Sull’istituzione del c.d. reddito di cittadinanza

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In Italia si è recentemente votato per le elezioni politiche che, com’era prevedibile a causa della nuova legge elettorale, non hanno conferito ad alcuna coalizione la maggioranza parlamentare necessaria per creare un Governo.

In attesa di ulteriori sviluppi per la nascita del nuovo Esecutivo, è interessante notare che l’elettorato sembra avere premiato, soprattutto in alcune aree geografiche, la proposta di istituire il c.d. reddito di cittadinanza che in questo elaborato si intende esaminare nei suoi punti principali.

Ebbene, nel disegno di legge S1148/2013 si parla appunto di reddito di cittadinanza, ma secondo l’art. 4 comma 1 ne hanno diritto “soggetti  in possesso  della cittadinanza italiana o di Paesi facenti  parte dell’Unione europea; b) soggetti provenienti da Paesi che hanno sottoscritto convenzioni bilaterali di sicurezza sociale”: quindi, nonostante la denominazione, il beneficio è esteso anche a chi non possiede la cittadinanza italiana, con prevedibili conseguenze, secondo alcuni, sui flussi migratori verso il nostro Paese.

Inoltre, “Per i soggetti  maggiori di anni diciotto, fino al compimento del venticinquesimo anno di età” sono previsti,  “per l’accesso al beneficio”, determinati requisiti di istruzione (art. 4 comma 3): non si comprende questa differenza di trattamento basata sull’istruzione, che nel caso di una misura assistenziale sembra più discriminatoria che meritocratica.

Per quanto riguarda, poi, la “durata del beneficio” (art. 8 comma 1), “Il reddito di cittadinanza è erogato per il periodo durante il quale il beneficiario si trova in una delle condizioni previste all’articolo  4”, cioè se percepisce “un reddito annuo calcolato ai sensi dell’art 3, comma 1”, in altre parole “un reddito annuo netto calcolato secondo l’indicatore ufficiale di povertà monetaria dell’Unione europea”, calcolato attualmente in 780 euro mensili: è facile prevedere un abuso, per esempio, del lavoro intermittente (c.d. contratti a chiamata) o part-time, a fronte di un reale contratto di lavoro subordinato a tempo indeterminato, con un evidente vantaggio per il datore di lavoro di pagare meno tasse e contributi e per il lavoratore dipendente di non perdere il diritto al reddito di cittadinanza.

Oltre a ciò, ai sensi dell’art. 9 comma 1, il beneficiario “deve fornire immediata disponibilità al lavoro presso i centri per l’impiego territorialmente competenti”: si tratta quindi, di un beneficio rivolto de facto esclusivamente ai lavoratori dipendenti (con esclusione di liberi professionisti, imprenditori, artigiani, commercianti e altre categorie di lavoratori autonomi), poiché prevede che chi riceve il beneficio debba poi accettare un’offerta di lavoro subordinato, incentivando così la chiusura della propria attività in crisi a fronte della certezza di un reddito di natura assistenziale.

E’ molto interessante, ancora, la disposizione di cui all’art. 9 comma 4: “In coerenza con il profilo professionale del beneficiario, con le competenze acquisite in ambito formale, non formale e informale, nonché in base agli interessi e alle propensioni emerse nel corso del colloquio di cui all’articolo 11, comma 1, lettera b), sostenuto presso il centro per l’impiego, il beneficiario è tenuto ad offrire la propria disponibilità per la partecipazione a progetti gestiti dai comuni, utili alla collettività, in ambito culturale, sociale, artistico, ambientale, formativo e di tutela dei beni comuni, da svolgere presso il medesimo comune di residenza o presso quello più vicino che ne abbia fatto richiesta, mettendo a disposizione un numero di ore compatibile con le altre attività del beneficiario stabilite dalla presente legge e comunque non superiore al numero di otto ore settimanali. La partecipazione ai progetti è facoltativa per disabili o soggetti non più in età lavorativa”.

Tale disponibilità a partecipare a progetti utili alla collettività, a parere dello scrivente, andrebbe estesa anche ai beneficiari di altre misure assistenziali previste dalla legge.

