Sulla riforma del delitto di abuso d’ufficio ad opera del decreto-legge 16 luglio 2020, n. 76

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Il decreto-legge del 16 luglio 2020, n. 76 (c.d. Decreto Semplificazioni), sul versante della responsabilità penale, ha innovato il reato di abuso d’ufficio ex art. 323 c.p..

Segnatamente, con l’art. 23 ha sostituito il sintagma «in violazione di norme di legge o di regolamento» con la formulazione più restrittiva «in violazione di specifiche regole di condotta espressamente previste dalla legge o da atti aventi forza di legge e dalle quali non residuino margini di discrezionalità».

La novella testé indicata, antinomica alla legge c.d. “spazza-corrotti” e sintonica alle antesignane novelle del 1990 e del 1997, offre il destro – ancora una volta – all’obiettivo politico-criminale, ispirato al principio di tassatività e determinatezza, di spiegare i suoi effetti: circoscrivere l’area della fattispecie incriminatrice di cui all’art. 323 c.p., la cui funzione di chiusura dell’apparato repressivo a tutela della Pubblica Amministrazione rende, ab immemorabile, siffatta fattispecie una figura “onnivora”[1], capace di ricomprendere ogni condotta sospetta di un pubblico funzionario (c.d. strategia ermeneutica del sospetto[2]).

Il deliberato obiettivo politico-criminale cui la riforma de qua tende si snoda lungo due direttive di fondo:

  1. assicurare una maggiore coerenza della fattispecie di abuso d’ufficio con il principio di precisione e di determinatezza imposto dal comma 2 dell’art. 25 Cost.;
  2. stemperare (rectius: arginare) improprie incursioni del giudice penale sull’azione amministrativa. Segnatamente, vuol evitarsi, sulla scorta dell’insegnamento montesquiano, uno squilibrio tra poteri che dovrebbero in via di principio considerarsi separati[3].

Sebbene il superiore obiettivo politico-criminale sia pregevole, principalmente in un’ottica di recupero di legalità, sub specie tassatività, non ci si può esimere dal rilevare come l’obiettivo deliberatamente manifestato e veicolato dal confortante “basta paura” del Decreto Semplificazioni, presti il fianco al rischio di un’autentica sterilizzazione della fattispecie, tale da espungere le condotte maggiormente pericolose per il buon andamento della pubblica amministrazione.

Premesso quanto supra, è opportuno rassegnare una disamina dell’intervento governativo, operato su tre distinti fronti, attraverso il quale è stato circoscritto l’abuso d’ufficio.

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Primo fronte: violazione di una regola di condotta prevista dalla legge o da atto avente forza di legge

Rispetto alla fonte, è stata esclusa la rilevanza della violazione di norme contenute in regolamenti. Invero, l’abuso potrà essere integrato solo dalla violazione di una regola di condotta “espressamente prevista dalla legge o da atti aventi forza di legge”, cioè da una fonte di rango ordinario.

L’intervento dianzi indicato ridesta il quesito sulla compatibilità dell’abuso d’ufficio con il principio costituzionale di riserva di legge ex art. 25, 2° comma, Cost. e risospinge il dubbio rispetto del dettato costituzionale, sostenuto con dovizia di argomenti dalla più autorevole dottrina[4], da parte della fonte sublegislativa.

L’esclusione dei regolamenti dal novero delle fonti rilevanti, infatti, selezionando, nel mare magnum di ciò che è genericamente contrario all’interesse protetto dalla norma, solo quelle condotte violatrici di una specifica regola precisata legislativamente, trascende la difficoltosa distinzione sapienziale tra norme di legge e di regolamento nonché l’annoso dilemma tra interpretazione formale e sostanziale del concetto di regolamento che, da sempre, pone inevitabili punti di frizione con l’immanente principio di legalità[5].

Tuttavia, se è vero che l’elisione dal paradigma normativo di riferimento della violazione della regola di condotta prevista dal regolamento recupera una parte di legalità nell’intervento repressivo, si appalesa, illico et immediate, il vuoto di tutela che detta elisione arreca in ordine all’uso distorto dei poteri e delle facoltà inerenti a una data attività amministrativa.

Nell’ordinamento positivo, infatti, soltanto nei regolamenti si rinvengono specifiche regole di condotta, capaci di orientare e uniformare l’operato dei pubblici funzionari. Questi appaiono indispensabili, specie nei settori della legislazione speciale caratterizzati da complessità tecnica e bisognosi di continuo aggiornamento.

