TAR Catania, I Sezione, sentenza nr. 765 – 3 maggio 2007: in materia di revoca dell’Assessore Comunale da parte del Sindaco

sentenza 28/02/08
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REPUBBLICA ITALIANA  IN NOME DEL POPOLO ITALIANO

Il Tribunale Amministrativo Regionale per la Sicilia – Sezione staccata di Catania – Sezione Prima, composto dai ******************:
Dott. *****************   Presidente
Dott.ssa ***************      Giudice
Dott. ************************** Giudice rel.est.
ha pronunciato la seguente
S E N T E N Z A
Sul ricorso nr. 3566/2005 R.G., proposto da *** Salvatore rappresentato e difeso unitamente e disgiuntamente dall’Avv. ************ e dall’Avv. ***************, con domicilio eletto in Catania, via Musumeci nr. 160 (presso studio ********);  
contro 
Il Comune di Acquedolci, in persona del Sindaco pro tempore, legale rappresentante, rappresentato e difeso dall’Avv. ************, con domicilio eletto in Catania via Aloi 46 (presso studio Incorpora);
e nei confronti
del sig. T*** ******** e del sig. **************** non costituiti; 
per l’annullamento 
della determinazione sindacale n. 59 dell’ 08.10.2005, nella parte in cui il Sindaco pro tempore del Comune di Acquedolci, dott. ********* ***, ha disposto la revoca della nomina di Assessore del sig. *** Salvatore di cui all’atto nr. 10 del 03.02.2005, rettificato con determinazione n. 13 del 04.02.2005;
di ogni altro atto presupposto, connesso e/o consequenziale, ivi compresa la nomina dei nuovi assessori di cui alla determinazione sindacale n. 60 del 10.10.2005;
e per il risarcimento del danno.
Visto il ricorso con i relativi allegati;
Visto l’atto di costituzione del Comune di Acquedolci;
Visti gli atti tutti della causa;
Designato relatore, all’udienza pubblica dell’ 11 gennaio 2007, il Referendario dr. **************************;
Uditi altresì gli avvocati delle parti, come da relativo verbale;
Ritenuto in fatto e considerato in diritto quanto segue:
IN FATTO
     Il ricorrente espone di essere stato nominato Assessore alle Attività produttive nel Comune di Acquedolci, a seguito delle ultime elezioni amministrative dove era risultato consigliere comunale eletto.
     In data 08.10.2005 veniva revocato dalla carica, unitamente ad altro Assessore, ed al loro posto venivano nominati gli odierni controinteressati.
     Avverso i suddetti provvedimenti ha dunque proposto l’odierno ricorso, notificato il 7 dicembre 2005, depositato il 30 dicembre successivo, con il quale ha dedotto le seguenti censure:
     1) violazione degli artt. 46 comma 4 d.lgs. 267/2000, 7 e s. l. 241/90 violazione dei principi del giusto procedimento, mancanza della comunicazione di avvio del procedimento al destinatario dell’atto.
     2) violazione degli artt. 46 comma 4 D.lgs 267/2000 e 3 l. 241/90 eccesso di potere per difetto di motivazione, contraddittorietà ed illogicità manifeste, sviamento di potere, inadeguatezza ed incongruità dei motivi esposti nell’atto;
     E’ stato altresì chiesto il risarcimento del danno, che quantifica in via equitativa in euro 5.000,00 e da devolvere in beneficenza. 
     Il Comune si è costituito chiedendo il rigetto del ricorso avversario; non si sono invece costituiti i controinteressati, seppure ritualmente intimati.
     Le parti hanno scambiato memorie e documenti.
     Alla Udienza Pubblica dell’11 gennaio 2007, la causa è stata trattenuta in decisione.
IN DIRITTO
      Con l’odierno ricorso, il sig. *** lamenta che illegittimamente sarebbe stato revocato dalla carica di Assessore comunale, carica per la cui accettazione ha dovuto rinunciare al mandato di consigliere comunale ottenuto a seguito delle elezioni amministrative e chiede quindi anche il risarcimento del danno, derivante sia dalla perdita del mandato che dal discredito subito nell’ambiente comunale.  
