Tribunale di Ragusa in funzione di giudice del lavoro; sentenza 574/2005; pubblico impiego; contratti a termine; conversione a tempo indeterminato; esclusione.

sentenza 20/04/06
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R E P U B B L I C A        I T A L I A N A
IN NOME DEL POPOLO ITALIANO
Il Giudice del Lavoro del Tribunale di Ragusa, dott. Giovanni Giampiccolo ha emesso la seguente
S E N T E N Z A
nelle cause riunite iscritte ai nn. 165, 167, 169, 171, 173, 175 e 208/2005 R.G.
T R A
xxxxx, rappr. e dif. dall’avv. yyyyyyyyyy per procura a margine dei ricorsi introduttivi;
– ricorrente –
CONTRO
Azienda U.S.L. xxxxxxxx, in persona del legale rappresentante pro tempore, rappr. e dif. dall’avv. xxxxx per procura a margine delle memorie di difesa;
– resistente –
Avente ad oggetto: Contratto a termine.
All’udienza del 20.09.2005, sulle conclusioni dei procuratori delle parti, come trascritte nei rispettivi atti difensivi, la causa è decisa come da dispositivo.
SVOLGIMENTO DEL PROCESSO
Con ricorsi al giudice del lavoro, i ricorrenti in epigrafe indicati allegano di aver lavorato per diversi anni e con diversi contratti a tempo determinato alle dipendenze dell’azienda sanitaria resistente, come operatori socio assistenziali e ausiliari specializzati; tutti assunti “per incarico su posto vacante”.
Allegano in particolare di essere da diversi anni assunti per rapporti di lavoro della durata di quattro mesi l’anno, sempre per svolgere le stesse mansioni.
Richiamano gli artt. 1, 4 e 5 del d.lgvo 368 del 2001 e deducono l’illegittimità dei contratti a termine perché stipulati “al di fuori delle ipotesi tassativamente previste in applicazione e ad integrazione di quanto previsto dalla legge n. 230 del 1962 e successive modificazioni ed integrazioni e dell’art. 23, comma 1, della l. n. 56 del 1987”; in particolare deducono che l’azienda può stipulare contratti individuali per l’assunzione di personale a tempo determinato per la temporanea copertura di posti vacanti nei singoli profili professionali per un periodo massimo di otto mesi, purchè sia già stato bandito il pubblico concorso o sia già stata avviata la procedura di selezione per la copertura dei posti stessi, ma che nei fatti ciò non è avvenuto, con conseguente nullità del termine.
Deducono altresì la nullità della proroga o del rinnovo del contratto a termine.
Ritengono che i contratti in questione debbano intendersi sin dall’origine a tempo indeterminato, in quanto “a seguito della riforma, la regolamentazione del rapporto di lavoro dei pubblici impiegati è affidata per intero alle fonti generali e speciali dell’impiego privato ed alla contrattazione collettiva nazionale e decentrata”; e pertanto “il divieto di conversione del rapporto a termine sancito nel contratto stipulato tra le parti non troverebbe alcuna giustificazione e, in particolare non sarebbe sorretto dal disposto dell’art. 97 della Costituzione che, sancendo l’obbligo di assunzione mediante concorso salvo i casi previsti dalla legge, evidentemente non escluderebbe la possibilità di prevedere casi di assunzione a tempo indeterminato che prescindano dalla procedura concorsuale”.
Lamentano che nei fatti sarebbe stata posta da parte dell’Azienda una evidente violazione della normativa vigente ed una conseguente strumentalizzazione della disparità di trattamento tra lavoratori pubblici e privati.
Sostengono che la conversione del rapporto di lavoro a termine potrebbe rappresentare un aggiramento al principio del concorso solo se nei fatti viene espletato un concorso; mentre nei casi in questione i ricorrenti non hanno dovuto superare alcuna forma di selezione, con il risultato di sottrarre effettivamente al regime del pubblico concorso i posti vacanti, che sono stati ricoperti con le loro assunzioni a tempo determinato.
