Sulla oblazionabilità del reato di guida in stato di ebbrezza

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Si deve porre il problema dell’oblazionabilità di tutte le fattispecie di cui all’art. 186 CdS, ed in special modo delal fondatezza di un’istanza in favore di persona sottoposta ad indagine preliminare in relazione al reato di cui all’art. 186 co. 2° lett. b) o c) CdS.
All’apparenza tali contravvenzioni parrebbero escluse non solo dal campo di applicazione dell’art. 162 c.p., ma anche da quello di cui all’art. 162 bis c.p., posto che la sanzione prevista in tale contesto è cumulativamente e congiuntamente costituita da una pena detentiva e da una pena pecuniaria.
Il problema interpretativo, peraltro, appare meno superficiale e, certamente, più approfondito di quanto non sembri prima facie, posto che la presente istanza poggia su di un preciso convincimento giuridico di chi scrive, e cioè che il reato di cui all’art. 186 co. 2° CdS costituisca un unicum e che le singole fattispecie, tratteggiate alle lett. b) e c) costituiscano esclusivamente circostanze aggravatrici del reato base che va ravvisato nella disposizione della lett. a).
Va, infatti, rilevato che la norma in questione presenta un’articolazione meritevole di approfondimento.
Il primo comma dell’art. 186 CdS, infatti, sancisce il precetto “E’ vietato guidare in stato di ebbrezza in conseguenza dell’uso di bevande alcoliche”.
A tale precetto si correla la complessiva previsione sanzionatoria, la quale risulta – come detto – articolata in maniera specifica, ma che non perde mai il carattere di unitarietà della condotta che il legislatore ha individuato come illecita e cioè il porsi alla guida in stato di ebbrezza.
Il reato di cui all’art. 186 CdS appare, quindi, come espressione normativa base di un precetto generale, [portato dal ricordato co. 1 al quale si riallaccia il co. 2, il quale, introducendo le specifiche sanzioni recita “chiunque guida in stato di ebbrezza è punito..”].
Rispetto al menzionato precetto viene ad esistere, quindi, una graduazione progressiva inasprente il trattamento sanzionatorio, la quale appare ricollegata in maniera diretta con l’esito della verifica tecnica concernente il dato quantitativo dell’alcool assunto.
Attesa, dunque, l’individuazione di quello che costituirebbe il fondamento della norma incriminatrice, si ritiene che coerenza interpretativa permetta di concludere nel senso che, ogni differenziazione in pejus, in punto di pena, riguardo i singoli scaglioni indicati dalle lett. b) e c), verrebbe a costituire una singola ed autonoma circostanza aggravante.
L’adesione a questa impostazione provoca, pertanto, la conseguenza diretta che si estrinseca nella richiesta oblativa che si formula in questa sede.
Essa si appalesa e trova massima espressione, infatti, in ipotesi di riconoscimento di circostanze attenuanti (sia generiche, che di altra specie) e di giudizio di prevalenza od equivalenza, ai sensi dell’art. 69 c.p., delle stesse rispetto alle citate aggravanti, in favore dell’imputato.
Ove, quindi, intervenisse il citato bilanciamento tra opposte circostanze – sarebbe sufficiente il giudizio di equivalenza – deriverebbe che evidentemente la pena da applicare in concreto dovrebbe essere quella di cui alla lett. a).
In buona sostanza, a prescindere dal livello di intossicazione alcolica che il soggetto, sottoposto alla verifica strumentale etilometrica, possa presentare, si reputa che il fine primario che l’azione di controllo e verifica – che si ricollega al precetto tutelato e che viene posta in essere dalle forze dell’ordine – sia quello di accertare se sussista una condizione di ebbrezza a carico di chi fosse alla guida di un veicolo e, nel caso positivo, procedere all’applicazione della normativa vigente.
