dell’Agenzia delle entrate, possano evidenziare inadempienze o errori di applicazione delle norme fiscali. La possibilità di commettere tali errori è ulteriormente elevata per le frequenti modifiche legislative e difficoltà di interpretazione delle norme, relative agli adempimenti sia formali che sostanziali. È quindi di grande rilievo evidenziare la puntuale normativa che il legislatore ha stabilito relativamente all’attività di verifica da parte dell’Amministrazione finanziaria.

L’art. 32 del D.P.R. del 29 settembre 1973, n. 600 e l’art. 51 del D.P.R. del 26 ottobre 1972, n. 633, attribuiscono agli Uffici Finanziari poteri in ordine all’acquisizione di dati ed elementi rilevanti ai fini della determinazione della base imponibile direttamente nei confronti dei contribuenti cui si riferisce il controllo (invito degli stessi a comparire negli Uffici anche per esibire o trasmettere atti o documenti, invio di questionari, ecc.) ovvero nei confronti di terzi (richiesta di notizie e comunicazioni ad organi ed Amministrazioni dello Stato, richiesta di copie o estratti di atti depositati presso notai, richiesta di conti bancari e postali, ecc.).

Le norme che, invece, regolano il potere di eseguire accessi, ispezioni, verificazioni, ricerche ed ogni altra rilevazione ritenuta utile per l’accertamento delle imposte – e che saranno oggetto di trattazione del presente lavoro – sono contenute nell’art. 52 D.P.R. del 26/10/1972, n. 633 e succ. mod. ed integrazioni (relativo all’IVA) applicabile, altresì, alle II.DD., grazie al rinvio contenuto nell’art. 33 del D.P.R del 29 settembre 1973, n. 600.

-Accessi ed ispezioni (art. 52 del D.P.R. n. 633/1972 e art. 33 del D.P.R. n. 600/1973)

Si tratta di controlli che possono essere relativi all’esame di un registro specifico (ad esempio registro dei corrispettivi per i commercianti al dettaglio); sono quindi di breve durata, di solito esauriti nell’arco di mezza giornata o qualche ora, al quale segue un processo verbale che può essere negativo oppure rilevare infrazioni. Possono anche riguardare tutta la documentazione reperibile presso l’azienda e relativa e tutti gli adempimenti fiscali (verifica). L’accesso può avvenire anche presso altri enti (Pubblica amministrazione, istituti di credito, amministrazione postale, ecc.), con apposita autorizzazione, al fine di reperire dati e informazioni utili ai fini del controllo.

-Controlli documentali (art. 32 del D.P.R. n. 600/1973)

Si tratta di richieste di informazioni e documentazione o registri contabili, di solito svolti presso l’Ufficio stesso (ad esempio controllo ex art. 36-ter del D.P.R. n. 600/1973 sulle dichiarazioni dei redditi).

-Verifiche

Il legislatore usa tale termine, per la prima volta, con il D.P.R. 26.10.1972, n. 633, all’art. 52 (accessi, ispezioni e verifiche), ma non ne dà una definizione. In realtà è un controllo specifico, che si concretizza in una serie di operazioni, svolte da soggetti giuridicamente qualificati, volte a controllare il regolare adempimento delle norme tributarie.

La verifica è sostanzialmente finalizzata all’acquisizione ed al reperimento di ogni elemento utile all’accertamento dei redditi, dell’Iva e dei tributi indiretti, nonché alla repressione delle violazioni e si esplica mediante ispezioni documentali e rilevamenti vari interessanti l’attività del contribuente e si conclude con la compilazione di determinati atti con le prescritte procedure e modalità.

Può essere eseguita nei confronti di qualunque persona fisica, giuridica, società di persone o ente che abbia posto in essere attività in relazione alle quali le norme tributarie pongono obblighi o divieti la cui inosservanza è sanzionata in via amministrativa e/o penale

 

2.Aspetti introduttivi: le attività di controllo fiscale

Nel panorama dei controlli fiscali, si tratta del tipo di quello più approfondito, di solito svolto presso la sede dell’attività del contribuente, che può durare diversi giorni, ma non oltre i trenta giorni lavorativi, e che può riguardare tutti gli aspetti dell’attività aziendale rilevanti ai fini della determinazione delle imposte dovute, dirette e indirette. A tutela dei diritti del contribuente è stata emanata una norma generale e cioè lo «Statuto del contribuente» (legge 27 luglio 2000, n. 212). Tali disposizioni costituiscono il principale punto di riferimento che gli stessi organi verificatori assumono alla base delle procedure interne stabilite sia dall’Agenzia delle entrate che dalla Guardia di finanza. Ed infatti, sono gli stessi verificatori a fornire il testo della legge al contribuente, in modo che lo stesso sia informato sulle proprie possibilità di difesa e consapevole che gli stessi sanno quali sono i limiti e le regole ai quali deve essere informato il loro operato.

L’Agenzia delle Entrate con la circolare 16.4.2010, n. 20 stabilisce gli indirizzi operativi per la prevenzione e il contrasto all’evasione fiscale per il 2010:

viene estesa l’attività di tutoraggio da svolgere nel corso del 2010 nei confronti dei grandi contribuenti: riguarderà le imprese che nel 2008 hanno conseguito un volume d’affari o di ricavi non inferiore a euro 200.000.000;

– è prevista una particolare intensificazione dell’attività di controllo per le imprese di medie dimensioni;

– viene attribuita rilevanza strategica ai controlli nei confronti degli enti non commerciali al fine di rilevare eventuali abusi delle norme agevolative a favore di questi soggetti;

– viene chiarito che la verifica degli adempimenti in materia di imposte di registro, ipo-catastali e di successione e donazione è garantita dall’attività di controllo formale di atti e dichiarazioni e di accertamento delle posizioni a specifico rischio di evasione. In particolare, si sottolinea l’importanza dello strumento delle indagini finanziarie.

 

Le verifiche fiscali possono essere:

– generali; 

– parziali;

– mirate.

La verifica è denominata “generale” quando la gestione o l’attività del periodo temporale preso in esame viene controllata con riguardo a tutti i settori impositivi.

La verifica si intende “parziale” quando l’indagine ispettiva è limitata al riscontro di singoli atti di gestione aziendale o ha per oggetto singoli tributi.

Sono “controlli” quei determinati interventi volti al riscontro di una parte della gestione amministrativa, di singoli atti o di particolari adempimenti extratributari o fiscali (ad es.: ricevuta fiscale, scontrino fiscale, ecc.).

In relazione al metodo per l’individuazione dei soggetti da controllare, le verifiche generali erano classificate come segue:

– verifiche d’iniziativa, effettuate nei confronti di soggetti individuati in base a criteri di pericolosità fiscale o in seguito ad indagini specifiche;

– verifiche a campagna, estese, in un determinato periodo e con carattere di sistematicità, a più soggetti di uno stesso settore economico;

– verifiche a sorteggio, effettuate nei confronti di soggetti scelti secondo i criteri stabiliti annualmente con apposito DM, emanato in attuazione dell’art. 7 della legge 24.4.80 n. 146;

– verifiche compiute sulla base di criteri selettivi, fissati annualmente con DM.

La verifica può prevedere attività di controllo a carattere sia formale (tenuta della contabilità ai fini fiscali) sia sostanziale, delle quali è fornito resoconto nel processo verbale di constatazione redatto alla conclusione delle operazioni.

Le verifiche mirate

Controlli del Fisco specificamente rivolti a determinati settori economici o tipologie di contribuenti (o di potenziale evasione), ma manca una sua espressa definizione.

Allo stato, sono “verifiche mirate” quelle che sono poste in essere nei confronti dei soggetti previsti da una determinata “metodologia di controllo”.

Questa nuova tipologia di verifica è utilizzata nei confronti di quelle categorie economiche, imprenditoriali o professionali, che hanno come caratteristica comune quella di essere rivolte, in tutto o in parte, verso il consumatore finale. Secondo il Ministero delle Finanze, le verifiche mirate sono state studiate in particolare per quei contribuenti che hanno un rapporto diretto con il consumatore finale, e dunque presentano obiettive difficoltà di controllo di tipo contabile a causa di una naturale propensione all’evasione fiscale. A tal scopo sono state predisposte una serie di metodologie di controllo destinate ad essere utilizzate nei confronti dei soggetti che svolgono la propria attività a contatto con il pubblico.

Le metodologie si propongono, in particolare, di:

uniformare i comportamenti operativi degli uffici al fine di assicurare ai controlli un livello qualitativo più elevato;

contribuire allo sviluppo di maggiori professionalità e capacità di controllo del personale;

aumentare la proficuità dei risultati attraverso una sistematica utilizzazione delle indagini indirette (riscontri esterni, ecc.);

indirizzare le indagini sugli aspetti sostanziali della posizione fiscale del contribuente, riducendo al minimo i controlli formali.

Sono state finora realizzate 96 metodologie, distinti in tre classi: attività di servizi, attività professionali, attività commerciali.

Con la circolare 29 dicembre n. 1 del 2008, la Guardia di Finanza ha dettato interessanti istruzioni circa l’attività di verifica. Mediante le indicazioni contenute nel documento si cerca di coniugare, fin dove possibile, le esigenze dell’Amministrazione finanziaria ed i diritti del contribuente, in modo coerente alle scelte rinvenibili nello Statuto dei diritti del contribuente: in un certo qual modo l’Amministrazione viene indirizzata nelle sue scelte, in modo da minimizzare la compressione dei diritti di libertà dei destinatari.

La circolare considera la verifica un «sub procedimento », da inquadrarsi nell’ambito del procedimento amministrativo di accertamento finalizzato al perseguimento degli interessi tutelati dalla legge attraverso sequenze connotate da una significativa procedimentalizzazione. Sul punto, infatti, la Corte di Cassazione 1 ha affermato il principio per cui la correttezza del procedimento di formazione della pretesa tributaria è assicurata mediante il rispetto di una sequenza ordinata di determinati atti destinati, con diversa e specifica funzione, a farla emergere e a portarla nella sfera di conoscenza dei destinatari, allo scopo, soprattutto, di rendere possibile, per questi ultimi, un efficace esercizio del diritto di difesa. La validità di tali assunti deve trovare, però, giustificazione nell’individuazione dei tratti qualificanti dell’agire amministrativo in relazione ai fini perseguiti, in modo da poter validare la postulata assimilazione del procedimento tributario alla natura giuridica del procedimento amministrativo, nell’ambito del quale riveste particolare importanza la fase istruttoria, considerata il fulcro della sua struttura. Nel sistema delineato dell’art. 3, comma 1, della legge n. 241/1990 esiste, infatti, un vincolo, di chiara matrice processuale, che lega l’atto (avviso di accertamento) alle risultanze dell’istruttoria (processo verbale di constatazione).

Ciò significa che, anche per gli atti d’indagine devono essere soddisfatte particolari esigenze di garanzia, che si traducono nell’obbligo (ex art. 7 dello Statuto del contribuente), per il soggetto procedente, di motivare i propri «atti » secondo quanto prescritto dall’art. 3 della legge n. 241/1990, dal momento che i verificatori sono chiamati a descrivere l’iter logico-giuridico seguito nella verifica, rendendolo, nel contempo, intelligibile al destinatario del controllo ed all’Ufficio che dovrà eventualmente emettere l’atto di accertamento.

 

2.1Richiesta esibizione documentazione

Una volta iniziata la verifica fiscale, da parte degli impiegati dell’Amministrazione finanziaria o della Guardia di Finanza, ed esibiti “l’autorizzazione all’accesso” o il “foglio di servizio” e le relative tessere di riconoscimento, i verificatori chiedono al titolare dell’azienda o a chi altro lo rappresenta di esibire tutti i libri, registri e documenti contabili (e sociali) obbligatori.