Negano, al riguardo, la sussistenza in concreto di esigenze straordinarie o sostitutive legittimanti l’apposizione del termine, come formalmente indicato in taluni contratti, essendosi i lavoratori alternati nella stessa attività con identiche mansioni, e non essendo indicato il nome del dipendente sostituito.
Ritengono pertanto essersi sempre trattato, in realtà, della copertura di posti vacanti.
Concludono chiedendo: 1) dichiararsi a tempo indeterminato il rapporto di lavoro intercorso con l’azienda sanitaria resistente; 2) dichiararsi nullo il termine apposto ai contratti; 3) ordinarsi all’azienda la reintegra nel posto di lavoro, con condanna al pagamento delle retribuzioni maturate; 4) condannarsi l’azienda al risarcimento dei danni subiti a causa della violazione delle disposizioni imperative riguardanti l’assunzione e/o l’impiego di lavoratori da parte delle pubbliche amministrazioni.
Si costituisce tempestivamente l’Azienda U.S.L.xxxxxxxxx, in persona del legale rappresentante pro tempore, eccependo: 1) il difetto di legittimazione passiva con riguardo alle pretese afferenti al periodo anteriore all’11.07.1995; 2) il difetto di giurisdizione del giudice ordinario riguardo le pretese afferenti il periodo lavorativo antecedente al 30.06.1998; 3) il mancato esperimento del tentativo di conciliazione; 4) il divieto di costituzione di rapporti di lavoro a tempo indeterminato ex art. 36 d.lgvo 165 del 2001, ritenuto costituzionalmente legittimo di recente dalla Corte Costituzionale; 5) che per i conferimenti di incarico a tempo determinato nei posti del ruolo sanitario, tecnico ed amministrativo non è prevista alcuna selezione pubblica, diversamente da quanto accade per la costituzione dei rapporti di lavoro a tempo indeterminato, preceduti sempre, anche per la posizione funzionale di cui si tratta, da una pubblica selezione effettuata dall’Ente che intende operare l’assunzione (dpcm 27.12.1988; dpr 09.05.1999 n. 487) 6) che i CCNL del personale del comparto sanità espressamente escludono la conversione a tempo indeterminato dei rapporti a termine (art. 17, comma 4, CCNL 1994/1997; art. 31, comma 4 contratto collettivo integrativo del CCNL 07.04.1999; 7) che i predetti CCNL da sempre ammettono la possibilità di effettuare assunzioni a tempo determinato, essendo immanente nell’organizzazione di un ente del SSN la necessità di far fronte a straordinarie esigenze e ad improvvisi picchi di attività.
Conclude chiedendo il rigetto dei ricorsi.
            Riuniti i procedimenti, la causa è discussa oralmente all’odierna udienza sulle conclusioni delle parti come trascritte nei rispettivi atti difensivi, nonchè decisa come da separato dispositivo in atti di cui si dà pubblica lettura.
MOTIVI DELLA DECISIONE
Va in primo luogo precisato che i rapporti a termine tra i ricorrenti e l’azienda sanitaria si sono collocati in un arco di tempo che va dal 1996 al 2004, ma questo giudice ha giurisdizione solo per le questioni attinenti al periodo successivo al 30 giugno 1998.
Ciascun ricorrente ha lavorato circa quattro mesi l’anno, senza prolungamento di fatto dell’attività lavorativa dopo la scadenza del contratto; tra i singoli rapporti a termine, per ciascuno dei ricorrenti, è inoltre intercorso un intervallo di tempo superiore a quello previsto dalla l. 230 del 1962 e dal d.lgvo 368 del 2001.
Sicchè si tratterebbe di verificare, dovendosi escludere una successione illegittima di contratti a termine, la ricorrenza delle causali obiettive legittimanti l’apposizione del termine, alla luce delle normative sopra indicate, applicabili in ragione del tempo, e della contrattazione collettiva.
Tuttavia, appare logicamente pregiudiziale l’esame dell’eccezione relativa al divieto di conversione dei contratti a termine, posto dall’art. 36, comma 2, del d.lgvo 165 del 2001 (d’ora in avanti TUPI, ovvero Testo Unico Pubblico Impiego).
