Strategia europea per la plastica e riflessi nell’ordinamento italiano

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Diversi sono stati gli interventi della Comunità, oggi Unione, grazie alla consapevolezza della necessità di armonizzare le norme nazionali in materia, al fine di consentire il perseguimento di obiettivi di sostenibilità ambientale di ampio raggio. I più rilevanti si individuano nelle Dir. 94/62/CE, 2000/59/CE 2008/98/CE, U.E. 2015/720 e la Dir. UE 2019/904.

Indice

  1. Strategia europea per la plastica e riciclaggio
  2. UE e norme
  3. Principio europeo “chi inquina paga”
  4. Legge di stabilità 2014 e introduzione green taxes
  5. Tributi ambientali nell’ordinamento tributario italiano

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1. Strategia europea per la plastica e riciclaggio

“La strategia è intesa a proteggere l’ambiente dall’inquinamento da plastica e a promuovere al contempo la crescita e l’innovazione, trasformando così una sfida in un programma positivo per il futuro dell’Europa”.

Quest’affermazione, tratta dal comunicato stampa diffuso dalla Commissione europea contestualmente con l’approvazione della “Comunicazione COM (2018) 28 final”, propone un buon punto di partenza per illustrare questo nuovo “step” del percorso avviato verso una più accentuata circolarità del sistema economico, che senza dubbio ha colto efficacemente le criticità che possono rilevarsi sul problema “plastica” al giorno d’oggi. È un dato di fatto che dagli anni ’60 la produzione di plastica sia aumentata di venti volte, fino a 322 milioni di tonnellate nel 2015, e che ci si aspetti un raddoppio nei prossimi due decenni, secondo la linea tendenziale di crescita marcatamente non lineare: a livello mondiale, un giro d’affari dell’ordine di 340 miliardi di euro, che interessa principalmente i settori dell’imballaggio (che assorbe il 39,9% della plastica prodotta), dell’edilizia (19,5 % della produzione), e poi, a seguire, il settore automobilistico e quello dell’elettronica, che impiegano rispettivamente l’8,9% e il 5,8% della produzione di materie plastiche[1].

Questo scenario, solo per quanto riguarda l’Europa, determina ogni anno la formazione di circa 25,8 milioni di tonnellate di rifiuti di plastica, che solo per meno del 30% sono raccolti per essere avviati al riciclaggio, (dato, se si vuole, positivo rispetto al resto del mondo, ma in senso assoluto, passibile di ulteriore e sostanziale miglioramento), mentre le percentuali di smaltimento in discarica e tramite incenerimento restano comunque molto elevate in termini assoluti, (rispettivamente il 31% e il 39% del totale), tanto da postulare un cambiamento sostanziale di questa rotta, in primo luogo per rispettare la c.d. “gerarchia dei rifiuti”, e per riorientare il sistema (dalla produzione delle materie plastiche a quella dei beni in plastica, e dal consumo al post-consumo di questi ultimi), secondo i principi dell’economia circolare, in un quadro di sempre maggiore sostenibilità[2].

Dando per ovvio il nodo delle emissioni di CO2 connesse alla produzione delle materie plastiche e all’incenerimento dei rifiuti di plastica[3], è senza dubbio allarmante l’impatto derivante dallo scarico a mare di un quantitativo di rifiuti di plastica stimato tra le 150.000 e le 500.000 tonnellate[4], largamente costituito da prodotti monouso leggeri, mentre è ancora non ben conosciuto l’impatto a lungo termine della “microplastica”, (cioè i minuscoli frammenti inferiori ai 5 mm), che dispersa a mare, rientra nella catena alimentare degli animali marini, e – in via mediata – anche di quella umana[5].

