Stupefacenti e qualificazione giuridica del fatto

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Il principio enucleato dalla sentenza in commento, e cioè che ai fini della corretta qualificazione giuridica di un fatto come aggravato ai sensi dell’art. 80 comma 2° dpr 309/90 possa apparire determinante il solo quantitativo di sostanza effettivamente drogante (il cd. principio attivo), pur nella sua importanza e condivisibilità, non appare affatto un ius novorum, perché, in realtà si riallaccia ad un approdo giurisprudenziale che si è andato, via via, consolidando nel tempo.
Va detto, comunque, che la presa di posizione del Supremo Collegio appare assolutamente immune da critiche di ordine logico ed ermeneutico, posto che essa privilegia la intrinseca capacità drogante dello specifico compendio, serbando, così, fedeltà allo spirito che anima la norma sugli stupefacenti, che è quello di contrastare duramente l’attentato alla salute dei potenziali assuntori.
E’, dunque, evidente che in un’ottica legislativa dall’indubbio doppio carattere (sia preventivo, che repressivo) non possa apparire sufficiente una generica valutazione dell’aspetto ponderale dello stupefacente, inteso in senso globale, senza, quindi, porre in particolare luce la purezza del medesimo.
Il fenomeno degli stupefacenti presenta una caratteristica di naturale diffusione e circolazione, che si manifesta attraverso plurimi passaggi, prima di pervenire al diretto assuntore.
Come nel commercio legale i vari passaggi provocano un ricarico del prezzo del bene, poi venduto al dettaglio, nell’ambito della circolazione dello stupefacente, la successive cessioni, determinano una progressiva contaminazione dell’originario compendio con sostanze di taglio, sino a ridurre considerevolmente il principio attivo di cui è caratterizzata la droga in partenza.
Ciò avviene maggiormente per l’eroina, ma si tratta di un fenomeno rilevabile anche in relazione alla cocaina.
Ciò posto è evidente che in presenza di quantitativi di droga che eccedano –ictu couli – quei volumi destinati alla cessione finale, sia – come dianzi detto – obbligatorio non solo soffermarsi sull’intero, ma anche e, forse, soprattutto su quella parte dell’intero idoneo a provocare l’effetto drogante ed a determinare – in relazione ai parametri vigenti – il numero di dosi commerciali ricavabili.
In questo senso, antecedente logico-giuridico (in linea con la premessa svolta, con la quale sostenevo come la pronunzia, pur se apprezzabile, non costituisse una novità assoluta) si pone considerare l’intervento della Corte di Appello di Milano Sez. II, 13 luglio 2006, O.A. che ha affermato che “In tema di detenzione di sostanze stupefacenti, la circostanza aggravante speciale di cui all’art. 80, comma 2, del D.P.R. n. 309/1990 ricorre ogni qualvolta il quantitativo della sostanza oggetto di imputazione, pur non raggiungendo i valori massimi, sia tale da creare condizioni di agevolazione del consumo nei riguardi di un rilevante numero di tossicodipendenti. Un’ingente quantità è senza dubbio il quantitativo sequestrato nel caso in esame, in cui il principio attivo è risultato pari a grammi 579 di THC, corrispondenti a ben 11.543 dosi droganti”.
E’ particolarmente importante notare come il parametro del principio attivo assuma un valore paradigmatico di elevata attendibilità, soprattutto, quale presupposto logico-interpretativo al necessario fine di considerare la sussistenza dell’ulteriore fondamentale criterio della saturazione del mercato o del rilevante numero dei tossicodipendenti soddisfabili.
Già in un passato non proprio recente la Suprema Corte con la pronunzia della Sez. IV, 30 Giugno 1998, n. 2168, Ceka, Cass. Pen., 1999, 2370, aveva posto l’inammissibilità di una valutazione che apparisse svincolata dal “riferimento al contenuto di sostanza pura”.
Un simile atteggiamento interpretativo, infatti, si sarebbe dimostrato del tutto incompleto, perché non avrebbe tenuto nel debito conto la reale situazione di mercato e avrebbe finito per concretare solamente una “prospettiva meramente nominalistica”, cioè connotata da profili di rilevante astrattezza e teoricità[1].
