Trust e titolarità effettiva

Nazario Vitale 20/02/20
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Il presente contributo si prefigge lo scopo di ripercorrere l’esigenza sancita dalla vigente e sempre più stringente normativa antiriciclaggio di rilevare l’identità del soggetto, diverso dal cliente, nell’interesse del quale “la prestazione professionale è resa o l’operazione è eseguita” .

In particolare, ai sensi dell’art. 19 co. 1 n. 5 del D.lgs. n. 231/2007 e s.m.i., per determinate categorie di soggetti l’individuazione dell’identità del titolare effettivo “impone l’adozione di misure, commisurate alla situazione di rischio, idonee a comprendere la struttura di proprietà e di controllo del cliente”. La norma fa espresso riferimento ai “fiduciari di trust espressi”. Risulta quindi di fondamentale importanza effettuare in primis un inquadramento generale sul trust e sulle figure soggettive ad esso connesse. Nella seconda parte si focalizzerà l’attenzione su un punto di vista più operativo su cui si sviluppano i presidi di adeguata verifica della clientela posti a carico dei soggetti obbligati.

Inquadramento generale del trust

Il Trust è un istituto originario dei Paesi di Common Law che è stato oggetto di positivizzazione con la stipula di una Convenzione internazionale, la Convenzione dell’Aja del 1 luglio 1985, ratificata in Italia con la legge 16 ottobre 1989 n. 364. Con la Convenzione suddetta si tentava di far circolare nei paesi di diritto civile, quindi all’interno del Continental Europe, un modello giuridico di diritto comune, considerato che tale istituto di Common Law in quegli anni era adottato in Inghilterra, negli Stati Uniti, in Australia, a Hong Kong (quando era colonia Britannica), in Nuova Zelanda, quindi con una diffusione in una parte del mondo molto importante da un punto di vista del commercio transfrontaliero, tra ricche comunità internazionali. Il trust tuttavia non è un elemento del tutto estraneo al diritto civile infatti volendo fare un salto storico ritroviamo nel diritto romano il concetto di FIDES (fedeltà, lealtà e senso del dovere verso gli altri, protezione reciproca che entrambi i contraenti devono salvaguardare). Si pensi all’istituto del fedecommesso  (dal latino fides e committere) originato nel diritto romano, attraverso il quale il testatore istituiva erede un soggetto determinato con l’obbligo morale di conservare i beni ricevuti, che alla sua morte sarebbero stati automaticamente trasmessi ad un soggetto diverso. Particolare rilievo ebbe il cosiddetto “fedecommesso di famiglia”, grazie al quale s’impediva l’alienazione di un bene immobile al di fuori della stirpe familiare. In caso di inadempimento, inizialmente non vi erano neppure forme di tutela proprio perché l’istituto era nato sul cardine principale della fiducia e quindi sull’affidamento che un soggetto riponeva in un altro.

Della parola fiducia oggigiorno si è perso il significato originario, proprio di quello attribuito dal diritto romano. In realtà il termine è ancora oggi associato al “contratto fiduciario”, che non è disciplinato dal codice civile, ma è demandato all’autonomia contrattuale. Inoltre, il termine è utilizzato anche nella “fiducia testamentaria”, quest’ultima disciplinata dal codice civile. Le società fiduciarie (soggetti mandatari che operano in maniera professionale sotto le indicazioni di un soggetto mandante), invece, hanno un’espressa disciplina nella legislazione speciale. Il concetto di stampo romanistico era legato alla necessità di affidare al fiduciario la gestione di beni di un soggetto fiduciante per impossibilità di quest’ultimo di poter operare nella gestione degli stessi, con ciò presupponendo il potere attribuito diretto del fiduciario stesso su tali beni. L’aspetto essenziale era proprio l’affidamento che si creava verso il fiduciario a nulla servendo strutture formali per eventuali azioni di responsabilità. Questo è stato ciò che ha costituito la base del Trust. La prima definizione si è avuta proprio con la sopra citata Convenzione in base alla quale i Trust consistono in “rapporti giuridici istituiti da una persona, il disponente – con atto tra vivi o mortis causa – qualora dei beni siano stati posti sotto il controllo di un trustee nell’interesse di un beneficiario o per un fine specifico” (articolo 2, comma 1, Conv. Aja). Di qui l’analogia ad altri strumenti presenti nel nostro ordinamento.