Secondo l’art. 12, tra le cause di decadenza del beneficio in relazione all’inserimento lavorativo, il beneficiario perde il diritto all’erogazione del reddito di cittadinanza al verificarsi, tra le altre, di una delle seguenti condizioni (comma 1): “b) sostiene più di tre colloqui di selezione con palese volontà di ottenere esito negativo, accertata dal responsabile del centro per l’impiego attraverso le comunicazioni ricevute dai selezionatori o dai datori di lavoro; c) rifiuta, nell’arco di tempo riferito al periodo di disoccupazione, più di tre proposte di impiego ritenute congrue ai sensi del comma 2 del presente articolo, ottenute grazie ai colloqui avvenuti tramite il centro per l’impiego o le strutture preposte di cui agli articoli 5 e 10”.

Quello appena esposto è uno dei punti più controversi del disegno di legge.

In particolare, lascia perplessi la disposizione dell’art. 12 comma 1 lettera b) nella parte in cui prevede che il soggetto decada dal beneficio all’erogazione del reddito di cittadinanza, nel caso in cui sostenga più di tre colloqui di lavoro “con palese volontà di ottenere esito negativo”: com’è facilmente intuibile, si tratta di una condotta del candidato valutabile in modo troppo discrezionale che potrebbe dare corso a giudizi arbitrari, senza contare gli eventuali accordi illeciti tra le parti che rischierebbero di creare forme di lavoro irregolare e un abuso del beneficio.

Altro punto oggetto di dubbi è la previsione dell’art. 12 comma 1 lettera c), secondo cui si decade dalla misura assistenziale in caso di rifiuto di “più di tre proposte di impiego ritenute congrue”: tutto ciò, quindi, è lasciato al buon funzionamento dei centri per l’impiego e delle altre strutture previste dal disegno di legge; non bisogna dimenticare, inoltre, che in alcune aree geografiche il tasso di disoccupazione è sistematicamente alto e sussiste pertanto il rischio concreto di una carenza di offerte di lavoro, con conseguente erogazione a tempo indeterminabile del beneficio.

A tale ultimo proposito, poco convincente sembra essere anche la previsione dell’art. 12 comma 3, secondo cui “Il beneficiario, al fine di poter mantenere i benefici di cui alla presente legge, è tenuto ad accettare proposte di lavoro anche in deroga a quanto stabilito dal comma 2, lettera a), qualora sia trascorso un anno di iscrizione al centro per l’impiego e il medesimo beneficiario non abbia accettato nessuna proposta di lavoro.”: pur essendo apprezzabile questa clausola di chiusura per evitare abusi, è palese, come poc’anzi esposto, che un alto tasso di disoccupazione rende non facilmente attuabile questa disposizione.

Ciò che suscita molte perplessità, come già sopra accennato, è che il reddito di cittadinanza sembra disincentivare il lavoro autonomo: “La misura del reddito di cittadinanza di cui ai commi 1 e 2 per i lavoratori autonomi, è calcolata mensilmente sulla base del reddito familiare, comprensivo del reddito da lavoro autonomo del richiedente certificato dai professionisti abilitati che sottoscrivono apposita convenzione con l’INPS per l’assistenza ai beneficiari del reddito di cittadinanza. Nei casi di crisi aziendale irreversibile e certificata, previa chiusura della partita IVA, si attiva per l’imprenditore un piano di ristrutturazione del debito a trent’anni e l’imprenditore diviene soggetto beneficiario del reddito. Entro sessanta giorni dalla data di entrata in vigore della presente legge, con decreto del Ministero del lavoro e delle politiche sociali, di concerto con il Ministero dell’economia e delle finanze, è predisposto il sistema di accesso e di controllo dei redditi per i lavoratori autonomi richiedenti” (art. 3 comma 5).

La norma, pertanto, prevede espressamente come requisito per fruire del beneficio la “previa chiusura della partita IVA”, creando così il paradosso che, se tutti i lavoratori autonomi chiudessero la propria attività, non ci sarebbero più soggetti disponibili ad offrire lavoro, la misura assistenziale sarebbe erogata a tempo indeterminato e la spesa pubblica aumenterebbe in modo esponenziale fino al defalult delle finanze pubbliche.

Concludendo, nonostante il reddito di cittadinanza sia “finalizzato a contrastare la povertà, la disuguaglianza e l’esclusione sociale, a garantire il diritto al lavoro, la libera scelta del lavoro”, la misura rischia di creare l’effetto opposto, aumentare la spesa pubblica e diventare un sussidio a vita, con un’inevitabile distorsione del sistema economico e sociale a favore dell’assistenzialismo.

 

Dott. Assenza Carmelo

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