L’accertamento di tale stato personale può, infatti, comportare un dato generico – laddove i controllori non siano muniti di strumenti di rilevazione o la persona si rifiuti di sottoporsi al controllo (ma questa è ipotesi differente rispetto quella che ci occupa) – oppure un dato concreto dal punto di vista qualitativo-quantitativo, ove chi controlla sia munito di idonea strumentazione di rilevazione.
Il controllo in parola, quindi, non è esclusivamente riservato e delegato all’utilizzo di strumenti elettronici portatili, posto che il 3° comma dell’art. 186 CdS[1] prevede una facoltà, per gli organi di Polizia stradale, che consiste anche nella sottoposizione dei conducenti “ad accertamenti qualitativi non invasivi o a prove, anche attraverso apparecchi portatili”.
La dizione letterale, attraverso l’uso della congiunzione “anche”, permette, quindi, di sostenere fondatamente che l’uso degli apparecchi portatili, da parte delle forze dell’ordine, non è il solo mezzo di accertamento della effettiva condizione soggettiva del singolo, investigazione che può avere corso anche de visu.
A conferma di queste osservazioni va, inoltre, richiamata la circostanza che il co. 4° dell’art. 186 CdS[2] valorizza indubitabilmente la capacità percettiva sensoriale degli agenti, in forza dell’inciso “…quando si abbia altrimenti motivo di ritenere che il conducente del veicolo si trovi in stato di alterazione psico-fisica derivante dall’influenza dell’alcool…”.
Lo scrivente ritiene che la preferenza accordata alla tesi che si propugna possa derivare anche da altre considerazioni.
In primo luogo, l’eventuale accesso dell’imputato all’istituto dell’oblazione non costituirebbe, affatto, una forma di automatismo vincolante per il giudice.
Non si dimentichi, infatti, che il parametro contenuto nel comma 4 dell’art. 162 bis – riferito al possibile diniego da parte del giudice a seguito di valutazione della gravità del fatto –, senza che questo richiamo costituisca una indebita forma di analogia in malam partem (esclusa in diritto penale) può, comunque, essere, criterio ispiratorio implicito, posto che può essere opposto un chiaro rifiuto alla concessione delle attenuanti generiche.
Vale a dire che, certamente, permane intatto il potere discrezionale del giudice di verificare le condizioni soggettive ed i requisiti che possano legittimare l’accesso al beneficio.
L’esercizio di tale potere può concretarsi in una decisione di rigetto, laddove il giudicante non consideri possibile il riconoscimento delle circostanze attenuanti generiche, o, se concesse, non aderisca ad un giudizio quanto meno di equivalenza.
Va, infatti, affermato e sancito con assoluta chiarezza che tali circostanze, portate dall’art. 62 bis c.p., non costituiscono un diritto quaesito dell’imputato, ma sono (e devono essere) frutto della più volte ribadita valutazione discrezionale e tecnico del giudice, il quale è chiamato, in primo luogo a rifarsi alla linee guida stabilite dall’art. 133 c.p..
Tale ultima norma – come è noto e come è stato anticipato – presenta plurimi paradigmi valutativi a carattere soggettivo, che debbono aiutare il giudice nella sua valutazione globale in ordine alla capacità criminosa dell’imputato ed alla sua più globale personalità (quale ad esempio il tipo ed il livello di dolo ravvisato nella condotta oggetto di indagine).
La meritevolezza del temperamento sostanziale, che le circostanze in parola configurano, viene, altresì, corroborata da ulteriori considerazioni che devono, pertanto, involgere anche il comportamento processuale dell’inquisito.
Sicché, far credere che il riconoscimento delle attenuanti generiche (o di altre circostanze attentatrici la asperità della pena) sia esito di una non meglio identificata forma di automatismo giuridico è asserzione del tutto mistificatoria non solo sul piano della realtà legale, ma anche in relazione alla quotidiana esperienza forense.
Ergo, se il giudice perverrà al detto giudizio di bilanciamento, questo dovrà, quindi, formare oggetto di adeguata motivazione, così che non vi sarà timore di arbitri o di decisioni estemporanee ed infondate giuridicamente.