Tale approdo giurisprudenziale dimostrava la propria intrinseca fondatezza, posto che ponendosi sul di un solco gnoseologico – come più volte detto – già aperto anche in passato, aveva evidenziato la necessità che la valutazione del profilo ponderale dello stupefacente, operata al fine di procedere o meno alla contestazione dell’aggravante dell’ingente quantità oggetto del nostro esame, avvenisse in forza del coniugio fra tre fattori tra loro apparentemente autonomi:
1.       il peso globale dello stupefacente;
2.     il peso della sostanza pura
3.     il giudizio di idoneità riguardante, nel caso specifico, l’attitudine della droga a soddisfare il consumo di un numero molto elevato di tossicodipendenti e a saturare un’apprezzabile area di spaccio.[2]
La Corte di legittimità, Sez. IV, 22-05-1997, n. 7204, ********, Cass. Pen., 1998, 2490, su tale abbrivio logico pervenne a sostenere, dunque, che doveva ritenersi corretta l’applicazione dell’aggravante ad una quantità di dieci chili abbondanti di cocaina, con principio attivo di circa sette chili e mezzo, del valore di mercato di oltre un miliardo di lire.
In precedenza la stessa Sez. IV, con la pronunzia del 2 Ottobre 1996, n. 9182, ******, Cass. Pen., 1997, 2871 aveva già enucleato il principio per il quale “L’accertamento dell’ingente quantità, inoltre, va compiuto con riferimento al singolo episodio isolatamente considerato (non già rapportandolo ai quantitativi sequestrati nel periodo in cui questo si è verificato), ed avuto riguardo al principio attivo contenuto nella sostanza, alla qualità della stessa e agli effetti negativi, diversi secondo i tipi di droga, causati dalla sua assunzione all’integrità dei potenziali consumatori”, definendo la nozione portata dall’aggravante come perfetta in presenza di quantitativi che determinino effetti nel più limitato ambito di aree regionali o metropolitane.
I giudici di rito, nell’occasione, esclusero recisamente e definitivamente, nella fattispecie, che si potesse configurare l’aggravante in parola solo laddove – in relazione alla quantità della droga – fosse stato influenzato il mercato nazionale, aderendo alla corrente di pensiero che ancora il concetto di ingenza con la dimostrazione della soddisfazione delle esigenze di un numero assai elevato di tossicodipendenti per un congruo periodo di tempo e in un’apprezzabile area di spaccio.
Sempre percorrendo a ritroso il cammino dell’orientamento che si va esaminando, importante punto di approdo si rileva nella sentenza della Sez. VI, resa all’udienza del 3 Novembre 1994, *********, *******, 1996, 362.
Questo provvedimento che potrebbe – non a torto – considerarsi come uno dei capostipiti della indirizzo giurisprudenziale cui la sentenza in commento si ispira, ebbe il merito di focalizzare esplicitamente e senza oscurità o bizantinismi il rapporto eziologico fra ratio della circostanza aggravante che i giudici di legittimità affermarono consistere “nell’esigenza di predisporre un’energica tutela della salute pubblica contro i pericoli derivanti dall’invadenza della droga” e la necessità che ai fini di una valutazione assolutamente ponderata del quantitativo della sostanza, venga assunto a parametro precipuo il principio attivo contenuto nella sostanza.
 Di rincalzo a tali criteri, la Corte sostenne che non si doveva affatto trascurare il fattore qualità, con riguardo agli effetti negativi, diversi secondo i tipi di droga, causati dall’assunzione, all’integrità dei potenziali consumatori e che l’insieme dei parametri utilizzati doveva rientrare in un ambito di relativismo.
In concreto, ad opinione dei giudici della Suprema Corte si richiedeva – come tuttora si richiede – che l’accertamento della "ingente" quantità sia compiuto non già con riferimento al singolo episodio isolatamente considerato, ma rapportandolo anche ai quantitativi sequestrati nel periodo in cui esso si è verificato.