Nel caso in cui il contribuente dichiari che tutte o parte delle scritture contabili sono conservate presso altri soggetti ed esibisca la relativa attestazione, sarà immediatamente verbalizzata la circostanza e la conseguente interruzione delle operazioni giornaliere di controllo per poter acquisire le scritture contabili presso il terzo. Qualora detta attestazione non venga esibita o nel caso che il soggetto che l’ha rilasciata si opponga all’accesso o non esibisca in tutto o in parte le scritture da esaminare, si rende applicabile la sanzione della inefficacia probatoria delle scritture contabili successivamente esibite.

 

2.1.1 Documentazione presso terzi

È possibile a tale riguardo richiamare un determinato indirizzo giurisprudenziale, secondo il quale:

– per gli organi verificatori non può intendersi preclusa la possibilità di prendere visione e acquisire i dati fiscalmente rilevanti presso terze persone non menzionate nell’autorizzazione, perché ciò potrebbe consentire ai contribuenti di sottrarre facilmente ai controlli la propria documentazione fiscale, conservandola – appunto – presso terzi;

– il provvedimento – emesso dall’A.G. – di autorizzazione alla perquisizione del domicilio di un determinato soggetto permette di acquisire, in quello stesso domicilio, la documentazione riguardante un altro soggetto, anche se questo non è  menzionato nel provvedimento, giacché la ratio dell’art. 52, D.P.R. n. 633/1972 è di tutelare il contribuente nei cui confronti viene eseguito l’accesso e non di creare una sorta di immunità nei confronti dei terzi.

Sul punto, sembra non esserci dubbio circa l’utilizzabilità di detti documenti nell’ambito di un diverso e nuovo controllo nei confronti del contribuente cui si riferiscono. Tale posizione è stata ricordata di recente dalle sentenze della Corte di Cassazione:

 

n. 16731 del 20 giugno-8 agosto 2005, che ricorda altresì l’utilizzabilità di documenti riferiti a periodi temporali diversi da quelli per i quali è stata avviata la verifica;

n. 19837 del 13 giugno-12 ottobre 2005, che si richiama ad un consolidato orientamento giurisprudenziale secondo cui “Il provvedimento autorizzatorio alla perquisizione del domicilio di un soggetto, emesso dalla competente Procura della Repubblica allo scopo di acquisire la documentazione fiscale relativa al soggetto stesso, consente di acquisire, in tale domicilio, anche la documentazione relativa ad altro soggetto, pur non menzionato nel provvedimento autorizzatorio” (Corte di Cassazione, sentenza n. 153 del 10 gennaio 1996). La volontà della norma è, infatti, quella di tutelare il domicilio privato, “non già quella di creare una sorta di immunità dalle indagini a favore di terzi, siano o meno conviventi con l’interessato”. È questa la conclusione cui è giunta la Corte di cassazione, dal cui tenore è possibile stabilire il principio secondo cui non tutte le prove acquisite con procedura «irrituale» possono essere considerate di per sé inammissibili.

Con sentenza 11 giugno 2009, n. 13487 (udienza del 17 aprile 2009) la Corte di cassazione ha sostanzialmente affermato che l’Amministrazione finanziaria ha la facoltà di utilizzare documenti extra-contabili rinvenuti presso terzo nello svolgimento di una verifica fiscale al fine di rettificare la dichiarazione del contribuente il quale non può dolersi della motivazione per relationem al processo verbale di constatazione di verifica allorquando vi sia stata notifica unitamente all’atto impositivo con indicazione della documentazione verificabile nei presidi della Guardia di finanza. Contestualmente la violazione delle regole dell’accertamento tributario non comporta come conseguenza necessaria la inutilizzabilità degli elementi acquisiti, in mancanza di una specifica previsione in tal senso

Un’altra sentenza 31 agosto 2007, n. 18337sempre in tema di IVA e accessi, ispezioni e verifiche in locali non adibiti all’attività d’impresa ha affermato che non è richiesto il rilascio dell’autorizzazione da parte della Procura della Repubblica ai fini di accedere ad un locale adibito unicamente all’esercizio dell’attività di un soggetto passivo IVA, che sia nella sua piena ed esclusiva disponibilità ed al quale si accede soltanto attraverso altro locale adibito ad abitazione di un terzo il quale abbia prestato il consenso.

Indubbiamente, per ciò che riguarda il caso dell’emersione di documenti riguardanti terzi, la Corte di cassazione sembra indirizzata verso univoche conclusioni tanto che in linea di principio si può affermare che la scoperta nel corso di una ispezione fiscale presso un contribuente, debitamente autorizzata, di documenti riguardanti altri soggetti può legittimamente condurre ad un accertamento nei confronti di questi ultimi. Al contrario, altre situazioni, come il caso dell’accesso in locali esclusivamente abitativi senza autorizzazione del Procuratore della Repubblica, determinano la lesione di un diritto costituzionalmente protetto quale quello dell’inviolabilità del domicilio, indi per cui è evidente che le prove eventualmente acquisite dovrebbero comportare l’annullamento dell’avviso di accertamento.

Va infine rilevato che la Corte di cassazione con la sentenza 17 giugno 2009, n. 14017 a pochi giorni di distanza dal precedente orientamento appena esaminato è ritornata ad affrontare la problematica relativa alla documentazione presso terzo, aggiungendo un ulteriore tassello ai fini della validità della documentazione raccolta; i giudici di legittimità pur ammettendo la facoltà di utilizzare documenti extra-contabili rinvenuti nello svolgimento dell’attività di verifica fiscale presso terzozal fine di rettificare la dichiarazione del contribuente non ritiene (e questo è l’elemento in più) le presunzioni utilizzate, gravi, precise e concordanti.

 

-SEQUESTRO di SCRITTURE e DOCUMENTI:

In base al co. 7 dell’art. 52, D.P.R. 633/1972, i documenti e le scritture possono essere sequestrati soltanto quando:

– non sia possibile riprodurne o farne constare il contenuto nel verbale;

– il contribuente contesti il contenuto del verbale;

– il contribuente rifiuti di sottoscrivere il verbale.

LIBRI e REGISTRI:

i libri e i registri non possono essere sequestrati. I verificatori possono comunque:

– eseguire o farne eseguire copie ed estratti;

– apporre nelle parti che interessano la propria firma o sigla con la data e il bollo dell’Ufficio;

– adottare le cautele necessarie per evitarne l’alterazione o la sottrazione.

L’art. 52, co. 7, D.P.R. 633/1972 conferisce ai verificatori che procedono all’accesso nei locali di soggetti che si avvalgono di sistemi meccanografici, elettronici e simili per la tenuta della contabilità, la facoltà di elaborarne i supporti utilizzati (floppy disk, cd-rom, ecc.).

Se i soggetti verificati non concedono l’uso delle proprie apparecchiature, i supporti possono essere trasferiti fuori dai locali dell’azienda, in deroga al divieto di sequestro documentale posto dal richiamato comma 7 ed elaborati con mezzi elettronici dei verificatori.

3.Limitazioni del potere di accesso, ispezione e verifica

L’art. 12 della legge n. 212/2000 definisce le regole e i limiti entro cui si deve svolgere ogni tipo di controllo: la norma stabilisce la necessità che vi siano «effettive esigenze di controllo», con l’obbligo di comportare nei confronti del contribuente «la minore turbativa possibile allo svolgimento delle attività» professionali e commerciali. Il controllo quindi deve essere giustificato da precise motivazioni di indagine volte a ricostruire la posizione reddituale del contribuente. Tale esigenza è ravvisabile anche nel comma 2 della norma citata, dove, con riferimento specifico alle verifiche, si stabilisce che «il contribuente deve essere informato delle ragioni che l’abbiano giustificata e dell’oggetto che la riguarda». Qualora poi la verifica interessi l’abitazione del contribuente o del suo rappresentante legale, i verificatori devono essere muniti dell’autorizzazione del procuratore della Repubblica.

L’atto conclusivo delle operazioni di verifica è costituito dal “processo verbale di constatazione” (cd. “p.v.c.”) a mezzo del quale viene formalizzato l’esito dell’eseguito controllo fiscale. Esso rappresenta senza dubbio l’atto più importante e significativo dell’intera verifica, in quanto riassume, rielabora ed esplicita agli Uffici fiscali tutti i dati e gli elementi utili all’accertamento laddove è onere della Amministrazione finanziaria dimostrare la maggiore capacità contributiva del soggetto verificato nonché i presupposti di fatto e di diritto sui quali la pretesa fatta valere nei suoi confronti si fonda. (Cass. sent. del 17 novembre 2010 n.3326).

Al fine di facilitare i riscontri e l’avvio della procedura di accertamento, i rilievi effettuati vengono raggruppati nel p.v.c., per tipologia di imposizione (Iva o Imposte sui redditi), per periodo d’imposta, per argomento (a seconda che essi riguardino la dichiarazione, la documentazione, la tenuta delle scritture contabili, la determinazione dell’imponibile e dell’imposta, l’applicazione delle sanzioni).

I verbali vengono sempre redatti in più copie, una delle quali spetta sempre al contribuente sottoposto a verifica.

Alcuni contribuenti ritengono che non apponendo la propria firma sul verbale si possa inficiare l’atto e quindi vanificare le operazioni di controllo poste in essere dai verificatori.

Un tale comportamento non compromette certamente la sorte del verbale medesimo, in cui viene inserita la dicitura “la parte si rifiuta di firmare”.

E’ prevista la possibilità per il contribuente di presentare osservazioni e richieste all’Ufficio impositore entro 60 giorni dalla firma del processo verbale. L’Ufficio deve esaminare attentamente tale atto del contribuente, attendendo comunque il decorso dei 60 giorni per emettere l’avviso di accertamento a pena di nullità dell’atto emanato.

Il processo verbale di constatazione non è impugnabile autonomamente. Infatti non è menzionato tra gli atti tassativamente elencati nell’art. 19, D.Lgs. 31.12.1992, n. 546. Essendo il p.v.c. un atto istruttorio le cui risultanze trovano conclusione nell’avviso di accertamento posto in essere dall’Ufficio fiscale competente, ne consegue che è possibile contestare il suo contenuto mediante ricorso alla Commissione Tributaria Provinciale avverso il suddetto avviso di accertamento. Accertamento che può anche essere motivato per relationem al processo verbale della Guardia di Finanza così come affermato dalla Corte di Cass. con sent. del 30 settembre 2009 n.21030.

Il rispetto delle norme previste a tutela del contribuente nel corso della verifica si rivela estremamente importante, in quanto la relativa inosservanza comporta l’inutilizzabilità delle prove irregolarmente acquisite (vedi Corte di cassazione, Sez. trib., n. 15209/2001, Id., n. 15230/2001). 

 

Definizione bonaria della verifica

Il contribuente anziché presentare le osservazioni di cui sopra potrebbe anche ritenere più conveniente accettare il contenuto del processo verbale di constatazione qualora i rilievi possano dar luogo ad un accertamento parziale di maggior reddito imponibile (art. 41-bis del D.P.R. n. 600/1973) e chiudere la verifica con la definizione agevolata prevista dal D.L. 25 giugno 2008, n. 112, convertito dalla legge n.133/2008 nella quale è prevista la riduzione delle sanzioni ad un ottavo del minimo.

Anche dopo la presentazione delle osservazioni può essere richiesta all’Ufficio la formulazione di un accertamento con adesione, con il quale però le sanzioni sono ridotte ad un quarto del minimo: tale definizione può risultare più conveniente della prima se i rilievi dei verificatori presentano anomalie ed errori molto evidenti e si confida nel ridimensionamento dei valori indicati nel processo verbale di constatazione con maggiori ricavi o maggior reddito in sede di riesame del processo verbale di constatazione da parte dell’Ufficio. Tale riesame è comunque un atto necessario da parte dell’Ufficio al fine di adempiere all’obbligo di motivazione degli atti emessi.

Qualora dal processo verbale di constatazione emergano solo rilievi formali non è possibile l’adesione con la riduzione delle sanzioni ad un ottavo del minimo.