La stessa è fondata e va accolta nei termini che seguono.
Va ricordato che l’attuale art. 36 del TUPI, in cui sono confluite le disposizioni dell’art. 36, commi 7 e 8, del d.lgvo 29/93 come modificato dall’art. 22 del d.lgvo 31 marzo 1998, n. 80, al primo comma prevede la possibilità per le pubbliche amministrazioni di ricorrere ai cc.dd. contratti della flessibilità (“le pubbliche amministrazioni, nel rispetto delle disposizioni sul reclutamento del personale di cui ai commi precedenti, si avvalgono delle forme contrattuali flessibili di assunzione e di impiego del personale previste dal codice civile e dalle leggi sui rapporti di lavoro subordinato nell’impresa. I contratti collettivi nazionali provvedono a disciplinare la materia dei contratti a tempo determinato, dei contratti di formazione e lavoro, degli altri rapporti formativi e della fornitura di prestazioni di lavoro temporaneo, in applicazione di quanto previsto dalla legge 18 aprile 1962, n. 230, dall’articolo 23 della legge 28 febbraio 1987, n. 56, dall’articolo 3 del decreto legge 30 ottobre 1984, n. 726, convertito, con modificazioni, dalla legge 19 dicembre 1984, n. 863, dall’articolo 16 del decreto legge 16 maggio 1994, n. 299, convertito, con modificazioni, dalla legge 19 luglio 1994, n. 451, dalla legge 24 giugno 1997, n. 196, nonché da ogni successiva modificazione o integrazione della relativa disciplina), con disposizione armonica rispetto a quella, più generale, contenuta nell’art. 2, comma 2, dello stesso corpo normativo, riguardante le fonti del rapporto di lavoro alle dipendenze delle pubbliche amministrazioni (i rapporti di lavoro dei dipendenti delle amministrazioni pubbliche sono disciplinati dalle disposizioni del capo I, titolo II, del libro V del codice civile e dalle leggi sui rapporti di lavoro subordinato nell’impresa, fatte salve le diverse disposizioni contenute nel presente decreto).
Tra tali diverse disposizioni va collocata quella rinvenibile nel successivo comma 2 del citato art. 36, che pone il divieto della conversione/stabilizzazione del rapporto di lavoro, diversamente da quanto accade nel settore privato: “In ogni caso, la violazione di disposizioni imperative riguardanti l’assunzione o l’impiego di lavoratori, da parte delle pubbliche amministrazioni, non può comportare la costituzione di rapporti di lavoro a tempo indeterminato con le medesime pubbliche amministrazioni, ferma restando ogni responsabilità e sanzione. Il lavoratore interessato ha diritto al risarcimento del danno derivante dalla prestazione di lavoro in violazione di disposizioni imperative. Le amministrazioni hanno l’obbligo di recuperare le somme pagate a tale titolo nei confronti dei dirigenti responsabili, qualora la violazione sia dovuta a dolo o colpa grave”.
Ritiene questo giudice che la predetta disposizione non sia venuta meno a seguito dell’entrata in vigore del d.lgvo n. 368 del 2001, che all’art. 11 ha disposto l’abrogazione di tutte le disposizioni di legge “comunque incompatibili”, anche se non espressamente richiamate.
La regola di esclusione della sanzione della conversione, invero, è norma speciale rispetto alla disciplina di cui al d.lgvo 368, come si evince anche dall’inciso (in ogni caso), con cui quella regola esordisce.
Come norma speciale, facente parte delle “diverse disposizioni contenute nel presente decreto” di cui all’art. 2 comma 2 del TUPI, si sottrae al giudizio di compatibilità voluto dalla norma di chiusura di cui all’art. 11 del d.lgvo 368.