 
 
Rimini, lì 24.12.2007
 
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SUPREMA CORTE DI CASSAZIONE
SEZIONE VI PENALE
Sentenza 26 luglio 2007, n. 30534
(Presidente ***** – Relatore Agrò)
Ritenuto in fatto
1. Con la sentenza indicata in epigrafe la Corte d’Appello di Napoli confermava la sentenza del Tribunale nella parte in cui aveva ritenuto F. L. responsabile di trasporto e detenzione di ingente quantità di cocaina. Escluse le aggavanti del numero delle persone e di esserne stato organizzatore, confermava, in relazione ad A. G., la medesima sentenza quanto alla partecipazione ad un’associazione diretta allo spaccio di stupefacenti e quanto agli episodi di trasporto e detenzione di cocaina, esclusa, per questi, l’aggravante dell’ingente quantità.
2. Contro tale decisione ricorre F. L. il quale, in primo luogo, deduce il vizio di motivazione relativamente alla sua identificazione nel soggetto che ebbe ad incontrare i corrieri della droga.
In ubordine lamenta il riconoscimento della sussistenza dell’aggravante dell’ingente quantità, riconoscimento fondato sul principio attivo della droga, elemento che non trova riferimenti normativi. D’altronde la stessa aggravante per la stessa partita di droga sarebbe stata esclusa dal Gip nei confronti di ******************, nella sentenza pronunziata il 25 novembre 2002.
3. Ricorre A. G. che lamenta in primo luogo che la pronunzia abbia respinto la
sua eccezione di improcedibilità dell’azione penale (eccezione avanzata ai sensi dell’art. 405 comma 1 bis c.p.p.) rifacendosi ad argomenti riguardanti la posizione di ************** e altre posizioni e non valutando che, per quanto riguarda il ricorrente, esisteva una sentenza della Cassazione che affermava l’insussistenza degli indizi per il reato associativo.
Con un secondo motivo si duole del vizio di motivazione circa la ritenuta sussistenza di un’associazione per delinquere finalizzata al commercio della
droga e circa la partecipazione del ricorrente a tale associazione. La sentenza, nonostante i motivi d’appello relativi al punto, non spiegherebbe perché sia proprio A. G. (e non un suo fratello) l’interlocutore del padre P. e quali criteri siano stati adottati per sovvertire il giudizio di mancanza di elementi già espresso dalla Cassazione.
Con un terzo motivo rileva che la pronunzia avrebbe affermato l’esistenza di un’associazione in assenza degli elementi costitutivi del delitto e in particolare quello del numero dei sodali.
Si duole infine della determinazione della pena e del diniego delle attenuanti
generiche.
4. In prossimità dell’udienza il G. ha presentato motivi ad integrazione del
ricorso.
In primo luogo ha ribadito con ulteriori argomenti l’applicabilità alla specie del comma 1 bis dell’art. 405 c.p.p., per come introdotto dall’art. 3 della legge n. 46 del 2006.
Ha quindi sostenuto l’inutilizzabilità degli atti di indagine anteriori al compimento della maggior età dell’imputato, inutilizzabilità non superata dal
fatto che il reato permanente si è perfezionato dopo la maggiore età, in quanto la notitia criminis era stata appresa quando l’imputato era ancora minorenne e in quanto tra Tribunale dei minorenni e Tribunale ordinario vi sarebbe una ripartizione di giurisdizione e non di competenza ai sensi dell’art. 26 comma 1 c.p.p..
Ribadisce nel merito il vizio di motivazione relativo all’identificazione dell’autore del reato e sottolinea come non sia stato nemmeno identificato quale ruolo avrebbe avuto il ricorrente nell’associazione per delinquere, ruolo che, con disparità di trattamento rispetto ai coimputati, sembra essere stato surrogato dal rapporto di parentela col presunto capo. Ripropone poi il problema del numero dei partecipanti all’associazione, con particolare riguardo alla posizione di tal "penna bianca", la cui qualità di sodale non sarebbe stata dimostrata. Si duole infine del diniego delle attenuanti generiche che sarebbe stato motivato per relationem nonostante che in sede di appello la responsabilità del ricorrente fosse stata ridimensionata.