 

4.Gli accessi

Ai sensi e per gli effetti dell’art. 52 del D.P.R. 26 ottobre 1972, n. 633 e dell’art. 33 del D.P.R. 29 settembre 1973, n. 600, l’amministrazione finanziaria può disporre l’accesso dei propri impiegati (funzionari dell’Agenzia delle Entrate e/o militari della Guardia di Finanza), presso i locali destinati all’esercizio d’attività commerciali, agricole, artistiche o professionali per procedere ad ispezioni documentali, verificazioni e ricerche e ad ogni altra rilevazione ritenuta utile per l’accertamento dell’imposta e per la repressione dell’evasione e delle altre violazioni.

L’accesso è un intervento specifico e non protratto nel tempo, finalizzato all’acquisizione di materiale istruttorio e compiuto a seguito delle ricerche preliminari svolte presso l’ufficio; esso consente di procedere, nei luoghi ove il contribuente svolge la propria attività, a:

– ispezioni documentali;

– ricerche di atti e documenti;

– verifiche;

– ogni altra indagine utile ai fini dell’accertamento.

In particolare, i funzionari che eseguono l’accesso devono essere preventivamente muniti di una specifica autorizzazione (o foglio di servizio) che ne indica lo scopo dell’intervento, che deve essere rilasciata dal capo dell’ufficio da cui dipendono prima di effettuare l’accesso.

 

4.1AUTORIZZAZIONE

Gli impiegati dell’Amministrazione finanziaria ed i militari della Guardia di Finanza designati della esecuzione della verifica giusta la previsione del 1° comma dell’art. 52, D.P.R. 633/1972, richiamato anche nell’art. 33, D.P.R. 600/1973 – devono essere muniti di apposita autorizzazione che ne indica lo scopo, rilasciata dal capo dell’Ufficio o dal comandante del reparto da cui dipendono.

Per gli impiegati degli Uffici finanziari, le autorizzazioni dovranno essere sempre rilasciate dal direttore dell’Agenzia delle Entrate nella cui circoscrizione ha sede il soggetto da sottoporre a verifica.

Per i militari della Guardia di Finanza è prescritto il “foglio di servizio” nel quale è trascritto, per ogni luogo presso il quale è previsto l’intervento, il relativo ordine di accesso.

L’autorizzazione deve essere esibita al contribuente o alla persona che lo rappresenta, unitamente alle tessere personali di riconoscimento degli stessi verificatori, al momento dell’accesso.

Attraverso le descritte formalità al contribuente è data la possibilità di avere esatta cognizione della identità dei verificatori e di conoscere l’ambito operativo – desumibile dall’autorizzazione o dal foglio di servizio – entro il quale gli stessi possono agire.

Il panorama delle autorizzazioni previste con riferimento all’esercizio dei poteri di Polizia Tributaria è assai articolato. Si riscontrano:

autorizzazioni dello stesso capo dell’Ufficio, come quelle previste per procedere all’accesso nei locali destinati all’esercizio di attività commerciali, agricole o professionali (art. 52, primo comma, del D.P.R. 26 ottobre 1972, n. 633), per prolungare di trenta giorni gli accessi (art. 12, comma 5, della legge 27 luglio 2000, n. 212, Statuto dei diritti del contribuente), per tornare presso i locali del contribuente una volta decorso il periodo di permanenza ordinario, eventualmente prorogato (art. 12, comma 5, della legge n. 212/2000);

autorizzazioni di un organo sovra-ordinato, ad esempio il Direttore centrale dell’accertamento o la Direzione regionale delle entrate (o il Comandante regionale della Guardia di finanza), come quelle previste per richiedere alle banche, Poste, intermediari finanziari e simili dati, notizie e documenti relativi a qualsiasi rapporto intrattenuto od operazione effettuata, ivi compresi i servizi prestati, con i loro clienti, nonché le garanzie prestate da terzi (art. 32, primo comma, n. 7, del D.P.R. 29 settembre 1973, n. 600 e art. 51, secondo comma, n. 7, del D.P.R. n. 633/1972), per richiedere ad Autorità ed enti notizie, dati, documenti ed informazioni di natura creditizia, finanziaria ed assicurativa, relativi alle attività di controllo e di vigilanza svolte dagli stessi (art. 32, primo comma, n. 7-bis, del D.P.R. n. 600/1973 e art. 51, secondo comma, n. 7-bis, del D.P.R. n. 633/1972), per procedere all’accesso presso banche e Poste allo scopo di rilevare direttamente i dati e le notizie già richiesti, quando questi non sono stati trasmessi nei termini stabiliti o l’Ufficio abbia fondati sospetti che quelli trasmessi siano incompleti o inesatti (art. 33, secondo comma, del D.P.R. n. 600/1973 e art. 52, undicesimo comma, del D.P.R. n. 633/1972);

autorizzazioni dell’Autorità giudiziaria, in particolare del Procuratore della Repubblica (in alternativa al quale, talvolta, è indicata l’Autorità giudiziaria più vicina), come quelle previste per procedere all’accesso in locali che, oltre ad essere destinati all’esercizio di attività commerciali, agricole, artistiche o professionali, sono anche adibiti ad abitazione (art. 52, primo comma, del D.P.R. n. 633/1972), per procedere all’accesso in locali diversi da quelli richiamati (art. 52, secondo comma, del D.P.R. n. 633/1972), per procedere, nel corso di un accesso, a perquisizioni personali, all’apertura coattiva di plichi sigillati, borse, casseforti, mobili, ripostigli e simili, all’esame di documenti relativamente ai quali è eccepito il segreto professionale (art. 52, terzo comma, del D.P.R. n. 633/1972).

 

Nell’articolato panorama delle autorizzazioni previste con riferimento all’esercizio dei poteri di Polizia Tributaria particolare importanza riveste la problematica della graduazione dell’intensità della tutela apprestata dallo strumento in ragione della rilevanza dell’interesse privato che è minacciato dall’utilizzo dei poteri istruttori. Laddove ad essere a rischio sono i diritti fondamentali della persona, riconosciuti e protetti dalla Costituzione, il compito di rilasciare l’autorizzazione è attribuito all’Autorità giudiziaria.

L’ autorizzazione deve contenere:

– il comando della Guardia di Finanza o l’ufficio di appartenenza dell’Agenzia delle Entrate;

– le generalità e/o i dati identificativi del contribuente sottoposto a verifica;

– le generalità dei militari (Guardia di Finanza) o dei funzionari operanti (Agenzia delle Entrate);

– il tipo di intervento (es. verifica sostanziale, specificando anche le annualità sottoposte a controllo) e le relative fonti normative che legittimano i poteri di accesso e verifica;

– la data ed il luogo di esecuzione;

– la firma del capo dell’Ufficio o del Comandante del reparto

Se il contribuente si oppone all’accesso, i verificatori, richiedendo l’intervento della Guardia di Finanza o di un altro organo di polizia, possono ugualmente effettuare l’accesso. In tale ipotesi, il contribuente è esposto alle conseguenze previste dalla legge (art. 337 c.p.p. art. 53 co.1 n. 4 DPR 600/73).

La polizia tributaria – a norma dell’art. 35 della L. 7.1.1929, n. 4può accedere in qualunque ora negli esercizi pubblici e in ogni locale adibito ad una azienda industriale o commerciale allo scopo di eseguire verificazioni e ricerche.

La fase dell’esecuzione della verifica inizia, spesso, con l’effettuazione di un accesso preliminare informale presso il soggetto da verificare per concludersi con la stesura del processo verbale di constatazione.

Tale accesso consente di rendersi conto del luogo ove successivamente i verificatori devono recarsi e permette di avere un quadro dei luoghi più completo.

L’accesso può avere luogo nei locali destinati all’esercizio di attività commerciali e agricole, che possono essere sia quelli dichiarati dal contribuente ai sensi dell’art. 35, D.P.R. n. 633/1972, sia quelli nei quali è svolta di fatto l’attività (negozi, stabilimenti, filiali, succursali, sedi secondarie, depositi, magazzini, ecc.).

Si evidenzia a tale riguardo che l’accesso presso l’azienda può svolgersi anche in mancanza del titolare, al quale dovrà poi essere notificata l’autorizzazione all’accesso e tutte le verbalizzazioni eseguite in sua assenza.

È possibile compiere accessi e verifiche anche presso gli autoveicoli ed i natanti adibiti al trasporto di persone, merci in conto proprio o conto terzi intestati all’impresa sottoposta a verifica. La verifica può essere effettuata con lo stesso ordine di accesso rilasciato per i locali destinati all’attività. Per le imprese individuali, devono considerarsi appartenenti alla ditta esclusivamente quegli autoveicoli e natanti inseriti nella contabilità della medesima.

 

4.2ACCESSO presso L’ABITAZIONE e negli altri locali diversi dal domicilio fiscale del contribuente

Per accedere in locali che siano adibiti anche ad abitazione (c.d. uso promiscuo), è necessaria anche l’autorizzazione del Procuratore della Repubblica.

In ogni caso, l’accesso nei locali destinati all’esercizio di arti o professioni deve essere eseguito in presenza del titolare dello studio o di un suo delegato.

Ad esempio, qualora l’amministrazione finanziaria effettui una verifica fiscale nei confronti di un professionista (Architetto, Avvocato, Ingegnere) i funzionari operanti, prima di procedere all’accesso presso i locali ove viene esercitata l’attività professionale, dovranno richiedere ed ottenere la presenza del professionista, ovvero di una persona da lui appositamente delegata.

L’abitazione privata del contribuente è tutelata dall’art. 14 della Costituzione, e quindi può essere effettuato solamente con l’autorizzazione del Procuratore della Repubblica e in caso di gravi indizi di violazione delle norme fiscali, conformemente al disposto dell’art. 52 co. 2 DPR 633/72 altrimenti

l’autorizzazione allaccesso domiciliare è illegittima così come affermato chiaramente dalla sentenza della Suprema Corte, Sez. V del 20-03-2009 n. 6836.2

Inoltre, è in ogni caso necessaria l’autorizzazione del Procuratore della Repubblica o dell’Autorità Giudiziaria più vicina per procedere, durante l’accesso, a perquisizioni personali e all’apertura coattiva di pieghi sigillati, borse, casseforti, mobili, ripostigli e simili e per l’esame di documenti e la richiesta di notizie relativamente ai quali è eccepito il segreto professionale (ferme restando le disposizioni previste dall’art. 103 del codice di procedura penale che detta le disposizioni in tema di garanzie di libertà del difensore).

L’ispezione documentale può anche essere estesa a tutti i libri, registri, documenti e scritture, compresi quelli la cui tenuta e conservazione non sono obbligatorie, che si trovano nei locali in cui l’accesso viene eseguito, o che sono comunque accessibili tramite apparecchiature informatiche installate nei locali aziendali (es. acquisizione di dati contenuti nei computer aziendali ed altri supporti informatici in uso ai dipendenti dell’impresa verificata).

Il provvedimento autorizzatorio – che deve essere motivato, anche per relationem – ha natura amministrativa e non giurisdizionale ed è sindacabile davanti al giudice tributario.

Secondo la consolidata giurisprudenza del Consiglio di Stato, Sez. IV, 19 aprile 1995, n. 264 gli atti «preparatori » dell’accertamento tributario, costituendo una fase del procedimento stesso, non possono formare oggetto di accesso (se non al termine del procedimento medesimo, individuato nel provvedimento impugnabile, cioè nell’avviso di accertamento) e non possono essere oggetto di impugnazione davanti alla giurisdizione tributaria né a quella amministrativa, se non in occasione dell’impugnazione del provvedimento impositivo.