Per converso, attesa la naturale vocazione della normazione primaria, le leggi e gli atti aventi forza di legge presentano requisiti di generalità e astrattezza che mal si conciliano con la previsione di specifiche ed espresse regole di condotta.

Di talché, l’intento perseguito dal Decreto Semplificazione con l’esclusione dei regolamenti dal novero delle fonti rilevanti, fallisce sul medesimo campo in cui lo stesso opera (id est, della determinatezza), giacché la generalità e l’astrattezza propria di una fonte primaria costituisce un vulnus al principio di precisione e di determinatezza di cui all’art. 25, 2° comma, Cost..

 

Secondo fronte: inosservanza di regole di condotta “specifiche” ed “espressamente previste” dalle fonti primarie

Rispetto all’oggetto, si è precisato che la violazione commessa dal pubblico funzionario deve riguardare una regola di condotta “specifica” ed “espressamente prevista” da fonti primarie.

Quanto all’intervento in parte qua, la riforma, vincolando l’abuso del penalmente rilevante alla violazione di specifiche ed espresse regole di condotta, mira a ridurre l’area applicativa dell’incriminazione escludendo che la violazione di principi generali possa integrare l’abuso d’ufficio.

Tra la moltitudine di principi generali, espressamente proclamati o incoativamente presenti nel testo costituzionale, emerge il dovere costituzionale di imparzialità e buon andamento della Pubblica amministrazione di cui all’art. 97 Cost..

Siffatto principio e la rilevanza penale della sua violazione è da sempre stato al centro di un acceso dibattito dottrinale e giurisprudenziale.

Sul punto, alla stregua dell’orientamento giurisprudenziale c.d. estensivo, l’art. 97 Cost. rileverebbe sia nella sua portata programmatica sia nella sua parte immediatamente precettiva che “impone ad ogni pubblico funzionario, nell’esercizio delle sue funzioni, di non usare il potere che la legge gli conferisce per compiere deliberati favoritismi e procurare ingiusti vantaggi ovvero per realizzare intenzionali vessazioni o discriminazioni e procurare ingiusti danni” (Cass. pen., sez. II, 27 ottobre 2015, n. 46096, Giorgino).

In senso diametralmente opposto, parte della giurisprudenza di legittimità esclude, expressis verbis, che il reato di abuso d’ufficio possa sussistere nella forma della violazione di uno dei principi di cui all’art. 97 Cost., il quale non fissa regole di comportamento precise, ma semplici principi privi di immediato contenuto precettivo. L’inserimento del citato art. 97 Cost. fra le disposizioni di legge violabili e rilevanti per l’abuso d’ufficio avrebbe, invero, come effetto quello di dilatare eccessivamente l’ambito di applicazione della norma incriminatrice, finendo con l’incidere anche sul principio di precisione di cui all’art. 25 Cost. (cfr. Cass. pen., sez. VI, 11 ottobre 2015, n. 12769, P.G. c. F.D.).

A quest’ultimo orientamento giurisprudenziale si lega sinergicamente la riforma de qua allorché, circoscrivendo l’incriminazione alla violazione di specifiche ed espresse regole di condotta, esclude dall’area del penalmente rilevante la violazione del principio di imparzialità e buon andamento di cui all’art. 97 Cost..

Invero, definendo i labili contorni dell’abuso d’ufficio, l’intervento governativo scongiura il rischio che un’incontrollata dilatazione di siffatta figura di reato trasmodi in pan-penalizzazione[6]. Altresì, restringendone il perimetro, garantisce una maggiore prevedibilità delle conseguenze degli illeciti nell’attività amministrazione e, per l’effetto, una maggiore coerenza dell’abuso d’ufficio con il principio di precisione ex art. 25, comma 2, Cost..

L’art. 25, 2° comma, Cost. fungerebbe, in tal senso, da “filtro”: le clausole generali, i principi generali e le norme ad ampio spettro che ben possono operare in altri ambiti ordinamentali (basti pensare all’art. 2043 c.c.), non possono essere utili per la criminalizzazione, in ragione del loro difetto di determinatezza[7].

Del resto, il rinvio ai principi generali appare, ex se, impraticabile poiché la peculiarità delle norme statuenti principi (e non già regole[8]) è quella di non delineare precisi comportamenti, ma meri criteri-guida, su cui poi devono essere costituite le vere e proprie regole di condotta. Di talché, la loro vaghezza farebbe dell’art. 323 c.p. una figura di reato in aperto contrasto con il principio di precisione dianzi detto.

 

Terzo fronte: nessun margine di discrezionalità

Rispetto al contenuto, si evidenzia la rilevanza delle sole le regole di condotta “dalle quali non residuino margini di discrezionalità”.