Considerato in diritto
1. Il ricorso del L. è privo di fondamento.
Va infatti rilevato che, stando alla decisione del Tribunale, l’identificazione nel ricorrente del soggetto interlocutore nelle conversazioni intercettate e del soggetto che intervenne nella sosta dei corrieri presso il ristorante X. di Pompei appare dovuta alla diretta conoscenza del timbro di voce e delle fattezze del L. da parte della polizia. In appello, la difesa del ricorrente, sembrando far acquiescenza alle risultanze così accertate, ha allora sostenuto la tesi, confutata nella sentenza impugnata e oggi abbandonata, che il giungere del L. presso il ristorante, certo nella sua storicità, non era però dovuto a ragioni di droga.
Sulla questione che per la prima volta oggi viene avanzata (che cioè gli agenti operanti nel ristorante X. non conoscevano il sembiante fisico del L.) la decisione impugnata non aveva dunque ragione per pronunziarsi. La questione peraltro non è proponibile in questa Sede in quanto da un lato tipica quaestio facti e dall’altro non dedotta nelle fasi di merito.
2. Quanto poi all’aggravante dell’art. 80 l.s., la sentenza impugnata si allinea
al condivisibile orientamento per cui la legge ha in primo luogo riguardo alla quantità della droga trattata, intesa in termini assoluti. E in questa prospettiva, per serbarsi fedeli agli interessi che si sono intesi tutelare, sembra addirittura evidente che il riferimento al principio attivo dello stupefacente, o in altri termine alla sua capacità di moltiplicarsi in dosi destinate al consumo, sebbene non esplicitamente richiamato dal legislatore, connoti di significatività negativa il dato ponderale della sostanza sequestrata. Con la conclusione che è proprio la quantità di principio attivo o la purezza del narcotico l’elemento determinate per accertare, a parità di peso del compendio, la sussistenza della circostanza dell’ingente quantità.
La quale nella specie è stata ragionevolmente ritenuta per un sequestro di kg. 1,953 di cocaina con principio attivo pari al 66%.
Né può dedursi una sorta di disparità di trattamento con riguardo a concorrenti nel reato giudicati in separato processo, dato che preliminarmente si sarebbe dovuto dimostrare che sia corretta la soluzione raggiunta per costoro ed erronea quella adottata per il ricorrente, dimostrazione che invece non è stata nemmeno tentata.
3. Alla reiezione del ricorso segue la condanna del ricorrente al pagamento
delle spese processuali.
4. Venendo così al ricorso del G., senza addentrarsi in questioni di diritto intertemporale, va subito respinta la censura di violazione dell’art. 405 1 bis
c.p.p., per la ragione risolutiva che nella specie la Cassazione, con la sentenza invocata del 17 giugno del 2005, non si è pronunziata "in ordine alla
sussistenza dei gravi indizi di colpevolezza" di partecipazione ad associazione per delinquere, ma soltanto sulla motivazione addotta al riguardo dal Tribunale del riesame.
La norma invocata intende creare un raccordo tra la fase cautelare e quella di merito, onde evitare contraddizioni di dicta in ordine alla sussistenza e alla rilevanza degli stessi elementi probatori. Essa perciò, giusta del resto la sua dizione letterale, è applicabile quando la Cassazione conosca direttamente dell’indizio (ad esempio sotto il profilo dell’utilizzabilità) e pervenga, per l’assenza o l’inidoneità degli elementi probatori raccolti, ad un annullamento senza rinvio del provvedimento oggetto di controllo. Annullamento destinato a far stato anche nell’esercizio dell’azione penale.
La stessa norma invece non riguarda l’esame della Cassazione sulla sufficienza o sulla tenuta logica dell’argomentazione in materia di indizi, anche se, come nella specie, si sia profilata la necessità di una nuova deliberazione da parte del giudice di merito.
5. Ancora da respingersi è la questione dell’utilizzabilità degli indizi raccolti durante la minore età del ricorrente, dato che, anche a voler condividere le premesse della deduzione (ma nulla impone al p.m., nell’uso discrezionale dei suoi poteri di indagine, di frazionare il reato non figurandoselo come permanente), il rapporto tra giudice dei minori e tribunale ordinario è di separazione funzionale di competenza, nell’ambito del principio di unità della giurisdizione penale, con applicabilità pertanto dell’art. 26 comma 1 c.p.p..