Tale linea interpretativa è condivisa anche dalla giurisprudenza di legittimità, la quale, con una recente pronuncia della Cassazione a Sezioni Unite, Cass., SS.UU., 16 marzo 2009, n. 6315 ha ribadito che:

a) nella disciplina del contenzioso tributario quale risultante dal D.Lgs. 31 dicembre 1992, n. 546, la tutela giurisdizionale dei contribuenti, con riguardo ai tributi cui le norme citate fanno riferimento, è affidata in esclusiva alla giurisdizione delle Commissioni tributarie, concepita comprensiva di ogni questione afferente all’esistenza ed alla consistenza dell’obbligazione tributaria;

b) tale esclusività non è suscettibile di venir meno in presenza di situazioni di carenza di un provvedimento impugnabile e, quindi, di impossibilità di proporre contro tale provvedimento quel reclamo che costituisce il veicolo di accesso, ineludibile, a detta giurisdizione perché siffatte «situazioni » ( «quando fattualmente riscontrate ») incidono «unicamente sull’accoglibilità della domanda (ossia sul merito), valutabile esclusivamente dal giudice avente competenza giurisdizionale sulla stessa, e non già sulla giurisdizione di detto giudice »;

c) la giurisdizione (piena ed esclusiva) del giudice tributario non ha ad «oggetto » solo gli atti per così dire «finali » del procedimento amministrativo di imposizione tributaria (ovverosia gli atti definiti, propriamente, come «impugnabili » dall’art. 19 del D.Lgs. n. 546/1992), ma investe tutte le fasi del procedimento che hanno portato all’adozione ed alla formazione di quell’atto, tanto che l’eventuale giudizio negativo in ordine alla legittimità e/o alla regolarità (formale e/o sostanziale) su un qualche atto «istruttorio » prodromico può determinare la caducazione, per illegittimità derivata, dell’atto «finale» impugnato;

d) gli atti istruttori fiscali non sono autonomamente impugnabili, proprio perché hanno carattere infraprocedimentale.

Da quanto sopra deriva, quindi, che gli atti prodromici o strumentali all’accertamento fiscale, come è definibile anche l’autorizzazione all’accesso domiciliare rilasciata dal Procuratore della Repubblica, non possono formare oggetto di autonoma impugnazione, né davanti al giudice tributario, né, tantomeno, davanti a quello amministrativo (in particolare quando si verta, come è per l’autorizzazione all’accesso, in tema di diritti soggettivi e non di interessi legittimi), in quanto la loro eventuale illegittimità potrà essere fatta valere in uno con l’impugnazione del provvedimento finale, vale a dire dell’avviso di rettifica o di accertamento.

I gravi indizi di violazioni, che sono presupposto legittimante per l’accesso nei locali adibiti esclusivamente ad abitazione, non sono necessari per gli accessi presso locali a «destinazione promiscua» (essendo sia abitazione che luogo ove è esercitata l’attività).

Non ricorre la promiscuità dei locali se l’abitazione, pur trovandosi nello stesso edificio, è distinta dal luogo di lavoro, né se l’abitazione, pur comunicante con il luogo di esercizio dell’attività, è da questo divisa da una porta chiusa e provvista di due separati ingressi.

Se il soggetto si oppone all’accesso o non esibisce in tutto o in parte le scritture, si applicano le disposizione del co. 5 dell’art. 52 del D.P.R. n. 633/1972, il che comporta che i libri, i registri, le scritture e i documenti di cui è rifiutata l’esibizione non possono essere presi in considerazione a favore del contribuente ai fini dell’accertamento in sede amministrativa o contenziosa come sancito chiaramente dalla Corte di Cassazione con sentenza del 25 gennaio 2010 n.1344

Per rifiuto di esibizione si intende anche la dichiarazione di non possedere i libri, registri, documenti e scritture, e la loro sottrazione all’ispezione. In alcune circostanze, non si tratta di un vero e proprio rifiuto volontario del soggetto controllato ma semplicemente della dichiarazione di questi di non possedere i documenti di cui è ne è stata richiesta l’esibizione. Il problema che ne consegue è stabilire se, alla luce del quadro normativo vigente, il rifiuto opposto dal contribuente si preclusivo alla successiva esibizione di quella stessa documentazione nella seguente fase contenziosa laddove la Suprema Corte con sentenza del 22 ottobre 2010 n.21665 ha sancito per i controlli “ a tavolino” la mancata esibizione di quanto richiesto non può essere giustificata dalla semplice dimenticanza.

È quindi indispensabile che il professionista, contestualmente alla ricezione della documentazione obbligatoria, provveda a rilasciare la prescritta attestazione.

A uffici fiscali e Guardia di Finanza è consentito di accedere presso le pubbliche amministrazioni, gli istituti di credito e gli uffici postali:

– per rilevare direttamente dati e notizie richieste e non comunicate entro il termine previsto;

– (ovvero) se vi sono fondati sospetti sull’incompletezza o inesattezza dei dati e notizie trasmessi da tali soggetti.

Gli accessi presso le aziende e istituti di credito e le Poste Italiane spa devono essere previamente autorizzati dal direttore regionale dell’Agenzia delle Entrate e, per la G.d.F., dal Comandante di zona.

Le ispezioni e le rilevazioni devono essere eseguite alla presenza del responsabile della sede o dell’ufficio o di un suo delegato, che deve darne immediata notizia al contribuente interessato.

I verificatori possono pure accedere (in forza degli artt. 33 del D.P.R. n. 600/1973 e 52 del D.P.R. n. 633/1972) presso gli organi e le Amministrazioni dello Stato, gli enti pubblici non economici, le società ed enti assicurativi e quelli che effettuano istituzionalmente riscossioni e pagamenti per conto di terzi, ovvero gli enti di gestione e di intermediazione finanziaria, per avere notizie in merito alle prestazioni rese a favore del contribuente o di categorie di contribuenti, se ciò è necessario per la rilevazione diretta dei dati e delle notizie per i quali in precedenza sia stata inviata una richiesta ai sensi dell’art. 32, co. 1, n. 5), del D.P.R. n. 600/1973.

A chiusura della verifica, qualora siano stati constatati reati fiscali, sarà inoltrato rapporto alla Procura della Repubblica territorialmente competente, con l’esposizione dei fatti penalmente rilevanti, nel modo più completo possibile. Infatti, per effetto di quanto disposto dall’art. 331 del c.p.p., i verificatori che, nell’esercizio o a causa delle loro funzioni, hanno notizia di un reato perseguibile d’ufficio, devono presentare o trasmettere denuncia, senza ritardo al P.M. o ad un ufficiale di polizia giudiziaria. La denuncia, redatta per iscritto, contenente la sommaria esposizione dei fatti, le fonti di prova, il giorno dell’acquisizione della notizia, le generalità della persona a cui i fatti sono attribuibili, nonché quant’altro necessario per meglio rappresentare i fatti constatati, va sottoscritta da tutti i componenti del nucleo di verifica

 

4.3.ACCESSO nell’AZIENDA SENZA AUTORIZZAZIONE del CAPO dell’UFFICIO – UTILIZZABILITA’ dei DATI RINVENUTI

L’art. 33, co. 1, D.P.R. 29.9.1973, n. 600, concernente le modalità di accesso alle aziende nell’ambito degli accertamenti (e che richiama l’art. 52, D.P.R. 26.10.1972, n. 633), richiede l’autorizzazione del capo dell’Ufficio, ma non prevede, in caso questa manchi, alcuna nullità (a differenza del caso in cui l’accesso sia effettuato presso il domicilio della persona fisica senza autorizzazione del Procuratore della Repubblica).

Per tale motivo, secondo la Cass. 12.2.2010, n. 3388, l’accesso presso un centro elaborazione dati quale appendice dell’azienda sottoposta alle indagini della Guardia di finanza, senza l’autorizzazione prevista, non comporta l’inutilizzabilità dei dati rinvenuti presso tale centro (nella specie, la contabilità dell’azienda su appositi file), poiché non esiste un’esplicita previsione in tal senso. Per tale motivo, gli organi di controllo possono utilizzare tutti i documenti di cui siano venuti in possesso, fatta salva la verifica della loro attendibilità , in considerazione della loro natura e del loro contenuto.

E’ una statuizione importante, atteso che soprattutto le Commissioni Tributarie hanno spesso deciso in senso contrario, ritenendo che l’illegittimità dell’acquisizione documentale ne comportasse l’inutilizzabilità. I Supremi Giudici, invece, con la sentenza hanno affermato chiaramente che non esiste una simile previsione normativa e, pertanto, anche in presenza di acquisizione irrituale di elementi probatori, gli stessi devono essere ammessi in giudizio.

Per quanto concerne la circostanza che, nel caso concreto, la contabilità fosse trascritta e custodita su file, la Cassazione sottolinea come questi ultimi siano da considerarsi a tutti gli effetti scritture dell’impresa poiché, contenendo il riferimento a dati parzialmente extracontabili, raggruppati in prospetti, essi forniscono con sufficiente probabilità il reale quadro della situazione aziendale, fornendo perciò presunzioni gravi, precise e concordanti.

In particolare, secondo un consolidato orientamento della giurisprudenza di legittimità , la cd. “contabilità in nero“, costituita da appunti personali, annotazioni o informazioni dell’imprenditore, costituisce un valido elemento indiziario avente i requisiti della gravità, della precisione e della concordanza richiesti dall’art. 39, D.P.R. 600/1973. Infatti, devono ricomprendersi tra le scritture contabili di cui all’art. 2709 c.c. tutti i documenti che registrino, in termini quantitativi o monetari, i singoli atti di impresa o che rappresentino la situazione patrimoniale e il risultato economico dell’attività svolta, spettando al contribuente l’onere di fornire la prova contraria.

Di conseguenza, quando, a seguito di un’ispezione, venga rinvenuta una documentazione non obbligatoria che si dimostri astrattamente idonea ad evidenziare l’esistenza di operazioni non contabilizzate, tale documentazione, anche in assenza di irregolarità contabili, non può essere ritenuta di per sé priva di rilevanza probatoria dal giudice.

 

4.4.ACCESSO in LOCALI di TERZI SENZA AUTORIZZAZIONE della PROCURA – DOCUMENTAZIONE ILLEGITTIMAMENTE ACQUISITA – NULLITA’ dell’AVVISO di ACCERTAMENTO

Secondo la Corte di Cassazione, Sez. trib., Sentenza 19.1-28.4.2010, n. 10137 costituisce una violazione dell’art. 52, D.P.R. 26.10.1972, n. 633, in riferimento all’art. 360 c.p.c., l’arbitrario accesso da parte della Guardia di finanza in un locale estraneo all’impresa verificata, a seguito del quale sia stata effettivamente rinvenuta la documentazione extracontabile dell’impresa stessa, in base alla quale venga poi emesso un avviso di accertamento. In particolare, nel caso concreto, la G.d.f. aveva illegittimamente acquisito gli elementi probatori, ricondotti poi alla società verificata, poiché aveva effettuato un accesso in un locale assolutamente estraneo all’attività imprenditoriale e senza alcuna autorizzazione da parte del Procuratore della Repubblica.

A tale ultimo riguardo, la Cassazione sottolinea, infatti, che nella motivazione della sentenza di merito non risulta provato che il rinvenimento della documentazione in questione da parte della Guardia di finanza sia avvenuto in locali adibiti al commercio o connessi ad esso, o per i quali non fosse comunque necessaria la specifica autorizzazione della Procura della Repubblica.

Per tali motivi, essendosi appunto verificata una violazione dell’art. 52, D.P.R. 633/1972, l’avviso di accertamento emesso in base alla documentazione così acquisita deve ritenersi nullo.

 

5.GLI ACCESSI negli studi professionali:

Segreto professionale

In base al comma 1 dell’art. 52 del D.P.R. n. 633/1972 l’accesso è consentito non solo nei locali destinati all’esercizio di attività industriali, commerciali e agricole ma anche presso gli studi professionali. Tale accesso è consentito o semplicemente previa esibizione dell’autorizzazione che ne indica lo scopo rilasciata dal capo dell’ufficio da cui dipendono o, nel caso lo studio sia adibito anche ad abitazione privata, a tale autorizzazione deve essere affiancata quella rilasciata dal Procuratore della Repubblica. Infine la norma sempre al comma 1 sancisce che in ogni caso l’accesso nei locali adibiti all’esercizio di arti e professioni deve essere eseguito in presenza del titolare dello studio o di un suo delegato.