Sul punto, l’intervento riformatore si giustifica in ragione dell’esistenza di orientamenti giurisprudenziali, non andati esenti da critiche, che ritengono integrato l’abuso d’ufficio allorché un provvedimento, seppur non violativo di leggi o di regolamenti e non emesso in una situazione di conflitto d’interessi, risulti comunque viziato sotto il profilo dell’eccesso di potere (che ricorre quando nei provvedimenti discrezionali il potere viene esercitato per un fine differente da quello per cui è attribuito).

In tal senso, la Corte di Cassazione, sulla scorta della mirabile sentenza Tosches[9], configura l’eccesso di potere, “laddove vi sia stata oggettiva distorsione dell’atto dalla finalità tipica” (Cass. pen., sez. VI, 25 gennaio 2013, n. 20414). In altri termini, la locuzione “eccesso di potere” indica lo sviamento della funzione dal suo fine tipico.

Siffatta figura concettuale, quanto mai vaga e suscettibile, pertanto, di dar luogo a decisioni di difficile controllabilità razionale e, dunque, di prevedibilità, costituisce un rischioso strumento per sottoporre a sindacato giudiziale le scelte discrezionali della pubblica amministrazione[10].

Invero, la difficoltà, in molti casi, di individuare con nettezza l’interesse pubblico cui deve essere finalizzata l’azione amministrativa e l’insufficienza delle c.d. figure sintomatiche dell’eccesso di potere ad assumere rango di indizi di uno sviamento di potere, depongono per l’irrilevanza del predetto vizio ai sensi dell’art. 323 c.p..

Orbene, la riforma de qua si è posta nel solco tracciato dalle superiori considerazioni.

Segnatamente, eliminando dalla norma il riferimento ai margini di discrezionalità e, per l’effetto, privando di rilevanza la figura dell’eccesso di potere, il Decreto Semplificazioni appare, ancora una volta, ossequiente al principio di determinatezza della fattispecie incriminatrice e, al contempo, impedisce che il merito amministrativo sia soggetto al controllo di legalità penale[11].

Tuttavia, se è ragionevole garantire l’insindacabilità della discrezionalità amministrativa da parte dell’autorità giudiziaria, sotto il profilo specifico del merito (rectius: dell’opportunità), non si può certo negare che spesso le distorsioni della funzione pubblica si spiegano nella cornice della discrezionalità amministrativa, abbrivio, in tali occasioni, del perseguimento di meri interessi privatistici. Si rammenta: non è la violazione di legge a determinare l’abuso, ma è piuttosto la distorsione del potere, celata dietro una deliberata discrezionalità, dal suo scopo istituzionale.

Adunque, di fronte a tale quadro, erompe – ancora una volta – il quesito, nato post novella del 1997, se sia possibile fornire un’esegesi che, non rinunziando del tutto alla rilevanza ex art. 323 c.p. dell’eccesso di potere, dia una lettura della fattispecie compatibile col principio di precisione/tassatività, se del caso rilevando che alcune delle sottospecie riconducibili all’ampio spettro dell’eccesso di potere sono compatibili con l’art. 25 Cost., mentre altre non lo sono[12].

 

Profili di diritto intertemporale

Brevi riflessioni, infine, devono essere rassegnate in ordine ai problemi di diritto intertemporale che la riforma de qua pone.

La mancanza, allo stato, di una disciplina transitoria, comporta l’applicazione dei principi generali in

tema di successione di norme incriminatrici e non v’è dubbio che la norma preveda una incisiva selezione della condotta tipica, sicché, per effetto del favor rei, si applicherà retroattivamente.

Di conseguenza, se la nuova fattispecie incriminatrice venisse tradotta in norma di legge, la limitazione dell’area del penalmente rilevante condurrebbe, in relazione ai fatti commessi prima dell’entrata in vigore del d.l. n. 76/2020, ad una parziale abolitio criminis, limitatamente ai fatti di abuso d’ufficio commessi:

  1. in violazione di norme di regolamento;
  2. in violazione di norme di legge dalle quali non siano ricavabili regole di condotta specifiche ed espresse;
  3. in violazione di regole di condotta che lasciano residuare margini di discrezionalità.

E ciò con le immediate ricadute processuali: archiviazione dei processi in fase di indagine, proscioglimento per i processi ancora pendenti e, infine, revoca delle sentenze passate in giudicato.