Gli obiettivi “lanciati” dalla “strategia”, possono essere così riassunti:

  • rendere il riciclaggioredditizio per le imprese, in quanto, saranno sviluppate nuove norme sugli imballaggi al fine di migliorare la riciclabilità delle materie plasticheutilizzate sul mercato e accrescere la domanda di contenuto di plastica riciclata. Con l’aumento della plastica raccolta, si renderebbe necessaria la creazione di impianti di riciclaggio a tecnologia avanzata e con una aumentata capacità produttiva, oltre a un sistema per la raccolta differenziata e lo smistamento dei rifiuti con standard omogenei in tutta l’UE;
  • ridurre i rifiuti di plasticae il loro abbandono nell’ambiente; a tal riguardo, la normativa europeaha già determinato una significativa riduzione dell’uso di sacchetti di plastica in diversi Stati membri. I nuovi piani si concentreranno ora su altri prodotti di plastica monouso e attrezzi da pesca, sostenendo campagne di sensibilizzazione nazionali e determinando l’ambito di applicazione delle nuove norme che sono state proposte a livello di UE nel 2018 sulla base di una consultazione delle parti interessate e di studi scientifici. La Commissione adotterà inoltre nuove misure per limitare l’uso delle microplastiche nei prodotti e stabilire l’etichettatura delle plastiche biodegradabili e compostabili;
  • fermare la dispersione di rifiuti in mare; tali nuove disposizioni relative agli impianti portuali di raccolta si concentreranno sui rifiuti marini nelle acque prevedendo misure intese a garantire che i rifiuti generati a bordo di imbarcazioni o raccolti in mare non siano abbandonati, ma riportati a terra, e lì, adeguatamente gestiti. Sono inoltre comprese misure volte a ridurre l’onere amministrativo che grava sui porti, le navi e le autorità competenti;
  • orientare gli investimenti e l’innovazione, dal momento chela Commissione fornirà orientamenti alle autorità nazionali e alle imprese europeesu come ridurre al minimo i rifiuti di plastica alla fonte. Il sostegno all’innovazione sarà aumentato, senza trascurare la creazione di un plafond dedicato al finanziamento della ricerca finalizzata alla produzione di materiali plastici più “intelligenti” e meglio riciclabili, e alla realizzazione di processi di riciclaggio più efficienti, nonché al tracciamento e alla rimozione di sostanze pericolose e contaminanti dalle materie plastiche riciclate.

Il “documento base” della Comunicazione relativa alla strategia sulla plastica è integrato da alcuni “Annessi”, tra i quali:

– una Comunicazione sull’interazione tra la normativa in materia di sostanze chimiche, prodotti e rifiuti, che affronta gli aspetti riguardanti l’accessibilità alle informazioni sulle sostanze pericolose contenute nei rifiuti di plastica, da parte degli operatori operanti nei campi del riciclaggio e della preparazione per il riutilizzo dei rifiuti di plastica;

– una Comunicazione sul quadro del “monitoraggio per l’economia circolare”, da attuare nel corso del ciclo di vita del prodotto, nelle fasi diacroniche della produzione, del consumo, e del post-consumo, quando cioè il prodotto diviene rifiuto da gestire, contemplando anche gli aspetti delle materie prime secondarie, dell’innovazione che ne ha determinato l’identificazione come tali, e della competitività che ne è derivata;

– una Proposta di direttiva sugli impianti portuali per il conferimento e la raccolta (IPR) dei rifiuti delle navi, con l’intento di aggiornare l’ormai datata direttiva 2000/59/Ce sullo stesso tema;

– una Relazione “sulle materie prime critiche e per l’economia circolare”, in attuazione della direttrice dalla Comunicazione COM (2015) 217 final, della quale anche sopra s’è già fatto cenno;

– una Relazione sull’impatto dell’uso della plastica oxodegradabile sull’ambiente, con particolare riferimento alle borse in plastica oxodegradabile[6], prodotte attraverso un innovazione tecnologica inizialmente accolta con favore, ma poi in certo qual modo, “messa in stato d’accusa”, quando si è preso atto dei possibili effetti di tale “decomposizione accelerata”, in condizioni incontrollate, o particolari, cioè all’aria aperta, nelle discariche di rifiuti, negli impianti di compostaggio, o in mare[7].