Al riguardo, la legge non dispone concrete modalità con cui i verificatori devono accertarsi della presenza del professionista al momento dell’accesso, per cui, qualora il professionista sia assente all’avvio delle operazioni ispettive, i verificatori non possono intervenire d’autorità, né richiedere l’assistenza di terzi.

La prassi adottata dagli organi di controllo prevede di contattare, subito dopo avere iniziato l’accesso presso lo studio, il professionista titolare dello stesso, al fine di concordare il suo rientro presso l’ufficio, ovvero il rilascio, anche via fax, di apposita delega al dipendente presente in quel momento o ad altra persona di fiducia immediatamente reperibile. Quanto detto va integrato con quanto disposto dal comma 3 dell’art. 52 del D.P.R. n. 633/1972 che aggiunge che è in ogni caso necessaria l’autorizzazione del Procuratore della Repubblica o dell’autorità giudiziaria più vicina per procedere durante l’accesso all’esame dei documenti o alla richiesta di notizie relativamente ai quali è eccepito il segreto professionale ferma restando la norma di cui all’art. 103 del codice di procedura penale sulle garanzie di libertà del difensore.

In via generale, la tutela del segreto professionale si impernia sull’art. 622 del codice penale, ove è previsto il delitto di indebita rivelazione di notizie apprese in ragione del proprio stato, ufficio o professione.

Tale segreto è salvaguardato in ragione dell’esigenza di tutelare l’interesse privato alla riservatezza dei clienti che si rivolgono ad un professionista e dell’esigenza di tutelare l’interesse pubblico a non scoraggiare il ricorso a prestazioni professionali che richiedono la conoscenza di notizie riservate sul conto del cliente.

Sul piano penale-processuale, la tutela del segreto professionale è garantita sotto i profili:

• della facoltà di astenersi dal testimoniare su quanto conosciuto per ragione della propria professione (art. 200 del codice di procedura penale);

• della possibilità di opporsi all’esibizione di atti e documenti richiesti dall’Autorità giudiziaria, dichiarando per iscritto che si tratta di notizie coperte dal segreto professionale (art. 256 del codice di procedura penale).

Si sottolinea a tal proposito che il segreto professionale è una garanzia di ordine generale in favore del rapporto confidenziale tra cliente e professionista ed in virtù della quale quest’ultimo ha il diritto-dovere di garantire al proprio assistito il massimo riserbo su ciò che gli è stato confidato. È d’obbligo sottolineare però che il ricorso al segreto professionale è del tutto eventuale potendo opporsi solo dai professionisti per i quali è oggetto di apposita tutela come ad esempio per i professionisti iscritti negli ordini professionali, albi o appartenenti a categorie protette e solo per atti e documenti che riguardano terzi e che comunque rivestano un interesse diverso da quelli economici e fiscali degli stessi.

In ogni caso di verifica riguardante il professionista sembra lecito ritenere che il verificatore possa estendere le ricerche ai fascicoli dei clienti ma solo per acquisire dei documenti che costituiscono prova dei rapporti finanziari intercorsi tra professionisti e clienti.

Per contro, sarebbe irrituale l’eventuale acquisizione di documenti riguardanti soggetti diversi dal professionista e ad essa, perciò, il professionista potrebbe opporre non solo il segreto professionale ma anche il difetto di legittimazione dei verificatori ad incidere su sfere di persone estranee a quelle del professionista interessato alla verifica.

Per i professionisti si può riassumere dicendo che in caso di verifica nei loro confronti i verificatori possono consultare i fascicoli dei clienti soltanto per evidenziare i rapporti finanziari con il professionista; in caso di verifica al cliente dello studio i verificatori possono consultare solo i libri e i documenti del cliente che il professionista è tenuto ad esibire.

In entrambi i casi il professionista può opporre il segreto professionale ma i verificatori possono richiedere l’autorizzazione dell’Autorità Giudiziaria per procedere ugualmente. Nel caso in cui l’autorizzazione venga concessa, il silenzio della norma porta ad escludere qualsiasi forma di appello da parte del professionista, anche se parte della dottrina ritiene percorribile il rimedio dell’art. 700 del codice di procedura civile.

La competenza a decidere sull’annullamento di tale autorizzazione è del giudice tributario (in esito all’impugnazione dell’accertamento) e non di quello amministrativo (in via immediata).Pertanto, lo schema delineato dal legislatore con l’art.52, comma 3, del D.P.R. 26 ottobre 1972, n. 633 importa che la tutela giurisdizionale sia attivabile solo in futuro, se e quando l’Amministrazione finanziaria provvederà a notificare l’avviso di accertamento. In sostanza, l’autorizzazione del magistrato è considerata atto endoprocedimentale, non immediatamente impugnabile, sicchè eventuali vizi vanno fatti valere, in base al principio della nullità derivata, soltanto in sede di impugnazione dell’atto impositivo.

È questo il punto chiave della sent. 7 maggio 2010, n. 11082 delle Sezioni Unite della Corte di Cassazione, pronunciata al termine di una complessa vicenda giudiziaria che appare opportuno ripercorrere.

Qualora l’Autorità giudiziaria non dovesse rilasciare l’autorizzazione, si deve ritenere che i verificatori potrebbero reiterarla offrendo nuove motivazioni.

L’importanza degli interessi coinvolti nel caso di opposizione del segreto professionale dovrebbe riflettersi sull’autorizzazione che ne dispone il superamento. Essa, infatti, dovrebbe soffermarsi sulla presenza dei presupposti per la concessione e sulla effettiva necessità di derogare al segreto professionale e non essere concessa – come quasi sempre accade – sulla base di “motivazioni stereotipe o al ciclostile”.

Tra i presupposti di concessione della deroga è da comprendere anche la verifica dell’esistenza di “gravi indizi di violazione delle norme”, come emerge da una lettura coordinata tra il terzo ed il secondo comma dell’art. 52 del D.P.R. n. 633/1972. In particolare, il Procuratore della Repubblica è chiamato a verificare: l’esistenza di indizi di violazione di disposizioni tributarie; la gravità di tali indizi; la fondatezza o meno dell’eccezione relativa al segreto professionale.

Ma di tali valutazioni, almeno in genere, non vi è traccia. Ed accade che nessuna motivazione sia addotta né circa l’esistenza di gravi indizi di violazione, né circa la fondatezza dell’opposizione del segreto professionale.

Quasi mai, peraltro, è accaduto che le Commissioni tributarie abbiano annullato un avviso di accertamento per ragioni inerenti all’insufficienza del provvedimento autorizzatorio. La Corte di Cassazione, inoltre, intervenendo in controversie inerenti all’autorizzazione di cui all’art. 52, comma 2, del D.P.R. n. 633/1972 3 ha più volte ritenuto sufficiente una motivazione sintetica ovvero costituita dal semplice richiamo alla nota dell’Amministrazione finanziaria contenente la richiesta della relativa adozione, facendo riferimento agli indizi di violazione della norma tributaria che giustificano la richiesta.

L’intento della normativa (richiesta dell’autorizzazione all’Autorità Giudiziaria per procedere ugualmente) è quello di evitare che il segreto professionale divenga facile occasione per occultare la documentazione. Sarebbe infatti sufficiente richiedere ad un professionista di detenere nell’interesse dei clienti ogni documentazione ad essi relativa per sottrarre tali documenti all’attività ispettiva.

Per quanto riguarda, invece, la rilevanza ai fini del controllo della posta elettronica, si ritiene che, come per la normale corrispondenza commerciale, siano direttamente acquisibili i messaggi già “aperti”, mentre quelli non ancora letti sarebbero da trattare secondo quanto previsto dall’art. 52, comma 3, del D.P.R. n. 633/1972, con la conseguente necessità, in caso di rifiuto opposto dal contribuente, di munirsi dell’autorizzazione dell’Autorità giudiziaria.

 

6.I diritti e le garanzie del contribuente

Il legislatore, con lo scopo di migliorare sempre più i rapporti fisco-contribuente, con la legge 27 luglio 2000, n. 212, ha introdotto nel nostro ordinamento lo «Statuto dei diritti del contribuente» il quale, con particolare riferimento alle modalità di svolgimento dei controlli fiscali, detta precise regole a garanzia del contribuente.

Nel suo complesso, lo Statuto si muove nella direzione di realizzare un giusto bilanciamento tra le opposte esigenze del Fisco e dei contribuenti, evitando arbitrarie ed eccessive compressioni delle posizioni giuridiche di questi ultimi, senza, nel contempo, ostacolare e compromettere l’attività degli Uffici.

Le disposizioni riguardano, nel particolare, i diritti e le garanzie del contribuente sottoposto a verifiche fiscali (art. 12), l’istituzione del Garante del contribuente (art. 13), l’emanazione del Codice di comportamento per il personale addetto alle verifiche tributarie (art. 15), il divieto di richiedere al contribuente documenti e informazioni già in possesso dell’Amministrazione finanziaria o di altre amministrazioni pubbliche (art. 6, comma 4), l’inapplicabilità delle sanzioni relative a violazioni formali (art. 10, comma 3).

Nel dettaglio:

• gli accessi presso locali destinati all’esercizio d’attività d’impresa o di lavoro autonomo devono essere motivati da “esigenze effettive d’indagine e controllo sul luogo”; salvo casi eccezionali e urgenti, devono essere adeguatamente documentati; si devono svolgere durante l’ordinario orario d’esercizio dell’attività e con modalità tali da comportare la minore turbativa possibile allo svolgimento dell’attività e alle relazioni commerciali o professionali (art. 12, comma 1);

• il contribuente ha diritto di essere informato, pertanto, all’inizio della verifica, “delle ragioni che l’abbiano giustificata e dell’oggetto che la riguarda, della facoltà di farsi assistere da un professionista abilitato alla difesa dinanzi agli organi di giustizia tributaria”; dei diritti che gli devono essere riconosciuti e degli obblighi cui è soggetto (comma 2);

• l’esame dei documenti amministrativi e contabili, su richiesta del soggetto controllato, “può essere effettuato nell’ufficio dei verificatori o presso il professionista che lo assiste o rappresenta” (comma 3);

• nel processo verbale delle operazioni di verifica si deve dare atto “Delle osservazioni e dei rilievi del contribuente e del professionista, che eventualmente lo assista” (comma 4);

• la permanenza presso la sede del contribuente “non può superare i trenta giorni lavorativi, prorogabili per ulteriori trenta giorni nei casi di particolare complessità dell’indagine, individuati e motivati dal dirigente dell’ufficio”; è, tuttavia, prevista la possibilità, decorso tale periodo, di un nuovo accesso “per esaminare le osservazioni e le richieste eventualmente presentate … dopo la conclusione delle operazioni di verifica” e per specifiche ragioni, previo assenso motivato del dirigente dell’ufficio (comma 5);

• la facoltà, per il soggetto controllato, qualora lo stesso “ritenga che i verificatori procedano con modalità non conformi alla legge”, di rivolgersi al Garante del contribuente (comma 6);

• la possibilità per il contribuente di comunicare, entro i 60 giorni successivi al rilascio della copia del processo verbale di chiusura delle operazioni, specifiche osservazioni e richieste agli uffici impositori (comma 7).

 

Accessi presso i locali destinati all’esercizio dell’attività

In particolare, tutti gli accessi, ispezioni e verifiche fiscali nei locali destinati all’esercizio di attività commerciali, industriali, agricole, artistiche o professionali sono effettuati sulla base di esigenze effettive di indagine e controllo sul luogo.

Sotto tale profilo, l’organo ispettivo dovrà evidenziare nel processo verbale di verifica quali sono le reali ed effettive esigenze di indagine e controllo presso la sede del contribuente.

L’art. 12, comma 2, della L. n. 212/2000 deve essere fondamentalmente interpretato e valutato come una norma rafforzativa della capacità del cittadino-contribuente di appurare, all’inizio della verifica, la sussistenza dell’interesse conoscitivo del Fisco ad esaminare la sua posizione tributaria, ricevendo un’informazione chiara e completa circa lo scopo del controllo.