      La difesa del Comune è affidata, in sintesi, alla ritenuta insindacabilità della revoca, che in quanto atto politico ed ampiamente discrezionale non necessita di motivazione e, pertanto, non soggiace alle ordinarie regole procedimentali la cui violazione è stata lamentata dal ricorrente.
     I) In tema di revoca di assessore, la giurisprudenza prevalente è orientata nel ritenere che il relativo atto sindacale è soggetto alle regole consuete del procedimento (T.A.R. Friuli Venezia Giulia Trieste, 20 maggio 2005 , n. 478), specialmente in termini di avviso di avvio e di motivazione.
     Ad es. si è ritenuto che “è illegittimo il provvedimento con il quale il Sindaco dispone la revoca della nomina di un assessore comunale nel caso in cui tale provvedimento non sia preceduto dalla comunicazione all’interessato dell’inizio del procedimento e non esplichi le concrete ragioni che hanno indotto per esigenze di celerità ad omettere la comunicazione stessa (cfr. T.A.R. Molise Campobasso, 28 marzo 2006 , n. 235; T.A.R. Friuli Venezia Giulia Trieste, 20 maggio 2005 , n. 478);  in maniera più esplicita, è stato affermato che “il provvedimento di revoca di un assessore, adottabile dal Sindaco ai sensi dell’art. 46 comma 4, d.lg. 18 agosto 2000 n. 267, non costituisce atto politico insindacabile, in quanto tale, in sede di giurisdizione amministrativa (T.A.R. Veneto Venezia, sez. I, 20 gennaio 2006 , n. 104).
     Sulla medesima linea giurisprudenziale si colloca poi una recente pronuncia del Consiglio di Stato, nella quale è stata ritenuta legittima “la revoca di un assessore provinciale disposta dal presidente della provincia sulla base di esplicitati dati di fatto, necessariamente implicanti il venir meno del rapporto fiduciario e giustificativi dell’adottando provvedimento di revoca. Né può ritenersi erroneo giudicare fondate le giustificazioni poste a fondamento del provvedimento di revoca, senza effettuare alcuna verifica, in quanto i fatti attestati da una pubblica autorità, quale è il presidente dell’amministrazione provinciale, fanno fede fino a querela di falso con la conseguenza che, nel caso in cui non venga esperita dall’interessato, non vi è alcun motivo di procedere a verifica in sede istruttoria” (Consiglio Stato , sez. V, 06 marzo 2006 , n. 1052)
     Pertanto, anche se “la revoca dell’incarico di Assessore è posta essenzialmente nella disponibilità del sindaco o del presidente della provincia e la comunicazione motivata al consiglio (ex art. 46 d.lg. n. 267 del 2000) è tendenzialmente diretta al mantenimento di un corretto rapporto collaborativo tra sindaco – giunta/presidente provincia – giunta ed il Consiglio comunale o provinciale – il quale potrebbe eventualmente opporsi ad un atto del genere, ma con l’estremo rimedio della mozione di sfiducia motivata (art. 37, l. n. 142 del 1990, come sostituito dall’art. 18, l. n. 81 del 1993, ed art. 52, d.lg. n. 267 del 2000), che però comporta in caso di approvazione lo scioglimento del consiglio stesso” (Consiglio Stato , sez. V, 08 marzo 2005 , n. 944) – è del pari richiesta una specifica motivazione. Tanto più considerando che, nell’adozione dell’atto, il Sindaco può enunciare le più ampie valutazioni di opportunità politico – amministrative, rimessegli in via esclusiva e basate su esigenze di carattere generale, quali ad es. rapporti con l’opposizione o rapporti interni alla maggioranza consiliare, o su particolari esigenze di maggiore operosità ed efficienza di specifici settori dell’amministrazione locale, od anche, infine, incentrate sull’affievolimento del rapporto fiduciario tra il capo dell’amministrazione ed il singolo assessore. (cfr. Consiglio Stato , sez. V, 08 marzo 2005 , n. 944). In tal senso, osserva il Collegio, l’ampia libertà di valutazione che è rimessa al Sindaco, rende ancora più doveroso ed incomprimibile il rispetto dell’obbligo di motivazione, come per tutti gli atti rimessi a valutazioni ampiamente discrezionali.