Parlando per metafora, deve darsi atto che ci si trova di fronte ad un affresco suggestivo, ma appena abbozzato, che presenta inoltre qualche “errore di prospettiva”: come quando si afferma, senza riserve, e senza alcun dubbio in merito, che “In Europa, i cittadini, le Amministrazioni pubbliche e l’industria sono a favore di modelli di consumo e di produzione della plastica più sostenibili e sicuri”, tale condivisione costituendo “terreno fertile per l’innovazione sociale e l’imprenditorialità”[8].

La Commissione europea non sembra dunque capace di distinguere le adesioni “a parole” da quelle “nei fatti”, e negli “atti”, nel duplice significato – per quest’ultimo termine – di “comportamento/azione” o, nel caso della Pubblica Amministrazione, di “provvedimento”.

Per quanto riguarda la collettività civile, basta darsi la pena di aprire qualche cassonetto per la raccolta differenziata della plastica, e verificare cosa ci è finito dentro: ci si trova, troppo spesso “di tutto e di più”, e non solo imballaggi di plastica mista, scaricando gli effetti della insufficiente coscienza ambientale dei singoli, (non solo per cattiva volontà, ma spesso per disinformazione), sulla “resa” della raccolta differenziata, e sulla “qualità” dei processi di riciclaggio. E anche la reazione duramente polemica dei consumatori alla recentissima entrata in vigore della norma sull’acquisto “coatto” degli shoppers leggeri,[9] ha dimostrato che l’adesione ai principi dell’economia circolare resiste presso il comune cittadino, solo finché non viene leso nel proprio “particulare”.

Per quanto riguarda le Istituzioni, la misura della sensibilità al decollo dell’economia circolare del nostro Legislatore nazionale ci viene data dal tenore dell’art. 46 della Legge n. 221/2015 “Green Economy[10], che ha seccamente abrogato il divieto di smaltire in discarica rifiuti dotati di p.c.i. > 13000 KJ/kg[11]: un divieto, comunque a suo tempo introdotto nell’Ordinamento interno per una felice intuizione anticipatoria proprio dei principi della green economy e dell’economia circolare, che si è poi voluto “togliere di mezzo”, perché non espressamente “richiestoci dall’Europa”. E ciò dimostra – senza lasciarci incantare dalle entusiastiche dichiarazioni del nostro Ministro dell’Ambiente “di turno” (al momento della presentazione del Piano europeo sull’economia circolare e poi, della Strategia europea sulla plastica), – che l’adesione delle nostre Istituzioni al massimo livello ai principi dell’economia circolare certamente esiste, ma comunque, solo all’insegna del “ne quid nimis“.

2. UE e norme

Il processo di approvazione, tutte in un colpo, delle modifiche di ben sei direttive europee riguardanti i rifiuti, (direttiva “madre” più cinque direttive a specifico tema) modificative e integrative di quelle preesistenti, nell’ottica di una loro maggiore coerenza coi principi dell’economia circolare, è nato, come si è già visto sopra, con la Comunicazione COM (2015) 217 final[12] del 2 dicembre 2015 “L’anello mancante – Piano d’azione dell’Unione europea per l’economia circolare”, che comprendeva anche gli “schemi” di modifica della “direttiva madre” sui rifiuti n. 2008/98/Ce, e delle “complementari” direttive n. 94/62/CE sugli imballaggi e i rifiuti di imballaggio, n. 1999/31/CE relativa alle discariche di rifiuti, n. 2000/53/CE relativa ai veicoli fuori uso, n. 2006/66/CE relativa a pile e accumulatori e ai rifiuti di pile e accumulatori, e n. 2012/19/UE sui rifiuti di apparecchiature elettriche ed elettroniche, tutte proposte alla discussione degli organi decisionali coinvolti nella procedura.

La proposta inziale della Commissione sugli Schemi di modifica delle sopra richiamate direttive, consegnati alla discussione del Parlamento europeo ha ipotizzato:

– modifiche correttive, abrogative e sostitutive di singoli articoli e commi – nonché l’introduzione di alcune disposizioni ex novo – nel testo a tutt’oggi vigente della “direttiva madre” n. 2008/98/Ue, sulle quali si è principalmente concentrato il dibattito col Parlamento europeo, in una sorta di “tiro alla fune” (in rialzo da parte dell’Organo assembleare, e in ribasso da parte dell’Esecutivo);

– variazioni molto più circoscritte e limitate, per l’adeguamento ai principi dell’economia circolare, con riferimento alle direttive “satelliti” sopra richiamate, compresa quella sulle discariche.