A titolo meramente esemplificativo, si ritiene che possano giustificare l’accesso presso la sede della società, le sotto indicate effettive esigenze di indagine:

– effettuazione dell’inventario «fisico» della merce presente presso i magazzini aziendali;

– identificazione del personale dipendente, che si trova al momento dell’accesso all’interno dei locali dell’impresa, al fine di individuare eventuali lavoratori in «nero»;

– rilevazione della consistenza di cassa;

– acquisizione di documentazione extra – contabile utile al controllo fiscale, reperita in esito alle ricerche effettuate presso i locali aziendali (uffici, magazzini, automezzi ecc.), avvalendosi delle facoltà previste dall’art. 52 del D.P.R. n.633/1972 e 33 del D.P.R. n.600/1973.

Essi si devono svolgere, salvo casi eccezionali e urgenti adeguatamente documentati, durante l’orario ordinario di esercizio delle attività e con modalità tali da arrecare la minore turbativa possibile allo svolgimento delle attività stesse nonché alle relazioni commerciali o professionali del contribuente.

 

-Diritto d’informazione

Quando poi viene iniziata la verifica, il contribuente ha diritto di essere informato:

a) delle ragioni che l’abbiano giustificata;

b) dell’oggetto che la riguarda;

c) della facoltà di farsi assistere da un professionista abilitato alla difesa dinanzi agli organi di giustizia tributaria;

d) dei diritti e degli obblighi che vanno riconosciuti al contribuente in occasione delle verifiche.

Su richiesta del contribuente, l’esame dei documenti amministrativi e contabili può essere effettuato nell’Ufficio dei verificatori o presso il professionista che lo assiste o rappresenta.

Tuttavia, può verificarsi che in occasione dell’accesso non venga evidenziato per quali ragioni il contribuente sia sottoposto a controllo, o ancora durante o dopo la verifica, i funzionari decidano di estendere il controllo ad altre annualità, rispetto a quelle per le quali è stata inizialmente eseguita l’attività ispettiva, ma dette ragioni non vengono esplicitate al contribuente in nessun atto.

Da qui si pone il problema delle possibili conseguenze della chiara violazione al disposto dell’art. 12 dello Statuto ed in particolare se si verifichi o meno la nullità del successivo accertamento.

Di norma, a questo proposito, l’Ufficio replica evidenziando che non esiste nell’ordinamento una sanzione espressa di nullità per queste violazioni, con la conseguenza che l’accertamento resta valido ed efficace.

Viene poi, in genere, fatto notare che le eventuali nullità, previste in tema di accertamento, dall’art. 42 del D.P.R. 29 settembre 1973, n. 600, non contemplano tale casistica.

Particolarmente interessanti sul tema alcune recenti pronunce assunte dalle Commissioni tributarie provinciali di Milano e di Reggio Emilia.4

Nel caso della Commissione tributaria provinciale di Milano, l’Ufficio aveva effettuato una verifica attraverso l’acquisizione di informazioni tramite invio di questionari e successivi inviti al contraddittorio. Il contribuente lamentava la violazione dell’art. 12, comma 2, non essendo stati indicati, né nel questionario, né nell’invito a comparire presso l’Agenzia, le ragioni e l’oggetto della verifica e non essendo stato riportato l’avvertimento sulla facoltà di farsi assistere da un professionista.

Nel caso invece delle pronunce della Commissione tributaria provinciale di Reggio Emilia, la violazione della norma in questione veniva invocata perché l’Ufficio, dopo aver proceduto a eseguire una verifica per un periodo di imposta, successivamente, attraverso l’acquisizione di dati, relativi ad altri anni, tramite questionari, emanava accertamenti anche per questi ultimi periodi. Il contribuente lamentava dunque che era stato eseguito un controllo senza spiegare le ragioni e l’oggetto del medesimo.

In tutti questi procedimenti i giudici di merito hanno concluso per la nullità dell’accertamento che non necessita di una previsione espressa, essendo la naturale conseguenza della violazione di diritti del contribuente previsti per legge.

 

– Permanenza presso la sede del contribuente

La permanenza degli operatori civili o militari dell’amministrazione finanziaria, dovuta a verifiche fiscali effettuate presso la sede del contribuente, non può superare i trenta giorni lavorativi, prorogabili per ulteriori trenta giorni nei casi di particolare complessità dell’indagine individuati e motivati dal dirigente dell’ufficio.

La particolare attenzione dimostrata dalla norma è giustificata, infatti, dallo scopo di evitare che un’eccessiva permanenza si traduca, di fatto, in un eccessivo “disagio” per il contribuente ed in una distrazione dell’attività di questi a seguito della smisurata presenza in “casa propria” di soggetti estranei al ciclo economico; la realtà economica potrebbe, in questo modo, subire dei fisiologici rallentamenti.

La considerazione, tuttavia, perde parte del suo significato se si pensi che ad un ambito precettivo della norma, preciso e puntuale, non ha fatto seguito alcun chiara disciplina delle conseguenza derivanti dal mancato rispetto della disposizione: al riguardo il Legislatore tace. Sta di fatto, tuttavia, che lo Statuto stabilisce dei termini molto rigidi di permanenza.

Il rischio è che l’eccessivo zelo dimostrato in sede normativa possa precludere all’Amministrazione finanziaria l’adozione di scelte alternative, maggiormente elastiche ed incentrate su un agire di più ampio respiro, allo scopo dell’adozione della scelta più opportuna.

Quanto alla proroga di ulteriori trenta giorni ai trenta inizialmente previsti, l’art. 12, comma 5 è chiaro a prevederne la legittimazione, a condizione che detta proroga avvenga “nei casi di particolare complessità dell’indagine individuati e motivati dal dirigente dell’ufficio”.

I documenti di prassi della Guardia di finanza fanno notare che rientrano in tali contesti tutte le ispezioni fiscali condotte nei riguardi di soggetti di considerevoli dimensioni e che la proroga, motivata, deve essere portata a conoscenza del contribuente.

Nell’arco della verifica è necessario effettuare un punto della situazione finalizzato a verificare la sussistenza dei requisiti di particolare complessità delle indagini indispensabili per giustificare l’eventuale proroga o per proseguire e terminare l’attività presso gli uffici.

La proroga deve essere disposta con giusta comunicazione motivata rivolta al contribuente e allegata al foglio di servizio redatto per il 31° giorno e, inoltre, copia di tale comunicazione deve essere consegnata, per notifica, al contribuente e, dell’avvenuta notifica, deve essere dato atto nel verbale di verifica.

Nel calcolo dei giorni di permanenza presso la sede del contribuente, rientrano solo le giornate lavorative effettivamente trascorse dai verificatori presso la sede del contribuente, con esclusione quindi dei giorni effettivi desumibili dal «calendario».

La scelta delle strategie ispettive deve essere eseguita tenendo conto che è consentita la possibilità di ritornare nella sede del contribuente, decorso il termine massimo di permanenza, per esaminare le osservazioni e le richieste, eventualmente presentate, dopo la conclusione delle operazioni di verifica e per “specifiche ragioni”.

L’orientamento delle Commissioni tributarie è stato, in questi anni, abbastanza alterno: a fronte di decisioni che hanno avallato l’interpretazione dell’Amministrazione, ritenendo quindi irrilevante, ai fini della legittimità dell’avviso di accertamento, la durata delle operazioni ispettive, non sono mancate decisioni di tutt’altro tenore che, invece, hanno ritenuto il mancato rispetto di questo termine una violazione ad una prescrizione normativa e ad un diritto del contribuente, cui deve conseguire la nullità dell’avviso di accertamento successivamente emanato.

In tale filone giurisprudenziale si inserisce la recente pronuncia della Commissione tributaria provinciale di Terni5, ma occorre segnalare che, ad analoghe conclusioni, sono pervenute, sempre recentemente, le Commissioni tributarie regionali del Piemonte e della Lombardia6

Anche la Cassazione è stata investita della questione che con sentenza del, 18 dicembre 2009, n. 26689 ha accolto il ricorso del contribuente che lamentava, tra l’altro, l’eccessiva durata del controllo fiscale.

 

Il Garante del contribuente

L’art. 13 dello Statuto dei diritti del contribuente ha istituito, presso ogni Direzione Regionale delle Entrate e Direzione delle Entrate delle province autonome, il Garante del contribuente, un organo collegiale formato da tre componenti scelti dalla Commissione tributaria regionale.

Esso ha il compito di verificare, attraverso accessi agli uffici e esame della documentazione, le eventuali irregolarità, le scorrettezze e le disfunzioni dell’attività fiscale segnalate dai contribuenti.

I poteri di questo organo consistono in richieste di informazioni, nell’attivazione delle procedure di autotutela (annullamento di atti illegittimi da parte dell’Amministrazione finanziaria), nel richiamo degli Uffici al rispetto delle norme a garanzia dei diritti del contribuente.

Le funzioni e i poteri del Garante possono essere così sintetizzati:

• richiama gli uffici al rispetto dei termini per l’erogazione dei rimborsi (comma 10, art. 13);

• attiva le procedure di autotutela per atti di accertamento e di riscossione (comma 6, art. 13);

• ha il potere di accedere presso gli uffici finanziari per controllare la piena funzionalità dei servizi di assistenza, per verificare l’agibilità degli spazi aperti al pubblico;

• ha il potere di verificare se l’Amministrazione finanziaria mette effettivamente a disposizione del contribuente presso ogni singolo ufficio testi legislativi coordinati ed aggiornati, al fine di consentire una corretta e facile informazione; e se vengono portate a conoscenza dei contribuenti, mediante un idoneo servizio informatico e telematico, circolari, risoluzioni, note di interesse generale, etc. sulla organizzazione e sui procedimenti, in relazione alle disposizioni di cui all’art. 5 dello Statuto (comma 9, art. 13);

• verifica inoltre se vengono rispettati i diritti e le garanzie dei contribuenti sottoposti ad accessi, controlli, ispezioni documentali e verifiche fiscali (comma 9, art. 13). Nel caso in cui le operazioni di verifica si dovessero svolgere in modo irrituale – sia da parte dei militari della Guardia di finanza che dai funzionari civili dell’Amministrazione finanziaria – il contribuente può rivolgersi al Garante per la tutela dei propri diritti ed interessi (comma 6, art. 12).

In merito, qualora il contribuente voglia formulare osservazioni e richieste, in relazione a presunte irregolarità commesse nei suoi confronti, dovrà inoltrare apposita istanza al Garante del contribuente.

 

-Diritto di comunicare considerazioni ed eccezioni agli uffici impositori

L’ultimo comma dell’art. 12 dello Statuto del contribuente prevede il diritto di comunicare entro 60 gg. osservazioni e richieste di cui è obbligatoria la valutazione da parte dell’Ufficio accertatore.

L’atto impositivo non può essere emanato entro tale termine, salvo particolare e motivata urgenza. L’urgenza potrebbe ravvisarsi nelle ipotesi in cui, ad esempio, a seguito dell’attività di verifica sia riscontrato un comportamento fraudolento del contribuente, oppure in tutti i casi in cui potrebbe essere imminente il rischio dell’insolvenza del debitore, o, ancora, in presenza di eventi naturali imprevedibili che potrebbero compromettere gli esiti dell’attività di verifica.

Quest’ultima prerogativa viene ad inserirsi in un progressivo recupero, da parte del Legislatore, del dialogo tra amministrazione finanziaria e contribuente e si pone l’evidente scopo di contenere il livello del contenzioso.

Due aspetti vengono qui in rilievo:

  • il primo attiene all’obbligo di valutazione dell’Ufficio accertatore delle osservazioni e richieste avanzate dal contribuente. Nell’avviso di accertamento, quindi, si dovrà adeguatamente illustrare l’iter logico a seguito del quale non si sono ritenuti pregnanti gli elementi addotti dalla controparte (che possono sfociare anche nell’annullamento dell’atto propulsivo), ovvero che di essi si è tenuto conto soltanto in modo parziale

  • il secondo attiene alla valenza preclusiva dell‘accertamento, il quale, in condizioni ordinarie, è inibito fino allo spirare del termine di 60 gg. dalla notifica del verbale di constatazione.