Soprattutto, se si perverrà alla conclusione sopra esposta, è indubbio, che a monte di tale decisione sarà rinvenibile un giudizio di meritevolezza ad personam, cioè non indiscriminato, bensì calibrato proprio sulla specificità dell’imputato.
I benefici, quoad poenam, potranno derivare al singolo inquisito, quale forma eccezionale, riconnessa – ad esempio – all’eventuale incensuratezza dell’imputato od ad altri profili comportamentali, ma è evidente che essi non necessariamente potranno venire riconosciuti in ipotesi di ricadute recidivanti.
In secondo luogo, l’adesione alla tesi opposta a quella che si sostiene e che, invece, considera l’accertamento del tasso alcolemico quale vero e proprio elemento costitutivo del reato, sicché la previsione normativa, attinente ad ogni singolo scaglione, integrerebbe una autonoma forma di reato, stravolgerebbe il dato testuale di cui la disposizione di legge si connota.
Il principale effetto diretto di questo indirizzo consistere nella circostanza che non sarebbe più possibile utilizzare, ai fini di dimostrare la sussistenza dello stato di ebbrezza, alcuni indici sintomatici soggettivi di carattere empirico, vanificando, così anche quelle verifiche prodomiche al controllo strumentale, citate al co. 4°.
Così opinando, dunque, la fattispecie criminosa della guida in stato di ebbrezza verrebbe integrata e provata, esclusivamente, solo nell’ipotesi in cui si addivenga all’accertamento di un tasso etilico, in capo al singolo soggetto, che appaia superiore alla soglia minima stabilita dalla legge.
Correlativamente, quindi, rimarrebbero esenti da responsabilità penale (e dalle corrispondenti sanzioni) tutti coloro che venissero trovati a guidare un veicolo in evidente stato di ubriachezza, ma nei confronti dei quali non fosse stato possibile pervenire alla definizione del tasso alcolemico.
Di ausilio può essere anche l’attività di esame di quello che può essere considerato il bene giuridico oggetto della tutela penale offerta dall’art. 186 CdS può essere individuato e che va identificato:
1. in via diretta, nella necessità di impedire che vengano alterate, sul piano soggettivo, le normali condizioni di circolazione;
2. in via mediata, nella necessità di prevenzione di incidenti stradali provocati dalla contingente inidoneità psico-fisica del singolo conducente, difendendo, così, appieno una legittima aspettativa del cittadino.
Come esposto in precedenza, la dizione e la fusione della previsione contenuta nei co. 1 e 2 dell’art. 186 CdS, laddove essi recitano testualmente “è vietato guidare in stato di ebbrezza in conseguenza dell’uso di bevande alcoliche” e “chiunque guida in stato di ebbrezza è punito..”, fa sì di potere ragionevolmente ritenere che lo scopo precipuo della norma in parola possa concretarsi, dunque, in ultima analisi, nell’impedire che si concretizzi una situazione comportamentale di destabilizzazione delle condizioni di guida stabilite ex lege e, come tale, illecita, siccome in grado di creare una situazione di pericolo e di allarme sociale.
Siamo, dunque, in presenza di un reato di pura condotta, la cui fattispecie base, in sé già del tutto perfetta e delineata nei suoi tratti costitutivi ed essenziali, viene, dunque, arricchita da ulteriori elementi circostanziali di aggravamento.
Questi ultimi consistono, infatti, nei singoli scaglioni di intossicazione alcolica.
Va, infatti, notato (e ciò può avvenire agevolmente) che l’identificazione, all’interno di una singola disposizione di legge, di specifici tetti quantitativi – come nel caso di specie – oltre i quali scattano aumenti di pena, configura una previsione accessoria, ininfluente sulla struttura del reato ed estranea ad essa, perché non la sostituisce, ma la specifica.