Questo dibattito si è protratto fino alla faticosa soluzione di compromesso raggiunta tra le Parti in data 18 dicembre 2017, dopo che il Parlamento aveva approvato ben 233 emendamenti allo schema di direttiva elaborato dalla Commissione, dei quali n. 69 riguardanti i “considerando” preliminari, e n. 164 riferiti all’articolato e agli Allegati.

Gli elementi chiave dei testi concordati comprendono:

  • definizionipiù chiare dei concetti fondamentali in materia di rifiuti, che contemplano, tra l’altro, una più articolata enunciazione della declaratoria riguardante i rifiuti urbani, e una meno equivoca distinzione tra riciclaggio, riutilizzo e preparazione per il riutilizzo;
  • nuovi obiettivi vincolantiper la riduzione dei rifiuti, da conseguire a livello dell’UE, con valori intermedi entro il 2025 e finali per il 2030. Questi obiettivi riguardano la quota di riciclaggiodei rifiuti urbani e dei rifiuti di imballaggio, (con obiettivi specifici per i vari materiali di imballaggio) e anche un obiettivo per i rifiuti urbani collocati in discarica entro il 2035: su tali aspetti, emerge il parere della Commissione europea, sui più ambiziosi obiettivi fatti invece propri dal Parlamento;
  • metodie norme più severi per calcolare i progressi compiuti verso la realizzazione degli obiettivi;
  • requisiti più rigorosi per la raccolta differenziata dei rifiuti, da estendere ovunque obbligatoriamente anche ai rifiuti tessili;
  • un più articolato impegno per il potenziamento dell’attuazione della gerarchia dei rifiutiattraverso strumenti economici e misure supplementari affinché gli Stati membri attuino una concreta politica per la prevenzione della produzione dei rifiuti[13];
  • requisiti minimi applicabili ai regimi di responsabilità estesa del produttore. I produttori che rientrano nei regimi di responsabilità estesa sono responsabili della raccolta di beni usati, della cernita e del trattamento finalizzato al riciclaggio. I produttori saranno tenuti a versare un contributo finanziario a tal fine, calcolato in base ai costi di trattamento.

La pubblicazione in GUUE, del pacchetto di direttive su “rifiuti & economia circolare”, concerne le nuove disposizioni riguardanti i sottoprodotti, da riconoscere “obbligatoriamente” come tali, una volta accertata la sussistenza delle condizioni stabilite dalle norme con minori spazi interpretativi lasciati alle autorità chiamate a pronunciarsi, e allo stesso Ordine giudiziario; e quelle relative all’end of waste, con un ruolo fondamentale per dichiarare definitivamente concluso il processo di riciclaggio di un rifiuto, dal quale è stata ottenuta una “materia prima seconda”.

3. Principio europeo “chi inquina paga”

Un’ulteriore, specifica, rilevante problematica, che caratterizza il sistema industriale non solo del nostro Paese, riguarda la produzione e l’utilizzo della plastica in relazione alle più disparate attività che si effettuano nella vita quotidiana.

In proposito, le istituzioni dell’Unione Europea hanno rilevato come sia necessario trovare una soluzione per risolvere la crescente, e per certi versi, sempre più insostenibile produzione di rifiuti di plastica e la conseguente dispersione di essi nell’ambiente in cui viviamo, con particolare riferimento all’ambiente marino.

Il considerevole impatto negativo di determinati prodotti di plastica sull’ambiente, la salute e l’economia ha reso necessaria la predisposizione di un peculiare, specifico quadro normativo per ridurre efficacemente il suddetto impatto.

Per questa ragione, le istituzioni eurounitarie hanno recentemente emanato una specifica direttiva, avente ad oggetto la “riduzione dell’incidenza di determinati prodotti di plastica sull’ambiente”. La stessa presuppone la promozione di un approccio che privilegi prodotti riutilizzabili, eco sostenibili e non tossici, con l’obiettivo primario di ridurre la quantità di rifiuti prodotti.