 

Negli anni vi sono state pronunce di merito, sia a favore, sia contrarie alla tesi della nullità dell’atto impositivo emesso in violazione a tali prescrizioni. La Corte di Cassazione con Ordinanza 18 luglio 2008 n. 19875 stabilisce che la notifica del provvedimento anteriormente allo scadere del termine di 60 giorni “non ne determina ipso iure la nullità stante la natura vincolata dell’atto rispetto al Pvc sul quale si fonda, in mancanza di una specifica previsione normativa in tal senso, perché resta comunque garantito al contribuente il diritto di difesa in via amministrativa (autotutela) e giudiziaria (ricorso alla Commissione tributaria)”.

A dirimere definitivamente ogni eventuale contrasto anche giurisprudenziale è intervenuta la Corte costituzionale con la ordinanza 24 luglio 2009, n. 244, nella quale, tra l’altro, viene affermato che l’immotivata notifica, nei sessanta giorni dal PVC, determina una ipotesi di nullità dell’atto impositivo.

La soluzione favorevole al contribuente (nullità dell’atto impositivo emesso prima dello scadere dei sessanta giorni) è stata indicata anche dall’Agenzia delle entrate, Direzione centrale accertamento, con la nota datata 14 ottobre 2009.

Con la sentenza 3 novembre 2010, n. 22320, la V sezione civile della Corte di cassazione, recependo quanto stabilito dalla Corte costituzionale con l’ordinanza n. 244 del 2009, fa espresso riferimento alla nullità dell’atto impositivo emanato prima della scadenza del termine di sessanta giorni.

Tale atto diventa nullo se non c’è una motivazione adeguata sulla particolare urgenza.

 

7.Inutilizzabilità di elementi probatori irritualmente acquisiti

Occorre ora affrontare quali sono le conseguenze che eventuali irregolarità possono comportare sull’ammissibilità delle relative prove.

Bisogna sin da ora sottolineare che il problema dell’utilizzabilità delle prove illegittimamente acquisite è stato basato, sia da gran parte della dottrina sia dalla giurisprudenza, sul presupposto che le informazioni acquisite nella fase istruttoria siano o meno utilizzabili come elementi probatori del successivo atto di accertamento, dando per assodato che la fase di controllo e quella di accertamento siano necessariamente collegate.

La tutela dei contribuenti avverso le illegalità istruttorie è un tema sicuramente tra i più dibattuti ed incerti del diritto tributario giacchè “non è facile trovare un equilibrio concettuale soddisfacente” per la soluzione delle numerose questioni che ruotano attorno al rapporto fra tutela erariale e rispetto dei diritti e delle garanzie del contribuente.

Un possibile discrimine potrebbe essere rappresentato dal coinvolgimento o meno di diritti costituzionalmente garantiti, quale – ad esempio – quello dell’inviolabilità del domicilio – consentendo di arrivare a stabilire la regola che solo in presenza di violazioni che aggrediscano “interessi di dignità costituzionale” si può determinare l’inutilizzabilità degli elementi irritualmente acquisiti.

Proseguendo in tale ragionamento si potrebbe pure affermare che si ottengono le medesime conseguenze di invalidità allorquando si violino le norme dello Statuto del contribuente.

La posizione che si è progressivamente affermata all’interno della Corte di Cassazione è quella dell’annullabilità degli atti viziati nonostante non siano mancate pronunce che, seppure incidentalmente, hanno sostenuto l’ammissibilità delle prove irritualmente acquisite

 

Gli indirizzi interpretativi tradizionali:

Gli Autori che si sono cimentati nell’analisi di tale delicata tematica hanno parlato essenzialmente di “vizi rilevanti per l’accertamento” e “vizi non rilevanti per l’accertamento”.

Prendendo ora in esame le situazioni connotate dalla sussistenza di vizi rilevanti per l’accertamento, occorre evidenziare che in questo campo la dottrina ha sostanzialmente elaborato tre indirizzi interpretativi principali:

– il primo è quello della “invalidità derivata” dell’avviso di accertamento a causa della illegittimità degli atti istruttori;

– il secondo, invece, sostiene “l‘inutilizzabilità delle prove illegittimamente acquisite” e la conseguente annullabilità dell’avviso di accertamento, ove non giustificato da altre informazioni legittimamente ottenute;

– il terzo, per converso, afferma che l’acquisizione irrituale di elementi rilevanti per l’accertamento non comporti la inutilizzabilità degli stessi, in mancanza di una specifica previsione in tal senso; essa comporterebbe, però, possibili responsabilità dei verificatori sul piano disciplinare e, se del caso, civile e penale.

Riguardo alla prima teoria, è il caso di evidenziare che questa costruzione si fonda sulla natura procedimentale dell’accertamento tributario, che viene visto come una sequenza di atti coordinati strutturalmente e collegati funzionalmente alla realizzazione delle finalità di assicurare l’applicazione delle imposte dovute.

Alla nozione di procedimento si collega poi l’altra regola generale del diritto amministrativo, secondo cui l’illegittimità degli atti presupposto della fattispecie procedimentale si riverbera sugli atti successivi della sequenza e sul provvedimento finale, determinandone l’illegittimità in via derivata.

In giurisprudenza, si rintracciano chiare conferme di questa linea interpretativa ancora attuale in due sentenze della Corte di Cassazione:

– la prima, la n. 15230 del 3dicembre 2001, riguarda il caso di un’autorizzazione del Procuratore della Repubblica illegittimamente rilasciata per un accesso nelle abitazioni dei soci di una società a responsabilità limitata, senza che sussistesse congrua motivazione dei gravi indizi di violazioni fiscali richiesti ai sensi dell’art. 52, comma 2, del D.P.R. n. 633/1972; nella specie, l’atto del Procuratore richiamava il contenuto di una richiesta avanzata dalla Guardia di finanza sulla base di una o più fonti confidenziali anonime denuncianti l’esistenza di presunti illeciti tributari. Al riguardo, la Suprema Corte ha statuito che “l’assenza, l’abnormità, l’insufficienza e l’incongruenza della motivazione addotta consequenzialmente si riflettono, escludendola, sulla legittimità dell’atto in argomento e comportano, perciò, il potere-dovere del giudice tributario che le rilevi di dichiarare l’invalidità, dedotta … dell’atto medesimo e, derivatamente … dell’intero procedimento di accertamento basato su prove acquisite a seguito della relativa esecuzione”;

– la seconda, molto importante, è la sentenza a Sezioni Unite n. 16424 del 21 novembre 2002, che riguarda un caso analogo di autorizzazione del Procuratore della Repubblica illegittimamente rilasciata per un accesso domiciliare richiesto dalla polizia tributaria in base a notizie apprese da una fonte confidenziale mantenuta anonima. Nello stesso senso Cass. del 19 ottobre 2005 n.20253.

La teoria della invalidità derivata è stata, però, successivamente affinata e meglio ponderata dagli Autori della seconda tesi interpretativa, basata sul concetto di inutilizzabilità dei dati irritualmente acquisiti.

È stato, infatti, giustamente osservato che l’Amministrazione finanziaria può scegliere di utilizzare ai fini della verifica della posizione del contribuente l’attivazione di uno o più mezzi istruttori tra quelli normativamente previsti. Pertanto, può accadere che la prova dell’esistenza del fatto di evasione possa essere acquisita sia sulla base di un solo atto istruttorio, sia anche mediante più atti indipendenti l’uno dall’altro. In questa seconda evenienza, l’estensione all’atto “finale” della causa di invalidità che inficia uno degli atti “preparatori” è parso un eccesso non giustificabile.

Pertanto, è stato precisato che gli accertamenti fondati su prove acquisite illecitamente non sono viziati in quanto su di essi si ripercuota il vizio di un atto precedente della sequela, ma in quanto “infondati”: privi, cioè, di fondamento di fatto (essendo non rilevanti i fatti emergenti da prove acquisite in modo irrituale).

La inutilizzabilità delle prove illegittimamente acquisite è un principio generale dell’ordinamento, in quanto si tratta di una sanzione processuale inerente e coerente con il principio di legalità: le prove ottenute con mezzi istruttori viziati o carenti sono inutilizzabili, perché così è implicitamente, ma inequivocabilmente, stabilito dalla stessa legge che disciplina i presupposti, le modalità ed i limiti dei poteri autoritativi degli organi amministrativi.

Questa è la normale regola in vigore in ogni procedimento, e particolarmente nei processi penali, laddove il concetto (già noto anche prima) è stato formalmente cristallizzato nell’art. 191 del codice varato nel 1988, secondo cui: “Le prove acquisite in violazione di divieti stabiliti dalla legge non possono essere utilizzate” (comma 1).

Ed infatti, se i vizi dell’attività istruttoria non avessero alcuna rilevanza sulla legittimità dell’atto di accertamento, allora tutta la disciplina predisposta dal legislatore per l’esercizio dei poteri di controllo sarebbe inutile e priva di senso, dal momento che la sua inosservanza da parte dell’ufficio rimarrebbe immune da qualsivoglia tipo di sanzione.

Pertanto, deve escludersi l’eventualità che l’atto di accertamento possa fondarsi su prove assunte in violazione delle norme di “azione”, anche se l’ordinamento non sancisce l’obbligo dell’ufficio di rispettare tali norme a pena di nullità.

Quest’ultimo principio è stato ripreso dalla Cassazione nella citata sentenza n.15230/2001, soggiungendo un’ulteriore postilla: il Ministero delle finanze aveva obiettato che l’art. 52 del D.P.R. n. 633/1972, che regola gli accessi domiciliari diretti a ricercare le prove dell’evasione fiscale, non prevede nessuna sanzione di inutilizzabilità delle prove acquisite nel corso dell’ispezione, ancorché illegittimamente autorizzata. In proposito, la Suprema Corte ha ribattuto che: “costituisce principio generale immanente al vigente sistema giusprocessualistico quello per il quale il giudice, prima di utilizzare ai fini della decisione una qualsiasi emergenza probatoria, deve verificare la regolarità della relativa acquisizione, restando tenuto a non porre a base della sua pronuncia prove che riscontri indebitamente raccolte”.

Ancora più chiaramente, le Sezioni Unite della Suprema Corte nel 2002 con la più volte citata sentenza n.16424 ha statuito che “il giudice deputato a svolgere il sindacato della legittimità formale e sostanziale della pretesa impositiva avanzata dall’Amministrazione finanziaria deve verificare la regolarità del procedimento accertativo su cui si fonda tale pretesa, così da controllarne la rispondenza al paradigma legale. Infatti, “il compito del giudice di vagliare le prove offerte in causa è circoscritto a quelle di cui abbia preventivamente riscontrato la rituale assunzione“. Nell’esercitare tale potere-dovere, il giudice deve considerare che “l’acquisizione di un documento con violazione di legge non può rifluire a vantaggio del detentore, che sia l’autore di tale violazione, o ne sia comunque direttamente od indirettamente responsabile”.

La nitidezza e la complementarità dei principi posti a fondamento della teoria della inutilizzabilità delle prove irrituali ci sembrano sintomatici della solidità di questa costruzione concettuale.

Tuttavia, negli ultimi anni essa è stata sottoposta a critiche da parte della stessa Corte di Cassazione, (terza teoria), che si è incentrata sulla utilizzabilità delle prove illegittimamente acquisite.

Le affermazioni più significative del “cambio di rotta” della Suprema Corte risalgono a due sentenze innovatrici: la n. 3852 del 9 novembre 2000 e soprattutto la n. 8344 del 10 aprile2001.