La fattispecie incriminatrice, nel caso che ci occupa, infatti, preesiste e non soffre alcuna modificazione della propria struttura, posto che il descritto elemento circostanziale dispiega efficacia solamente in relazione al giudizio di gravità del reato e correlativamente al quantum di pena da infliggere.
Reputo, poi, che – in sede di applicazione – si debba conferire alla norma, intesa in senso generale, la possibilità di dispiegare il massimo effetto possibile sia sul piano strettamente precettivo, che sul correlativo profilo sanzionatorio.
In quest’ottica, quindi, decidere di interpretare i singoli scaglioni come reati tra loro autonomi, comporterebbe – come più volte osservato – la esclusione, a priori, dal novero della doverosa valutazione penale di situazioni di palese ed evidente sussistenza delle condizioni obbiettive di punibilità del reato in questione, peraltro percepite dalle forze dell’ordine in maniera empirica e con valutazioni soggettive, (ergo de visu), cioè al di fuori dell’uso degli strumenti tecnici, quale è – ad esempio – l’etilometro.
Non è, infatti, francamente, accettabile che l’attività di accertamento di un reato debba essere condizionata e circoscritta all’uso di dispositivi specialistici, mortificando la capacità personale del singolo agente e, giungendo, così, al paradosso di negare, sul piano naturalistico, l’evidenza di fatti conclamati, ed impedire, quindi, ulteriori controlli o verifiche.
Se questa, quindi, fosse – deprecabilmente – la regola base di giudizio cui il giudicante dovesse ispirarsi, si dovrebbe concludere, ad esempio, che le riprese delle telecamere di una banca possano risultare uniche concrete fonti di prova per attestare o smentire la colpevolezza di un indagato di rapina, mentre è comune esperienza forense che la gamma degli elementi di prova (a carico e discarico) non può venire delimitata a solo a profili tecnologici, i quali non sono esenti dal carattere della fallibilità.
Un ulteriore elemento che, sul piano endoprocessuale, può risultare convincente e decisivo va rinvenuto nella effettiva possibilità che l’accertamento soggettivo e diretto degli agenti ben potrebbe fungere da attività idonea a sopperire al rifiuto del singolo.
In buona sostanza, in presenza del mancato consenso dell’interessato a rendere l’esame alcoolmetrico, a mezzo dell’etilometro, ritengo che, in presenza di seri ed inequivoci indici e di precisi e dettagliati elementi di percezione di uno stato di intossicazione alcolica in carico al conducente del veicolo, si possa dare inizio alla fase procedimentale dell’indagine preliminare, evitando sia teoriche situazioni di ingiustizia sostanziale, sia di vulnerare il diritto alla difesa del cittadino, che ben potrà e dovrà difendersi dalla contestazione mossagli.
Rimini, lì 29 Aprile 2008
 Carlo Alberto Zaina
 
 
 
  


[1]        3° co. “Al fine di acquisire elementi utili per motivare l’obbligo di sottoposizione agli accertamenti di cui al comma 4, gli organi di Polizia stradale di cui all’art. 12, commi 1 e 2, secondo le direttive fornite dal Ministero dell’interno, nel rispetto della riservatezza personale e senza pregiudizio per l’integrita’ fisica, possono sottoporre i conducenti ad accertamenti qualitativi non invasivi o a prove, anche attraverso apparecchi portatili”.
[2]       4° co. “Quando gli accertamenti qualitativi di cui al comma 3 hanno dato esito positivo, in ogni caso d’incidente ovvero quando si abbia altrimenti motivo di ritenere che il conducente del veicolo si trovi in stato di alterazione psico-fisica derivante dall’influenza dell’alcool, gli organi di Polizia stradale di cui all’art. 12, commi 1 e 2, anche accompagnandolo presso il piu’ vicino ufficio o comando, hanno la facolta’ di effettuare l’accertamento con strumenti e procedure determinati dal regolamento”.

Zaina Carlo Alberto

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