Si pensi al fondo patrimoniale della famiglia (ex art. 167 c.c.) che funziona quasi allo stesso modo, in quanto i genitori destinano determinati beni ai bisogni della famiglia costituendo un patrimonio separato con funzione di protezione dei beni conferiti vincolandoli esclusivamente al soddisfacimento dei bisogni della famiglia, quindi nell’interesse di un bene più grande rispetto a quello dei singoli coniugi (per il soddisfacimento di bisogni familiari ex art. 167 c.c.). Se per un verso l’affinità che si ravvisa tra fondo patrimoniale e trust risiede nell’effetto segregativo, dall’altro è proprio del trust il c.d. affidamento. Id est, nel fondo patrimoniale non viene trasferita la posizione soggettiva “segregata”, cosa che avviene nel trust nei confronti del trustee che diviene titolare esclusivo obbligato verso i soli beneficiari, unici titolari di azioni di responsabilità contro eventuali inadempienze; azione di responsabilità non consentita da parte dei figli nei fondi patrimoniali.

Si pensi anche a quanto previsto dall’articolo 2645-ter  c.c. relativo al vincolo di destinazione. Attraverso questo istituto determinati beni possono essere destinati “alla realizzazione di interessi meritevoli di tutela” per certa una durata. L’effetto è che i beni oggetto del vincolo restano “segregati” dal restante patrimonio del soggetto disponente. Tuttavia anche in questo caso sono presenti differenze rispetto al trust: la non necessaria partecipazione all’atto istitutivo del negozio di due soggetti distinti, ossia il disponente (settlor) ed il trustee; i beni che possono essere formare oggetto del vincolo sono solo beni immobili o mobili registrati (con l’esclusione ad esempio di titoli di credito o eventuali partecipazioni societarie); il vincolo di destinazione di cui all’art. 2645-ter non può superare i novant’anni o la durata della vita della persona fisica che ne risulti beneficiaria. Quindi nonostante la presenza di elementi in comune, di notevole rilevanza appaiono essere i fattori che contraddistinguono gli istituti.

C’è da evidenziare che l’Italia con la ratifica della Convenzione provvede al “riconoscimento” del Trust e quindi gli effetti giuridici tipici di esso ma ad oggi non ha ancora provveduto a regolarlo con una normativa interna specifica e questo giustifica la ragione per cui anche se l’istituto giuridico opera nel nostro Paese, la sua disciplina è demandata ad una legge straniera (cfr. art. 13 sul “rinvio” L. 218/1995, il cui unico limite è l’aggiramento di norme di ordine pubblico dello Stato Italiano).

Tale circostanza è causa di notevole difficoltà nell’istituire un trust interno ovvero con elementi soggettivi ed oggettivi riferiti all’ordinamento italiano in cui l’elemento di estraneità è rappresentato dalla legge regolatrice.

La legge italiana, al di là di quelle fiscali, che incide fortemente sulla disciplina dei trust interni è quella dettata in materia di antiriciclaggio la quale impone degli adempimenti a carico di coloro che svolgono attività di costituzione e gestione di trust espressi in Italia.

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Il titolare effettivo

La normativa antiriciclaggio e di contrasto al finanziamento del terrorismo, ex D.lgs. n. 231/2007 , novellato dal D.lgs. n. 90/2017 , impone ai soggetti destinatari dei relativi obblighi di svolgere l’attività di “due diligence” adottando procedure adeguate e commisurate al grado di rischiosità del cliente, inteso come “il soggetto che instaura rapporti continuativi, compie operazioni ovvero richiede o ottiene una prestazione professionale a seguito del conferimento di un incarico” (cfr. art. 1 co. 2 lett. f D.lgs. n. 231/2007 e s.m.i.). Quando questi è un soggetto diverso da una persona fisica, gli obblighi di identificazione del cliente e di raccolta documentale aumentano il perimetro entro il quale l’operatore è chiamato ad analizzare l’operatività e la struttura in se del cliente. Infatti, gli obblighi di due diligence consistono nell’identificare e verificare l’identità del cliente, l’eventuale titolare effettivo, ottenere informazioni sullo scopo e sulla natura del rapporto, svolgere un controllo costante nel corso del rapporto continuativo della prestazione professionale (cfr. art. 19). Tali approfondimenti, che sono funzionali all’analisi effettiva della clientela, subiscono un’ulteriore complessità quando il cliente è un trust. Come sopra anticipato, il Trust è una figura giuridica destinataria della normativa antiriciclaggio. Come sopra già detto, esso si presenta come uno strumento giuridico di segregazione in cui un soggetto denominato disponente o settlor trasferisce ad altro soggetto denominato trustee un patrimonio da amministrare in favore di un terzo beneficiario, il tutto sotto la supervisione continua del guardiano (ovvero il soggetto che vigila sull’operato del trustee).

Una volta che il trust viene istituito, ai fini della normativa antiriciclaggio sarà necessario dover procedere all’identificazione della figura del titolare effettivo, in altri termini la persona fisica nell’interesse della quale l’operazione viene eseguita. Nel concreto, l’art. 18 co. 1 lett. B prevede che debbano essere identificati i titolari effettivi e debbono essere adottate misure idonee e proporzionali al rischio di tal che i soggetti destinatari della normativa antiriciclaggio sappiano con certezza chi sia il cliente che inseriscono nel proprio portafoglio con la conoscenza dell’intero assetto.