L’inutilizzabilità delle prove acquisite in violazione di divieti posti dalla legge, introdotta dall’art. 191 del codice di procedura penale del 1988, non costituisce una categoria processuale generale, operante anche nel processo tributario … la violazione dell’art. 63, comma 1, del D.P.R. n. 633/1972, a parte le conseguenze di ordine penale o disciplinare, non determina l’inutilizzabilità degli elementi probatori sui quali sia stato fondato l’accertamento tributario, rendendo invalidi gli atti del suo esercizio …”.

La sentenza n. 8344/2001 concerneva, a sua volta, una verifica nei confronti di una società, nel corso della quale era stata utilizzata documentazione extracontabile rinvenuta “a seguito di controlli fiscali disposti nell’ambito di indagini di polizia giudiziaria a carico del Dott. A.B., legale rappresentante della società”.

In quella circostanza, il Supremo Collegio ha effettuato un excursus delle norme in materia di accertamento induttivo ai fini dell’Iva (art. 54, commi 2 e 3, del D.P.R. n. 633/1972), che consentono l’utilizzo “di qualsiasi documento e scrittura rilevante ai fini della contabilità”, nonché “degli atti e documenti in possesso” dell’ufficio, concludendo che “gli organi di controllo, dunque, possono utilizzare tutti i documenti dei quali siano venuti in possesso, salvo la verifica della attendibilità, in considerazione della natura e del contenuto dei documenti stessi, e dei limiti di utilizzabilità derivanti da eventuali preclusioni di carattere specifico”7.

“La violazione delle regole dell’accertamento tributario non comporta come conseguenza necessaria la inutilizzabilità degli elementi acquisiti … Si pensi al caso in cui, nel corso di una verifica fiscale, vengano acquisiti elementi determinanti ai fini dell’accertamento, soltanto il trentunesimo (o sessantunesimo) giorno lavorativo dall’inizio della verifica stessa, in violazione del precetto di cui all’art. 12, comma 5, della L. 27 luglio 2000, n. 212. Non esiste, cioè, nell’ordinamento tributario un principio generale di inutilizzabilità delle prove illegittimamente acquisite … Tale principio è stato introdotto nel nuovo codice di procedura penale, e vale, ovviamente, soltanto all’interno di tale specifico sistema procedurale (vd. art. 191 del codice di procedura penale) … L’acquisizione irrituale di elementi rilevanti ai fini dell’accertamento fiscale non comporta la inutilizzabilità degli stessi in mancanza di una specifica previsione in tal senso.

Il fatto che talune violazioni non comportino la sanzione della inutilizzabilità degli elementi irritualmente acquisiti non significa che la violazione sia priva di conseguenze ed in casi del genere, infatti, le conseguenze sanzionatorie ricadono direttamente sull’autore dell’illecito, sul piano disciplinare e, se del caso, sul piano della responsabilità civile e penale … Non sarebbe giusto che una prova oggettivamente ammissibile non possa essere utilizzata a causa della negligenza di chi l’ha acquisita …”.

Nel panorama dei riferimenti giurisprudenziali che abbiamo visto essere l’unico strumento per orientarsi in tema di validità/invalidità delle prove illegittimamente acquisite, non si può non far menzione di tutta una serie di altri pronunciamenti della Cassazione più di recente emessi, che – in buona sostanza – hanno continuato a mostrare una continua altalenanza nei giudizi passando da una posizione pro contribuente a quella opposta di favore per l’Erario.

Nel 2003, infatti, sono state emanate le sentenze n. 1543 del 3 febbraio e n. 4987 del 1° aprile con le quali la Cassazione ritorna a dare ragione alle pretese del Fisco: in particolare, con la sentenza n. 1543/2003 i Giudici Supremi – non condividendo le eccezioni di “tardività” e “carenza di motivazione” dell’autorizzazione dell’Autorità giudiziaria all’utilizzo nell’accertamento di risultanze di polizia giudiziaria e dell’autorizzazione del Comandante di Zona competente della Guardia di finanza all’acquisizione di evidenze bancarie – hanno considerato questa tipologia di vizi “inidonei, per la loro irrilevanza, a rendere inutilizzabili gli elementi acquisiti”.

Nel 2004, la Cassazione, con la sentenza n. 19689 del 1° ottobre è ritornata a propugnare l’orientamento “garantista” circa l’utilizzabilità degli elementi irritualmente acquisiti che, nel caso di specie, riguardava la documentazione acquisita a seguito di un accesso in locali destinati esclusivamente ad abitazione.

Al riguardo, si fa rilevare che la Procura della Repubblica aveva sì autorizzato con apposito decreto l’accesso domiciliare, ma lo stesso risultava sprovvisto dei requisiti di legge, in quanto non recante l’indicazione della presenza dei gravi indizi di violazioni fiscali che lo motivavano.

Nel 2005, si registra un’intensificazione delle sentenze di legittimità nella tematica in esame e tra esse si segnalano le nn. 16731 dell’ 8 agosto e 19837 del 12 ottobre con le quali è stato rimarcato che laddove venga autorizzato l’accesso ad uno studio professionale, l’Amministrazione finanziaria può legittimamente acquisire i dati a carico dei clienti dello studio, salvo poi per il professionista potersi fare scudo opponendo il segreto professionale. In altre parole, per la Cassazione la ratio ispiratrice delle norme in tema di accessi autorizzati è quella di tutelare il diritto del soggetto nei cui confronti l’accesso viene richiesto e non quella di creare una sorta di immunità dalle indagini a favore di terzi, siano o meno conviventi con l’interessato.

È della fine del 2005, un’altra importante sentenza della Cassazione Sez. trib., n. 20253 del 19 ottobre 2005) che, schierandosi con coloro che propendono per una posizione garantista, ha affermato che anche nel processo tributario vada ripudiato il tradizionale principio del male captum bene retentum in materia di prove e quindi valga la regola di assoluta civiltà secondo cui il materiale probatorio acquisito a seguito di perquisizione illegittima non può essere utilizzabile neppure ai fini dell’accertamento tributario.

Ed ancora, la suprema Corte con sentenza del 16 ottobre 2009 n.21974 riesamina nuovamente la problematica delle conseguenze ai fin della legittimità di accertamento di un accesso privo di autorizzazione ovvero non sufficientemente motivato e, quindi, della possibilità per il giudice tributario di sindacare e censurare in tale contesto l’operato dell’Amministrazione. Vien ribadita la tesi della illegittimità derivata del provvedimento di accertamento.

Infine, nel 2006, con sentenza n. 14056 del 3 maggio, la Suprema Corte ha, da un lato, ribadito che, nell’ipotesi di accesso disposto e autorizzato da un direttore di un ufficio finanziario è necessaria la specifica autorizzazione del Procuratore della Repubblica prevista dall’art. 52, comma 3, del D.P.R. n. 633/1972, per procedere a perquisizioni personali ed all’apertura coattiva di casseforti, mobili, ripostigli e simili; diversamente, in caso di perquisizione domiciliare autorizzata dall’Autorità giudiziaria, non occorre alcuna ulteriore autorizzazione per procedere alle attività strumentali per l’acquisizione delle prove, quali l’apertura di borse o di un cassetto, contenente poi posta a fondamento della pretesa tributaria.

In definitiva, la prima autorizzazione ha una particolare “forza attrattiva” determinata dal fatto che il pubblico ministero che ha autorizzato la perquisizione deve aver già valutato la sussistenza degli indizi di cui all’art. 52 e che gli stessi siano così gravi da legittimare l’accesso e la conseguente lesione dell’inviolabilità del domicilio, l’autorizzazione si estende all’intero domicilio.

Si segnala una recente sentenza della Suprema Corte di Cassazione 19 febbraio 2009, n. 4001, secondo la quale «in materia tributaria non vige il principio, presente nel codice di procedura penale, della prova irritualmente acquisita e pertanto la mancanza di autorizzazione, se può avere riflessi anche disciplinari a carico del trasgressore, non tocca l’efficacia probatoria dei dati trasmessi, né implica l’invalidità dell’atto impositivo adottato sulla scorta degli stessi». In senso opposto Cass. n.26454 del 4 novembre 2008.

In conclusione, non può essere sottaciuta la circostanza che la tematica trattata sia di difficile soluzione definitiva, soprattutto perché, volendo ancorarla – come abbiamo avuto modo di illustrare ampiamente – all’orientamento della giurisprudenza, si rischia di confondersi ulteriormente a causa della mutevolezza dei giudizi.

 

8.Conclusione

Come già detto all’inizio del nostro studio, la verifica fiscale comporta per il contribuente conseguenze sia sul piano patrimoniale sia sul piano personale, consistenti soprattutto (ma non solo) nell’invasiva presenza del Fisco nella sfera professionale e personale, spesso vissuta in maniera apprensiva.

Ciò perché l’atteggiamento del soggetto verificato è per lo più scaturente da un’istintiva riserva mentale, la quale, lungi dal voler criminalizzare alcuno, è da sempre connaturata dal carattere della mendacità indotta da un’evidente esigenza di mantenimento del proprio reddito contro la pretesa impositiva statale, giacché il fenomeno dell’occultamento dei propri averi, nei confronti di chi ne vanta un diritto di esproprio, è davvero insito nella natura umana.

Non appena si rimette in moto il processo di semplificazione nell’acquisizione dei dati finanziari, contro di esso si solleva un’opinione pubblica, espressa da dottrina e giurisprudenza, che si scaglia contro uno strumento da essa considerato illegittimo, che viola la privacy del contribuente e lede diritti costituzionalmente protetti La garanzia della privacy è ancora più necessaria considerando che, nel nostro Paese, il semplice avviamento di un’indagine viene giudicato come prova di illegalità commesse dal soggetto indagato.

Un moderno sistema di diritto tributario, strumentale alla vigenza ed alla regolamentazione di una civiltà evoluta, conduce, quindi, tutti gli attori (contribuenti e Fisco) a superare necessariamente il meccanismo fisiologico di reciproca diffidenza ed incontrarsi all’interno di un impianto normativo equilibrato (regolato dai principi – previsti dalla L. n. 212/2000 – di collaborazione tra Amministrazione finanziaria e contribuente nonché affidamento e buona fede del contribuente) volto, principalmente, al reciproco rispetto, alla consapevolezza dei propri diritti e doveri, ed alla coscienza che ciascuno deve partecipare, con le proprie risorse, al regolare funzionamento dello Stato secondo i principi costituzionali di solidarietà sociale ed economica nonché di capacità contributiva.

L’indagine finanziaria è una procedura che, al di fuori dei limiti previsti dalla legge, può ledere diritti del contribuente costituzionalmente protetti; è quindi auspicabile un intervento del legislatore che impedisca l’utilizzo della procedura al di fuori dei limiti fissati dalla legge.

È solo, infatti, attraverso il rigoroso rispetto di quelle regole procedurali richieste dalla legge che si può pensare di coniugare due contrapposte esigenze: quella di tutelare la riservatezza dei dati finanziari dei contribuenti con quella di assicurare all’Erario un’efficace azione di contrasto all’evasione.

 

Lecce, 28 marzo 2011

Avv. Maurizio Villani

Avv. Iolanda Pansardi

 

 

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1 Cass., SS.UU., 25 luglio 2007, n. 16412

2 Nello stesso senso Corte di Cass. Sentenza del 4 novembre 2008 n.26454

3 Si vedano, tra le altre, Cass. 23 aprile 2007, n. 9565, Cass. SS.UU. 21 novembre 2002, n. 16424 e Cass. 3 dicembre 2001, n. 15230

4 Comm. trib. prov. di Milano, 10 maggio 2010, n. 126; Comm. trib. prov. di Reggio Emilia, 25 ottobre 2010, nn. 199 (ivi) e 200

5 Comm. trib. prov. di Terni, 16 dicembre 2009, n. 14

6 Comm. trib. reg. Piemonte, 7 maggio 2009, n. 26; Comm. trib. reg. Lombardia, 19 marzo 2008, n. 12

7 Corte di Cass.2 febbraio 2002 n.1383

Avv. Villani Maurizio

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