     Laddove, infatti, la legge rimette ad un organo amministrativo l’adozione di atti a contenuto altamente discrezionale, l’emersione nella motivazione degli apprezzamenti di fatto e di opportunità sui quali il provvedimento si fonda, assurge ad elemento strutturale nella dinamica dell’interesse pubblico che si vuole tutelare e pertanto la sua assenza o insufficienza determina assoluta illegittimità dell’atto.
     II) Sebbene le posizioni della giurisprudenza siano sufficientemente consolidate in ordine alla ritenuta sottoponibilità dell’atto di revoca dell’Assessore alle regole sul procedimento amministrativo, sussistono tuttavia alcune pronunce che hanno riconosciuto in detto provvedimento, il tipico atto politico che a norma dell’art. 31 del T.U. leggi sul Consiglio di Stato nr. 1054/1924, non è sindacabile dal giudice amministrativo (in particolare, cfr. TAR Liguria, Genova, I, 7.12.2004, nr. 1600).
     Il tema ha conosciuto anche un approfondito dibattito in dottrina, nella quale non sono mancati autori che hanno sottolineato come, nel sistema delle autonomie quale emergente dalla riforma del titolo V della Costituzione, la posizione istituzionale dell’Ente locale obbligherebbe l’interprete ad avvicinare le figure dell’esecutivo comunale e del Governo, con la conseguenza che la nomina e la revoca da parte del Sindaco degli Assessori non potrebbe differenziarsi dal rapporto tra il Presidente del Consiglio dei Ministri e i propri componenti del Dicastero.
     Come anticipato sopra, queste posizioni sono comunque rimaste in giurisprudenza del tutto minoritarie, ed anche in relazione a ciò il Collegio non può condividerle.
     A questo proposito, si osserva che la norma di cui all’art. 41 del Dlgs 267/2000, al quale in Sicilia, corrisponde la previsione di cui all’art. 12 della L.R. nr. 40/92 (a mente del quale, “Il Sindaco può, in ogni tempo, revocare uno o più componenti della giunta. In tal caso,  egli deve, entro sette giorni, fornire al Consiglio Comunale circostanziata relazione sulle ragioni del provvedimento sulla quale il consiglio comunale può esprimere valutazioni. Contemporaneamente alla revoca,il Sindaco provvede alla nomina dei nuovi assessori…omississ”)obbliga il Sindaco a proporre al Consiglio una motivata illustrazione delle ragioni che lo hanno indotto alla scelta della revoca dell’Assessore.
     La necessaria motivazione dell’atto, implica, dunque, che non può in ogni caso parlarsi di atto politico.
     Più precisamente, pur se può variamente argomentarsi su chi sia il “beneficiario” della motivazione (ovvero a tutela di quale interesse giuridico – bene protetto essa presieda,  e cioè  se la norma tuteli solo l’interesse dell’Assessore al mantenimento dell’incarico, o solo quello del Consiglio a valutare il rapporto fiduciario con l’esecutivo o entrambi), l’esistenza di quest’ultimo elemento nello schema tipico del provvedimento non può far altro che condurre a ritenere la sindacabilità dell’atto.
     Come la Sezione ha avuto infatti modo di affermare in recentissima decisione, pubblicata nelle more della stesura della presente sentenza (TAR Catania, I, 8.2.2007, nr. 236), laddove la legge impone una delibera motivata, non ci sono ragioni formali per ritenere che tale motivazione non sia sindacabile da parte del giudice. Ciò che differenzia la motivazione di una delibera di sfiducia o un atto di revoca come quello in esame, da quella di qualsiasi altro atto o provvedimento amministrativo è solo che la sfiducia o la revoca sono atti il cui contenuto non è normato. Tuttavia, pur non sussistendo un paradigma legale che consente di sindacare la legittimità o meno del contenuto della relativa decisione, ciò non comporta che la sfiducia sia un atto totalmente libero. La motivazione di un atto discrezionale è infatti sindacabile entro i consueti canoni della logicità, ragionevolezza ed assenza di contraddizione: ossia la misura della legittimità della motivazione sta nella motivazione stessa, vale a dire nella sua logicità, o coerenza di contenuto tra fatti, considerazioni e conclusioni, che, quindi laddove siano riferite o riferibili a circostanze “di fatto”, devono essere “effettive” ossia reali; laddove siano riferiti a giudizi o analisi o valutazioni di determinati accadimenti, questi ultimi devono essere, oltre che realmente accaduti anche riferibili a fatto dell’interessato e le prime devono essere “proporzionate” ai secondi, secondo un criterio di adeguatezza e verosimiglianza.