L’attività di identificazione del titolare effettivo di un trust se per un verso non sempre risulta essere di agevole espletamento dall’altro acquisisce un ruolo strategico ai fini del completamento dell’analisi sul cliente.

Ciò lo si desume dai criteri che attraverso il D.lgs. 231/2007 novellato dal D.lgs. 90/2017 (che ha recepito la direttiva UE 2015/849) sono stati dettati in merito alla determinazione della titolarità effettiva prevedendo delle regole specifiche a tal riguardo. Si aggiunga che è stata anche eliminata la possibilità da parte della novella legislativa di recepimento della IV direttiva (D.lgs. 90/2017) che il titolare effettivo sia inesistente (cfr. art. 20 co. 4).

Andando al punto, si rammenta che in base alla previgente normativa la titolarità effettiva di un trust veniva attribuita come segue (cfr. allegato tecnico all’art. 2 lett. b):

a) se i futuri beneficiari sono già stati determinati, la persona fisica o le persone fisiche beneficiarie del 25 per cento o più del patrimonio di un’entità giuridica;

b) se le persone che beneficiano dell’entità giuridica non sono ancora state determinate, la categoria di persone nel cui interesse principale è istituita o agisce l’entità giuridica;

c) la persona fisica o le persone fisiche che esercitano un controllo sul 25 per cento o più del patrimonio di un’entità giuridica.

I suddetti criteri che comunque risultavano essere concorrenti, subordinavano quindi l’attribuibilità della titolarità effettiva ad una percentuale oggettiva di partecipazione al patrimonio del trust.

Con il successivo decreto, invece, scompare la soglia indicata, infatti il D.lgs. 90/2017 recependo la IV direttiva antiriciclaggio (UE 2018/849) ha modificato tale impostazione.

Ciò detto il nuovo Titolare effettivo è rinvenibile in un a platea più ampia tanto è vero che l’attuale formulazione dell’art. 22 co. 5 recita che: “I fiduciari di trust espressi, disciplinati ai sensi della legge 16 ottobre 1989, n. 364, ottengono e detengono informazioni adeguate, accurate e aggiornate sulla titolarità effettiva del trust, per tali intendendosi quelle relative all’identità del fondatore, del fiduciario o dei fiduciari, del guardiano ovvero di altra persona per conto del fiduciario, ove esistenti, dei beneficiari o classe di

beneficiari e delle altre persone fisiche che esercitano il controllo sul trust e di qualunque altra persona fisica che esercita, in ultima istanza, il controllo sui beni conferiti nel trust attraverso la

proprietà diretta o indiretta o attraverso altri mezzi”.

Altro elemento indice di considerazione di questo Istituto da parte del legislatore, è l’emendamento sul tema all’art. 21 co. 3 in base al quale i trust rilevanti ai fini fiscali sono tenuti all’iscrizione in apposita sezione speciale del Registro delle Imprese, sezione che verrà istituita con decreto del Ministero dello Sviluppo Economico, e che dovrà sempre essere mantenuto aggiornato in merito alla Titolarità effettiva. Nel suddetto registro “i fiduciari di trust espressi” dovranno ottenere e mantenere informazioni adeguate, accurate e aggiornate sulla titolarità effettiva (l’omessa comunicazione delle informazioni sul titolare effettivo è punita con la medesima sanzione di cui all’articolo 2630 del codice civile) per un periodo non inferiore ai 5 anni dalla cessazione del loro stato. La ratio alla base di tali scelte del legislatore è proprio quella di consentire in maniera univoca di poter garantire ai soggetti obbligati una visione sul trust relazionata alla qualità di tutti gli attori che risultano menzionati nel relativo atto istitutivo come pure nel contempo di poter avere una visione chiara della provenienza del patrimonio e delle finalità del programma.

Recentemente a seguito del recepimento della V direttiva (UE 2018/843), attraverso il D.lgs. 125/2019, è stato previsto che l’accesso al summenzionato registro sarà consentito non solo ai soggetti portatori di interesse ma anche al pubblico, questo a maggior enfasi della portata di interesse generale dell’argomento. Ad oggi quindi se per un verso si rileva che l’individuazione del titolare effettivo di un trust rientra nell’ambito degli obblighi da assolvere nell’espletamento dell’adeguata verifica, dall’altro si assiste ad un cambio di rotta consistente nel doppio obbligo questa volta gravante sul cliente non persona fisica: in primis obbligo di conservazione delle informazioni sulla titolarità effettiva in modo adeguato, accurato ed attuale a cui si affianca quello di comunicazione ed iscrizione delle stesse nell’apposita sezione speciale del Registro delle imprese.

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Nazario Vitale

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