La nuova direttiva europea[14] accende peraltro un focus specifico sui rifiuti dispersi in ambiente marino, che costituiscono un problema a livello mondiale di dimensioni sempre più vaste, manifestando una particolare attenzione anche per le cosiddette “microplastiche”, le quali, pur non rientrando nell’ambito della direttiva, risultano oggetto di un monito all’Unione a far sì che i produttori limitino rigorosamente le microplastiche in tutte le loro formulazioni.

La direttiva in questione, disciplinando uno specifico settore (prodotti in plastica monouso ed attrezzi da pesca contenenti plastica), si pone come lex specialis rispetto alle precedenti direttive, che regolano invece la materia in maniera più globale, senza alcuno specifico riferimento al settore delle materie plastiche[15].

Peraltro, ai fini di una corretta applicazione della direttiva, è necessario che la Commissione sviluppi linee guida, di carattere meramente operativo, con uno specifico riferimento ai prodotti di plastica monouso, tenendo ovviamente in considerazione i criteri definiti nella direttiva medesima.

La particolare disciplina, oggetto della normativa in questione, riguarda infatti unicamente i prodotti in plastica monouso, che possono essere fabbricati a partire da un’ampia gamma di materie plastiche. Più segnatamente, la plastica è di solito definita come un polimero cui possono essere stati aggiunti additivi[16]. Tuttavia, nell’undicesimo considerando della direttiva, risultano esclusi dalla disciplina i polimeri naturali non modificati, intesi come “sostanze non modificate chimicamente”, in quanto presenti naturalmente nell’ambiente.

Per conseguire l’ambizioso obiettivo di una riduzione duratura del consumo di prodotti in plastica monouso, gli Stati membri dell’Unione dovrebbero predisporre le misure allo scopo necessarie. Tuttavia, un siffatto compito non risulta per nulla agevole, in quanto, per determinati prodotti in plastica monouso, non sono immediatamente disponibili alternative adeguate e più sostenibili: conseguentemente, il consumo della maggior parte di questi prodotti è destinato ad aumentare. Il rischio è infatti quello di compromettere l’igiene e la sicurezza alimentare: e ciò costituisce un ostacolo, o quantomeno un freno, all’adozione di adeguate azioni di riduzione del consumo dei suddetti prodotti. Per questa ragione, in linea con il ben noto principio del “chi inquina paga”, gli Stati membri dovranno introdurre regimi di responsabilità, anche a livello tributario, estesa del produttore, con l’espressa finalità di coprire i necessari costi di raccolta, gestione, rimozione, trasporto e trattamento dei rifiuti, nonché i costi di sensibilizzazione per prevenire e ridurre i rifiuti stessi. La nozione di responsabilità estesa del produttore non costituisce peraltro una novità nel nostro panorama normativo, trovando compiuta disciplina nella Dir. UE 19 novembre 2008, n. 98 relativa ai rifiuti[17].

Il presupposto fondamentale per ridurre la dispersione nell’ambiente di tappi e coperchi di plastica monouso è costituito dal requisito di conformità ad una corretta progettazione. Per raggiungere questo obiettivo, è necessario prevedere l’elaborazione di una norma armonizzata, il cui rispetto dovrebbe dar luogo ad una presunzione di conformità a tali requisiti. È peraltro evidente che, a livello di progettazione, si dovrà tener conto del ciclo di vita del prodotto, a partire dalle fasi di produzione e di utilizzo, nonché della riutilizzabilità e riciclabilità del medesimo.

Un altro elemento fondamentale è costituito dalla marcatura, attraverso la quale i consumatori verrebbero informati in merito alle corrette opzioni di gestione dei rifiuti derivanti dai prodotti stessi e a quali siano i metodi di smaltimento che devono essere evitati (ad esempio, quello nelle reti fognarie, in quanto ciò potrebbe causare notevoli danni economici, come l’ostruzione o la rottura delle pompe e l’intasamento delle tubature).