6. Non v’è poi difetto di motivazione in ordine all’identificazione nel ricorrente, dato che il tenore delle conversazioni (dà del papà al padre) ha confermato la sua qualità di interlocutore, ricavata in primo luogo (e a preferenza di fratelli) dal riconoscimento del timbro di voce di A. G. da parte degli operanti.
7. Fondata (e assorbente gli ulteriori motivi) è per contro la censura di violazione di legge circa la ritenuta sussistenza di un’associazione per delinquere finalizzata al traffico di stupefacenti, di cui il ricorrente avrebbe fatto parte.
Va rilevato che nella sentenza di primo grado non si poneva questione sulla pluralità soggettiva dell’associazione ipotizzata, essendosi identificati, oltre a P. G. capo del sodalizio, quali componenti dello stesso F. L., S. C. e il
ricorrente.
Con la sentenza in esame sia il L. che il C. sono stati assolti dal reato associativo per non aver commesso il fatto, e, onde assicurare l’elemento soggettivo del sodalizio, si è ritenuto farne parte anche un non meglio identificato “penna bianca” o “testa bianca” o “testa calda”, soggetto che appare quale interlocutore in alcune conversazioni intercettate, con il ruolo di fornitore della droga.
La pronunzia in esame, per sostenere la partecipazione di questo individuo
all’associazione di P. G. si vale del costante insegnamento di questa Corte
secondo cui l’associazione può costituirsi anche tra fornitore abituale e
acquirente. Tuttavia, pur nella correttezza dell’impostazione, la medesima
decisione assume a torto che tale soggetto fosse un "abituale" fornitore,
mostrando invece come costui risultasse coinvolto soltanto in due episodi di
spaccio, ravvicinati nel tempo. Insomma dallo stesso testo del provvedimento in esame si ricava che nella specie manca quello stabile raccordo di interessi che, anche e proprio nel citato insegnamento giurisprudenziale, è costitutivo dell’affectio societatis.
In tal modo la figura di “penna bianca”, occasionalmente coinvolta in specifici, singoli affari, non si identifica in un componente del sodalizio. E questo, a sua volta, non raggiunge la consistenza soggettiva richiesta dalla legge per integrare la figura criminosa.
Ne derivano le conseguenze espresse nel dispositivo.
P.Q.M.
La Corte di Cassazione annulla la sentenza impugnata nei confronti di G. A.
limitatamente al capo a) perché il fatto non sussiste. Rigetta nel resto il
ricorso e rinvia per la rideterminazione della pena in ordine al reato residuo
ad altra sezione della Corte d’Appello di Napoli.
Rigetta il ricorso di L. F. che condanna al pagamento delle spese processuali.
 
 


[1] Recita testualmente la massima: In tema di spaccio di stupefacenti l’aggravante della quantità ingente va applicata in rapporto alla capacità di saturazione del mercato, la quale non può essere ritenuta in ragione solo delle dosi ricavabili, senza riferimento al contenuto di sostanza pura – e quindi in una prospettiva meramente nominalistica e non attenta alla concreta situazione del mercato – e alla qualità dello stupefacente con riguardo ai suoi effetti negativi, diversi secondo i tipi di droga ("leggera" o "pesante"), sull’integrità della salute dei potenziali consumatori. (Fattispecie di kg. 30 di marijuana e hashish, ritenuta dalla decisione annullata ingente per il numero di dosi giornaliere (circa 10.000) ricavabili da detta quantità lorda, senza riferimento al contenuto di principio attivo).
 
[2]In materia di reati concernenti gli stupefacenti la circostanza aggravante della quantità ingente, di cui all’art. 80 d.P.R. 9 ottobre 1990 n. 309, deve essere interpretata non solo alla stregua del dato quantitativo, ma anche in relazione alla sua idoneità a soddisfare il consumo di un numero molto elevato di tossicodipendenti e a saturare un’apprezzabile area di spaccio. Tale rapporto è affidato al prudente apprezzamento del giudice, che ben può fare riferimento a criteri di raffronto non strettamente aritmetici, ma anche di comune esperienza, quando si tratti di grandezze di palese – quasi scolastica – evidenza.

Zaina Carlo Alberto

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