La suddetta fonte normativa trova sì ingresso nell’ambito del pubblico impiego, attraverso le “valvole di apertura” rappresentate dall’art. 2, comma 2 e dall’art. 36, comma 1, del TUPI, nonché attraverso gli opportuni adattamenti previsti dalla contrattazione collettiva, ma deve arrestarsi di fronte alla regola speciale del divieto di conversione – stabilizzazione del rapporto, posta dal successivo comma 2 dell’art. 36.
Peraltro la regola in questione appare “confermata” dall’art. 86, comma 9, del d.lgvo 276/2003, che, in caso di somministrazione irregolare, esclude per le pubbliche amministrazioni la costituzione di un rapporto di lavoro alle loro dipendenze, consentendo solo l’applicazione della disciplina della somministrazione di lavoro a tempo determinato.
La dottrina ha rilevato che la ratio della diversità del meccanismo sanzionatorio risiede soprattutto nella disciplina delle piante organiche e nelle esigenze di contenimento della spesa pubblica, che si riflettono nel principio di buon andamento ex art. 97 Cost..
Ed infatti tra le finalità indicate all’art. 1 del d.lgvo 165 del 2001 vi è quella di “razionalizzare il costo del lavoro pubblico, contenendo la spesa complessiva per il personale, diretta e indiretta, entro i vincoli di finanza pubblica”, coerentemente alla previsione di cui all’art. 2 della legge delega 421 del 1992 (Il Governo della Repubblica è delegato a emanare entro novanta giorni dalla data di entrata in vigore della presente legge uno o più decreti legislativi, diretti al contenimento, alla razionalizzazione e al controllo della spesa per il settore del pubblico impiego, al miglioramento dell’efficienza e della produttività, nonché alla sua riorganizzazione..).
Detta finalità è peraltro alla base di altre significative “deviazioni” o differenziazioni rispetto alla disciplina del lavoro subordinato nell’impresa; basti pensare alla disciplina delle mansioni di cui all’art. 52 del d.lgvo 165, sotto il profilo del divieto della c.d. promozione automatica (..l’esercizio di fatto di mansioni non corrispondenti alla qualifica di appartenenza non ha effetto ai fini dell’inquadramento del lavoratore o dell’assegnazione di incarichi di direzione..); o alla impossibilità di pattuire “superminimi individuali”, ex art. 2, comma 3 e 45, commi 1 e 2 del TUPI (i contratti individuali devono conformarsi ai principi di cui all’articolo 45, comma 2… il trattamento economico fondamentale ed accessorio è definito dai contratti collettivi.. Le amministrazioni pubbliche garantiscono ai propri dipendenti di cui all’articolo 2, comma 2, parità di trattamento contrattuale e comunque trattamenti non inferiori a quelli previsti dai rispettivi contratti collettivi).
Altre norme, inoltre, sul potere direttivo e disciplinare del datore di lavoro pubblico, hanno indotto parte della dottrina ad affermare la persistenza di profili di specialità del rapporto di lavoro pubblico; basta in proposito citare la disciplina del c.d. ius variandi, esercitabile dal datore di lavoro con riguardo alle mansioni considerate equivalenti nell’ambito della classificazione professionale prevista dai contratti collettivi; e la regolamentazione degli artt. 53 e 54 del TUPI.
In proposito la Corte Costituzionale, con la sentenza n. 83 del 2003, di rigetto della questione di costituzionalità della norma in esame (art. 36, comma 2 del TUPI), ha affermato che, anche dopo la privatizzazione, il rapporto di lavoro dei dipendenti pubblici non è completamente assimilabile al lavoro privato, considerando in particolare,avuto riguardo al profilo genetico del rapporto, il principio fondamentale in materia di instaurazione del rapporto di impiego alle dipendenze delle pubbliche amministrazioni, ovvero quello, del tutto estraneo alla disciplina del lavoro privato, dell’accesso mediante concorso, enunciato dall’art. 97, terzo comma, della Costituzione; pertanto non è configurabile la lesione del principio di uguaglianza, attesa la disomogeneità tra le situazioni dei due rapporti di lavoro (pubblico e privato).