     Quanto al bene tutelato, ossia all’interesse protetto, una volta accettato che la norma impone che la scelta della revoca venga motivata (la norma regionale siciliana chiede una “circostanziata” motivazione), non può conseguentemente escludersi che essa tuteli sia l’Assessore destinatario di essa che il Consiglio, perché entrambi sono parti del rapporto tra esecutivo ed organismo consiliare (a meno di non voler sostenere l’inaccettabile tesi che quest’ultimo rapporto sussiste solo tra il Consiglio ed il Capo dell’Esecutivo locale).
     In atre parole, posto che se l’atto di revoca avesse natura politica, e non (anche) amministrativa, non sussisterebbe l’obbligo di motivazione, e ritenuto che l’esistenza di esso implica necessariamente una esplicitazione degli interessi che, con l’atto, si intende perseguire, allora si deve ritenere che la disciplina dell’istituto della revoca dell’Assessore è posta a presidio del corretto rapporto tra Esecutivo ed Assemblea locale deliberante, e quindi tutela sia l’interesse del Consiglio Comunale che quello dell’Assessore al mantenimento dell’incarico, perché entrambi partecipano, con diversi ruoli, al medesimo rapporto, oggetto di tutela da parte della legge.
     Questa considerazione spinge quindi il Collegio ad aderire alla impostazione della giurisprudenza dominante, poiché è da ritenersi prevalente, nello schema normativo, l’interesse alla tutela della relazione tra Esecutivo e Consiglio e, in capo all’Assessore, il correlato interesse alla difesa di una posizione ampliata o di vantaggio tutelata dall’Ordinamento, rispetto a quello (presupposto dalla tesi dell’atto di revoca come atto politico) di assicurare una sfera di insindacabilità degli atti organizzativi dell’Esecutivo locale, nel quadro della separazione dei poteri amministrativi e giudiziari. Quest’ultima esigenza, infatti, non è compromessa dalla sussistenza della tutela giurisdizionale perché è comunque tutelata dalla insindacabilità delle valutazioni di opportunità, contenute nella motivazione, la cui logicità e coerenza sono dunque al tempo stesso condizione ed elemento sufficiente ad assicurare che gli organi politici espletino la loro insindacabile attività di autorganizzazione nel quadro della piena separazione dei poteri.
     III) Le superiori considerazioni portano quindi il Collegio a ritenere che il ricorso è fondato e come tale da accogliersi, mancando negli atti impugnati ogni aspetto motivazionale.
     E’ sufficiente osservare, infatti che i provvedimenti in epigrafe sono affidati ad una motivazione appena formale, considerabile (come appunto rileva la difesa del ricorrente) più come una clausola di stile che altro.
     Tra l’altro, anche la discussione emersa nel dibattito svoltosi in Consiglio lascia emergere un generale apprezzamento dell’operato dell’Assessore revocato, con ciò rivelandosi che la motivazione formale dell’atto non è stata neppure suscettibile di fornire concreti elementi di valutazione al Consiglio Comunale, il quale, in pratica, non ha potuto che prendere atto della revoca, senza apprezzarne le reali ragioni, perché, appunto, non esplicitate.
     IV) Quanto al risarcimento danni, la domanda è fondata e come tale da accogliersi.
     Il difensore del ricorrente ha chiesto la liquidazione in via equitativa del danno anche di immagine che l’Assessore ha subito nella vicenda, quantificandolo in euro 5.000,00 da devolvere in beneficienza.
     Sul punto del risarcimento, deve osservarsi quanto segue.
     Quanto all’elemento oggettivo del danno, ossia l’esistenza di un comportamento contra ius che lede un bene giuridico tutelato, esso emerge con evidenza dalla illegittimità degli atti impugnati, che sono lesivi dell’interesse pretensivo al mantenimento della posizione di vantaggio correlata alla nomina di Assessore, per accettare la quale il ricorrente ha dovuto rinunciare al mandato di consigliere comunale che aveva ottenuto all’esito delle consultazioni elettorali.