Un ulteriore aspetto, che merita di essere evidenziato, riguarda l’adozione, da parte degli Stati dell’Unione europea, di misure atte ad assicurare la raccolta differenziata in funzione del riciclaggio, con la fissazione di due rilevanti soglie percentuali di riduzione della quantità di rifiuti di prodotti di plastica monouso, con scadenze fissate al 2025 ed al 2029.

A tale proposito, è opportuno evidenziare che la Commissione UE, il 16 gennaio 2018[18], aveva già emanato una comunicazione che mirava ad istituire una strategia europea per la plastica nell’economia circolare. La strategia era orientata verso la sfida ai tassi ridotti di riutilizzo e di riciclaggio dei rifiuti di plastica, alle emissioni di gas ad effetto serra e, soprattutto, all’ingente quantità di rifiuti di plastica (compresa la microplastica negli oceani). La Commissione aveva infatti prospettato una sua teoria su una nuova economia della plastica in Europa, in cui, tra l’altro, tutti gli imballaggi avrebbero dovuto essere riprogettati in modo da consentirne il riciclaggio od il riutilizzo entro il 2030.

Le misure strategiche erano principalmente incentrate sui seguenti ambiti: (i) miglioramento degli aspetti economici e della qualità del riciclaggio; (ii) riduzione dei rifiuti di plastica per far fronte all’abbandono degli stessi nell’ambiente; (iii) promozione degli investimenti ed innovazione nella catena del valore della plastica; (iv) sfruttamento delle azioni globali[19].

Di fondamentale importanza risultano poi le misure di sensibilizzazione che i singoli Paesi membri si devono prefiggere di assicurare per informare i consumatori ed incentivarli a tenere un comportamento responsabile al fine di ridurre la dispersione nell’ambiente dei rifiuti contemplati nella direttiva.

Un ultimo tema affrontato dalla normativa europea riguarda l’adozione, da parte degli Stati, di misure sanzionatorie rivolte ad assicurare l’applicazione delle disposizioni nazionali di attuazione della direttiva stessa. Le sanzioni dovranno essere effettive, proporzionate e dissuasive.

Peraltro, anteriormente all’entrata in vigore della Dir. 2019/904 UE, sulla base di una semplice proposta elaborata dalla Commissione[20], che ha poi trovato terreno fertile all’interno delle istituzioni dell’Unione, essendo stata successivamente adottata dal Parlamento europeo e dal Consiglio, il nostro Paese ha introdotto un’apposita norma nell’ambito del D.Lgs. 3 aprile 2006, n. 152, disciplinante le “plastiche monouso” con il dichiarato intento di prevenire la produzione di rifiuti derivanti da questo tipo di polimeri, nonché di prevenirne l’abbandono e di favorirne la raccolta differenziata ed il correlativo riciclaggio, su base volontaria ed in via sperimentale dal primo gennaio 2019 al 31 dicembre 2023[21].

Più segnatamente, la proposta avanzata dalla Commissione UE, che ha poi dato origine alla Dir. UE 2019/904, si poneva l’obiettivo di andare oltre le prescrizioni della normativa quadro sulla strategia per l’ambiente marino, provvedendo a disciplinare le singole fonti di inquinamento, grazie all’individuazione delle cause e dei percorsi dell’inquinamento dell’ambiente marino dovuto alla plastica. Nel preambolo della proposta di direttiva si evidenzia chiaramente l’obiettivo di affrontare solo una parte del problema dei rifiuti derivanti dalla plastica in ambiente marino. Essa infatti risulta inserita in un approccio generale europeo integrato e coerente, volto a ridurre tutte le fonti di rifiuti di plastica negli ambiti più critici, fra i quali rientra a pieno titolo quello marino. La strategia adottata evidenzia però le lacune, o comunque le carenze, dell’attuale quadro giuridico e prospetta delle misure atte a migliorare la prevenzione, la raccolta ed il riciclaggio, nonché l’adozione di un contesto normativo, che favorisca l’utilizzo di polimeri con caratteristiche biodegradabili per prevenire danni agli ecosistemi.