Con pronuncia più risalente, relativa alla questione di costituzionalità degli artt. 1 e 4 del DPR 276 del 1971 – che stabilivano la nullità delle assunzioni temporanee di personale nell’amministrazione dello Stato effettuate in violazione della disciplina contenuta nello stesso decreto, ma anche la risoluzione di diritto delle predette assunzioni al compimento del termine – la Corte, anche allora, non censurò la mancata applicazione della sanzione della conversione, sempre sulla base del disposto dell’art. 97 Cost., non mancando di rilevare “..l’opportunità di porre un freno ad assunzioni senza concorso indiscriminate, clientelari, destinate a trasformarsi in assunzioni a tempo indeterminato con pregiudizio per la Pubblica Amministrazione e l’Erario…” (Corte Cost. n. 40 del 1986).
Va peraltro ricordato che la decisione in merito alla individuazione delle risorse umane da assumere è rimasta nell’alveo pubblicistico e appartiene alla sfera decisionale degli organi di governo (artt. 4 lett. c), 5, comma 2, TUPI). Nelle amministrazioni pubbliche l’organizzazione e la disciplina degli uffici, nonché la consistenza e la variazione delle dotazioni organiche sono determinate previa verifica degli effettivi fabbisogni e previa consultazione delle organizzazioni sindacali rappresentative; le variazioni delle dotazioni organiche già determinate sono approvate dall’organo di vertice delle amministrazioni, in coerenza con la programmazione triennale del fabbisogno di personale introdotta dall’art. 39 della l. 449 del 1997 (art. 6, commi 1 e 4 del TUPI).
Il divieto della conversione è quindi coerente anche con la necessità di non eludere la predetta disciplina, che impone una consapevole e formalizzata programmazione della provvista di personale da immettere nelle dotazioni organiche, nel quadro degli appositi stanziamenti di bilancio.
Del resto tale esigenza finanziaria è anche alla base delle norme che, da circa un decennio, hanno fissato il c.d. blocco delle assunzioni per il personale contrattualizzato e non (per stare alle disposizioni più recenti: art. 34 l. n. 289 del 2002; art. 3, cc 53 ss. L. 350/2003; art. 1, commi 93 ss. l. 311/2004”) e previsto, correlativamente, la possibilità di un più largo ricorso a forme flessibili di lavoro (art. 34, comma 13, l. 289/2002; art. 1, comma 116, l. 311/2004).
La domanda di conversione del rapporto a tempo indeterminato deve quindi essere rigettata; parimenti deve essere rigettata la domanda di risarcimento dei danni.
Parte della dottrina ritiene che la norma in questione, nella parte in cui prevede il risarcimento del danno derivante dalla prestazione di lavoro in violazione di disposizioni imperative, introduca un principio generale di risarcibilità, che rientra nel campo della responsabilità extracontrattuale, con la conseguenza che il lavoratore è tenuto a provare il danno in concreto subito, con il limite previsto dall’art. 1225 c.c., in caso di mancanza di dolo, consistente nella risarcibilità del solo danno prevedibile.
Ora anche prescindere da ogni problema qualificatorio in ordine a tale ipotesi di responsabilità, va detto che i ricorrenti non hanno allegato alcun tipo o fattispecie di danno patrimoniale (mancata retribuzione, mancato versamento di contributi previdenziali) e non patrimoniale (danno all’immagine, alla dignità, alla reputazione, alla professionalità) che sia loro derivato dalla prestazione di lavoro svolta in violazione di disposizioni imperative.
Per tali assorbenti considerazioni, risulta inutile l’indagine sulla legittimità o meno del termine apposto ai contratti di lavoro in questione.
Le spese vanno compensate per la complessità delle questioni trattate.
P. Q. M.
          definitivamente pronunciando, dichiara il difetto di giurisdizione in ordine alle pretese afferenti i rapporti di lavoro antecedenti al 30.06.1998;
          rigetta nel resto le domande;
          compensa le spese processuali.
Così deciso in Ragusa il 20.09.2005.
                                                                      
IL GIUDICE DEL LAVORO
(Dott. Giovanni Giampiccolo)

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