     Deve essere invece meglio approfondito l’elemento soggettivo del danno ed i correlativi profili probatori.
     Ai sensi dell’art. 2043 del codice civile, il comportamento lesivo è fonte di responsabilità, in quanto determinato da dolo o colpa; ai fini della condanna al risarcimento è dunque necessario poter esprimere un giudizio di rimproverabilità soggettiva del comportamento lesivo, ossia di ascrizione del fatto ad un comportamento di colui che lo ha causato quantomeno in termini di colpevolezza.
     Tale giudizio, nel caso di specie, è evidentemente riferibile al Sindaco del Comune resistente, in quanto egli ha operato la revoca senza dare ragione delle correlative motivazioni ed in ciò ha quindi leso l’aspettativa del ricorrente.
     Si deve precisare che l’atto impugnato è illegittimo per violazione di legge; quanto al profilo del danno, si deve verificare in quale misura abbia compresso la sfera giuridica del destinatario, affinchè il relativo giudizio di responsabilità abbia contenuto e carattere effettivamente ripristinatori e non, più latamente, meramente sanzionatori ossia puntivi.
     Il risarcimento del danno, infatti, è istituto che si pone lo scopo di assicurare che all’interruzione del comportamento lesivo consegua il pieno ripristino della situazione giuridica ingiustamente lesa.
     Ora, alla sentenza di annullamento dell’atto illegittimo, conseguirà, necessariamente, il ripristino della posizione giuridica ampliativa con esso compressa e quindi verrà ripristinato nella carica di Assessore chi, ingiustamente, ne era stato spogliato.
     Ciò che il ricorrente richiede dunque è che siano ripristinati i vantaggi e le utilità connesse alla posizione giuridica tutelata relativamente al periodo di illecita compressione dell’interesse.
     Due sono gli aspetti che connotano la posizione di vantaggio: la perdita delle indennità, che è l’effetto immediato e diretto dello spoglio illegittimamente subito; la perdita di immagine ed il discredito che è l’aspetto esistenziale e personale dell’interesse. Entrambi i profili costituiscono una lesione dell’unitario diritto (primario) dell’individuo, costituzionalmente garantito, costituito dall’espletamento di un mandato pubblico elettivo, ossia un diritto politico.
     Mentre il primo dei due elementi del danno è di immediata evidenza ed intuitivo accertamento, il secondo necessita di adeguato approfondimento.
     A questo proposito, deve richiamarsi quanto la Sezione ha avuto modo di affermare in una recentissima pronuncia (TAR Catania, I, 27 aprile 2006 nr. 643).
     In tale pronuncia si è ritenuto che “ove dall’attività amministrativa ritenuta illegittima derivi in capo al cittadino un danno ad uno dei beni della personalità garantiti dalla Costituzione senza che questi possa attivare alcun comportamento elusivo del pregiudizio, ebbene, il risarcimento del danno patrimoniale sarà dovuto; ove, al contrario, il bene della vita costituzionalmente inciso dall’attività illegittima sia subordinato e/o collegato al nocumento prodotto verso altri beni, non immediatamente garantiti come primari dalla Costituzione, occorrerà verificare che, in concreto, il danneggiato non avesse alcuna possibilità, secondo l’ordinaria diligenza, di conseguire aliunde, sia pure a prezzo di sacrifici economici autonomamente risarcibili, il bene la cui mancanza occasionata dall’attività amministrativa ha determinato la sofferenza e, quindi, il concretarsi del danno non patrimoniale.  
Correlativamente, quando si è in presenza di un danno evento “puro”, l’unica prova che deve essere fornita è quella della verificazione, appunto, dell’evento, mentre nulla dovrà dimostrarsi in ordine al pregiudizio al diritto di personalità, che è insito nel fatto stesso che si è prodotto un certo fenomeno rilevante per l’ordinamento giuridico (mentre, nella diversa ipotesi in cui, invece, il soggetto passivo abbia ricevuto un danno evento “eventuale”, occorrerà la prova non solo della verificazione del fatto, ma, di più, della circostanza che nulla era possibile fare per ovviare al pregiudizio diretto ricevuto ed a quello consequenziale consistente nella lesione del diritto alla personalità).