In considerazione della natura dei rifiuti, che possono essere trasportati dal vento, dalle correnti e dalle maree, la problematica assume un rilievo transfrontaliero e, quindi, non può essere affrontata isolatamente dai singoli Stati membri dell’Unione, che condividono gli stessi mari e gli stessi fiumi. L’approccio politico deve pertanto essere globale, anche mediante l’adozione di misure da parte dell’Unione europea. In effetti, qualora i singoli Stati dovessero adottare misure non coordinate ed approcci diversi riguardo ai vari prodotti in plastica, si potrebbero determinare restrizioni di accesso al mercato, ostacoli alla libera circolazione delle merci e della par condicio fra i produttori dei diversi paesi[22].

Per quanto attiene invece alla dispersione nell’ambiente di alcuni articoli, quali tappi, coperchi e contenitori di bevande in plastica, l’impatto ambientale può essere più efficacemente affrontato, modificando la progettazione dei prodotti, passando a sostituti più sostenibili.

Si deve comunque rilevare che la proposta di direttiva del 2018, in ossequio al principio di sussidiarietà, prevede un certo margine di discrezionalità in capo ai singoli Stati membri, che hanno facoltà di scegliere le misure nazionali più appropriate.

In perfetta aderenza al principio di proporzionalità, la proposta della Commissione U.E. risulta altresì mirata ed incentrata sugli articoli di macro-plastica numericamente più rilevanti sulle spiagge europee[23].

Come si è già rilevato poc’anzi, il nostro paese, sulla base dei principi contenuti nella citata proposta, ha adottato, in via sperimentale, una normativa di applicazione volontaria, finalizzata alla promozione di misure ecosostenibili, attraverso l’introduzione di modelli di raccolta differenziata di stoviglie in plastica, la loro sostituzione con biopolimeri di origine vegetale[24].

Per raggiungere tali obiettivi, i produttori sono tenuti a promuovere la raccolta delle necessarie informazioni e l’elaborazione di standard qualitativi delle materie prime e dei prodotti che ne derivano. Particolare importanza riveste la raccolta delle informazioni, che riguardano, più segnatamente, i sistemi di restituzione, raccolta e recupero disponibili, il ruolo degli utenti di prodotti in plastica monouso e dei consumatori nel processo di riutilizzazione, di recupero e di riciclaggio dei prodotti in plastica monouso e dei rifiuti da imballaggio. Particolare rilevanza riveste altresì il significato da attribuire ai marchi apposti sui prodotti stessi.

Al fine di realizzare attività di studio, verifica tecnica e monitoraggio è stato istituito un apposito fondo presso il Ministero dell’ambiente con una dotazione annua di centomila euro. L’esiguità di tale stanziamento rischia però di vanificare i buoni propositi del legislatore.

Sul versante regionale, è necessario segnalare che, in Italia, alcune Regioni hanno emanato apposite leggi in materia, prevedendo il divieto di utilizzo di contenitori, mescolatori per bevande, aste a sostegno di palloncini, cannucce e stoviglie, quali posate, forchette, coltelli, cucchiai, bacchette e piatti in plastica monouso. Alla violazione del predetto divieto corrispondono sanzioni amministrative per la punizione dei trasgressori, specie con riguardo all’inosservanza delle prescrizioni normative in aree sensibili quali parchi, lidi e spiagge del demanio marittimo.

In particolare, per quanto riguarda la Sicilia, si rileva che l’Assessorato del Territorio e dell’Ambiente di questa Regione ha adottato una Linea guida[25], che ripercorre, quasi pedissequamente, il contenuto delle leggi regionali sopra menzionate. Tale atto, che non ha natura normativa, essendo da annoverarsi, per espresso richiamo operato dalla Regione, fra le “circolari”, desta qualche perplessità, soprattutto riguardo ai profili sanzionatori, che vengono liquidati con un semplice richiamo all’art. 1164 del codice della navigazione. Trattandosi di materia per la quale è richiesto, per l’applicazione delle sanzioni, il rispetto del principio di legalità, sorgono fondate perplessità proprio a questo riguardo.