 

Conclusioni

Conclusivamente, la riforma operata dal Decreto Semplificazioni al delitto dell’abuso di ufficio se, sotto il profilo del principio di cui all’art. 25, comma 2, Cost., è in parte da accogliere con favore, altrettanto non può dirsi in ordine al concreto rischio di una grave deresponsabilizzazione dei pubblici funzionari, di cui essa è gravida.

Invero, l’interpolazione operata dal d.l. 76/2020 con il deliberato intento di meglio definire il perimetro della fattispecie dell’abuso d’ufficio, finisce, inevitabilmente, collo snaturarla, rendendola un coacervo di contraddizioni che sfuggono ad un controllo razionale e, parimenti, rifuggono dall’agognata compatibilità col principio di precisione e di determinatezza ex art. 25 Cost..

Pertanto, si stima (ragionevolmente) un ulteriore approfondimento, in sede di conversione, della fattispecie incriminatrice di cui all’art. 323 c.p. e della sua formulazione normativa.

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Note

[1]BRICOLA, La riforma dei reati contro la pubblica amministrazione: cenni generali, in Reati contro la pubblica amministrazione, a cura di Coppi, Torino, 1993.

[2]MANNA, Abuso d’ufficio, in AA.VV., Trattato di diritto penale, Parte speciale II, diretto da Cadoppi, Canestrari, Manna e Papa, vol. II, UTET, 2010, p. 304.

[3]MASSI, Parametri formali e “violazione di legge” nell’abuso d’ufficio, in Arch. Pen., n. 1, 2019, p. 1 ss.

[4]Sull’integrazione tecnica del precetto penale da parte di fonti secondarie, v. INFANTE, Diritto penale del comportamento e disvelamento della necessaria “politicità” del giudizio degli esperti. Abbandono dell’integrazione del precetto penale ad opera delle fonti secondarie “tecniche”?, in Annuali della Facoltà di Giurisprudenza di Foggia, Milano, 2005, 1153 s.

[5]LICCI, Abuso d’ufficio. Analisi di un enunciato normativo, in AA.VV., Studi in onore di Marcello Gallo. Scritti degli allievi, Torino, 2004, p. 462; ID, DE FRANCESCO, La fattispecie di abuso d’ufficio: profili di ermeneutica e di politica criminale, in AA.VV., La riforma dell’abuso d’ufficio, Milano, 2000, p. 56 ss.; ID, SEGRETO, DE LUCA, Delitti dei pubblici ufficiali contro la pubblica amministrazione, Milano, 1999, p. 505: il principio di determinatezza è vulnerato dal rinvio generico alla vasta congerie delle fonti regolamentari.

[6]GATTA, Da ‘spazza-corrotti’ a ‘basta paura’: il decreto – semplificazioni e la riforma con parziale abolizione dell’abuso d’ufficio, approvata dal governo ‘salvo intese’ (e la riserva di legge?), in Sistema Penale, scheda 17 luglio 2020.

[7]BENUSSI, I delitti contro la Pubblica Amministrazione, Milano, 2002, p. 576; DI MARTINO, Abuso d’ufficio, in Reati contro la P.A., Bondi, Di Martino, Fornasari, Torino, 2008, p. 249.

[8]Sulla distinzione tra principi e regole, v. DWORKIN, I diritti presi sul serio, Bologna, 1982 (trad. it. dell’opera originale Taking Rights seriously, 1977).

[9]Cass. pen., sez. II, 4 novembre 1997, n. 877, Tosches.

[10]PAGLIARO, L’antico problema dei confini tra eccesso di potere ed abuso di ufficio, in Dir. pen. e processo, 1999, p. 106.

[11]Cfr., CARACCIOLI, Abuso d’ufficio e controllo del giudice penale sugli atti amministrativi, in NR, 1994, 2349, nt. 20; CIOFFI, in Eccesso di potere e violazione di legge nell’abuso di ufficio, Milano, 2001; CONTENTO, Giudice penale e P.A. dopo la riforma, in Scritti 1964-2000, Bari, 2002, p. 427; ID., La riforma dell’abuso di ufficio: violazione di legge ed eccesso di potere, in Scritti 1964-2000, Bari, 2002, p. 612.

[12]MANNA, Abuso, cit., p. 175: solo alcune delle sottoclassi che compongono la figura dell’eccesso di potere sono di rilievo per il penalista e, precisamente, quelle connotate da sviamento della funzione dal fine tipico. Il filo conduttore di tale opera è proprio nell’evidenziare i fraintendimenti e le confusioni concettuali che storicamente sono derivate dal sovrapporre gli strumenti penalistici sulle categorie elaborate dagli amministrativisti, ad altri fini concepite.

Rosaria Maria Cavallaro

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