     Nel caso all’odierno esame del Collegio, appare evidente che il ricorrente sta lamentando un danno “puro”: ossia, come accennato sopra, un danno alla sua immagine legata all’esercizio di un diritto politico.
     Ritiene il Collegio di precisare che la lesività dell’atto di revoca è direttamente correlata alla “tipologia” della illegittimità.
     Essendo immotivato, l’atto di revoca è lesivo non solo perché illegittimo, ma perchè espone il destinatario al discredito dell’opinione pubblica, la quale è legittimata a inferire dall’atto generali ragioni di censura nei confronti dell’Assessore.
     Pertanto, sotto il profilo del danno, è evidente che la mancanza di motivazione rende l’atto di revoca effettivamente e gravemente lesivo dell’immagine dell’Assessore revocato, perché impedisce allo stesso qualsiasi difesa e legittima una evidenza pubblica di assoluto disvalore in ordine al suo operato.
     Di conseguenza, sussiste, nel caso di specie, un evidente legame di causa – effetto tra la specifica ragione di censura dedotta contro l’atto impugnato ed il danno denunciato.
Quanto alla prova del danno, trattandosi di una lesione di immagine correlata ad un diritto della personalità di primaria importanza, quale, appunto, l’esercizio di un mandato politico amministrativo, è sufficiente l’allegazione del fatto che il danno è collegato alle ridotte dimensioni del contesto sociale ed amministrativo dell’Ente locale di riferimento, che sono elementi palesi che fanno ritener implicitamente ed intimamente connessi i risvolti lesivi della vicenda alla illegittimità dell’atto (conformemente a quanto ritenuto nella citata pronuncia nr. 643/2006).
Così, anche per quanto riguarda la misura del risarcimento richiesto (euro 5.000,00) la stessa, in assenza di ogni deduzione avversaria, può ritenersi ammissibile e congrua, in via equitativa.
Quest’ultima modalità di liquidazione, è consentita, infatti, laddove si tratti di danno che non può essere p*** nel suo esatto ammontare (art. 1226 cod.civ. richiamato dall’art. 2056, 1 comma, Cod.civ.; cfr. Consiglio di Stato, IV 22 giugno 2006, nr. 3885, TAR Campania, Napoli, I, 08 febbraio 2006, n. 1794) ed è ammissibile nei limiti della (mera) quantificazione del danno, mentre spetta al ricorrente che agisce per il risarcimento provare gli elementi costitutivi della propria pretesa e delle relative voci (cfr. ex multis, tra le più recenti, TAR Liguria, Genova, I, 21 aprile 2006, n. 391; TAR Lazio Roma, II, 13 febbraio 2006, n. 1052), condizioni queste che, nel caso di specie, sono state pienamente rispettate.
Pertanto, il Collegio dispone che il Comune risarcisca il danno al ricorrente, liquidandone l’importo in euro 5.000,00, conformemente alla domanda.
Le spese di lite seguono la soccombenza e si liquidano in euro 2.000,00 da corrispondersi a carico del Comune resistente in favore del ricorrente.
P.Q.M.
Il Tribunale Amministrativo Regionale per la Sicilia, sezione staccata di Catania, sez. interna prima, ACCOGLIE il ricorso in epigrafe e, per l’effetto, ANNULLA l’atto impugnato, nella parte di interesse del ricorrente.
CONDANNA il Comune resistente al risarcimento del danno, che liquida, in via equitativa, in euro 5.000,00, da corrispondersi in favore del ricorrente.
CONDANNA il Comune resistente alla refusione delle spese di giudizio che liquida, forfetariamente e definitivamente, in euro 2.000,00 da corrispondersi in favore del ricorrente.
Ordina che la presente sentenza sia eseguita dall’autorità amministrativa.
Così deciso in Catania nella camera di consiglio del giorno 11.01.2007.
      L’ESTENSORE  IL PRESIDENTE
        Depositata in Segreteria il 03 maggio 2007

sentenza

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