Peraltro, anche anteriormente alla proposta di direttiva del 2018[26], il legislatore nazionale aveva introdotto il divieto di produzione e commercializzazione di alcuni prodotti gravemente nocivi per l’ambiente[27], tra i quali i bastoncini per la pulizia delle orecchie con supporto in plastica o comunque in materiale non biodegradabile né compostabile; la stessa norma ha poi messo al bando anche la commercializzazione di prodotti cosmetici da risciacquo, contenenti microplastiche a far data dal primo gennaio 2020, stabilendo le relative sanzioni in caso di violazione[28].

A tale proposito, anche in diversi paesi extra europei sono già state vietate le microplastiche nei cosmetici: così è, per esempio, avvenuto, già da tempo, negli Stati Uniti con il Microbead-free Waters Act.

Sul tema si è anche pronunciata la giurisprudenza amministrativa, affrontando la questione sotto diversi punti di vista.

In primo luogo, in presenza di un’ordinanza emessa da una Regione italiana, fondata, come base giuridica, sul disposto della Dir. UE 2019/904 del Parlamento europeo e del Consiglio del 5 giugno 2019, pubblicata il 12 giugno 2019 ed entrata in vigore 20 giorni dopo, ossia il 2 luglio 2019, la giurisprudenza[29] ha affermato che, stante il termine di recepimento, fissato per il 3 luglio 2021, nessun provvedimento restrittivo dell’immissione sul mercato dei relativi prodotti plastici può essere legittimamente adottato in epoca anteriore alla predetta data.

Un secondo argomento utilizzato dal giudice amministrativo per rilevare l’illegittimità di simili provvedimenti, adottati a livello regionale, è costituito dalla violazione dei dettami imposti dall’art. 117 Cost. Più segnatamente, il provvedimento di recepimento del contenuto della Dir. UE 2019/904 deve essere adottato dallo Stato e non dalla Regione, trattandosi di materia ambientale che rientra nella competenza esclusiva statale (art. 117, comma 2, lett. s). Per di più, l’adozione di un provvedimento, che importa restrizioni al mercato dei prodotti di plastica monouso, incide inevitabilmente sulla tutela della concorrenza, comportando un’ulteriore violazione costituzionale anche sotto questo profilo[30].

Lo stesso giudice sottolinea peraltro che non sembra neppure esserci spazio affinché la Regione, a livello normativo, piuttosto che direttamente nell’esercizio di funzioni amministrative, sfrutti la possibilità che leggi regionali, emanate nell’esercizio della potestà concorrente di cui all’art. 117, comma 3, Cost., o di quella “residuale” di cui al quarto comma dello stesso articolo, possano assumere fra i propri scopi anche finalità di tutela ambientale, nell’ambito di una materia qualificata come “trasversale”. E questo perché l’intervento della Regione non può compromettere il punto di equilibrio tra esigenze contrapposte, espressamente individuato dalla Corte Costituzionale[31], tanto meno in una fase in cui tale punto di equilibrio non è stato ancora rinvenuto.

Inoltre, in prospettiva euro unitaria, non è certamente possibile attribuire alla direttiva un effetto diretto, in quanto la stessa non possiede le necessarie caratteristiche per ritenerla self executing[32], non essendo sul punto sufficientemente chiara e precisa per la sua immediata applicazione e non essendo neppure, allo stato, ravvisabile alcun inadempimento in capo allo Stato italiano in ordine al suo recepimento[33].

Da un’altra angolazione, si sono rinvenute fattispecie in cui alcuni Comuni italiani hanno tentato di utilizzare l’istituto dell’ordinanza sindacale contingibile e urgente ex art. 50, D.Lgs. 18 agosto 2000, n. 267 (T.U. delle leggi sugli enti locali), ma tali iniziative non hanno avuto seguito, in quanto la giurisprudenza, nella quasi totalità delle ipotesi, non ha ritenuto sussistenti i presupposti di legge per l’utilizzo di siffatto strumento, sia sotto il profilo della mancanza del requisito dell’eccezionalità ed imprevedibilità della situazione che si intenderebbe fronteggiare, sia sotto quello della mancata previsione di un limite temporale di efficacia[34].

Di segno contrario è invece il T.A.R. per l’Abruzzo, che non ha sospeso cautelarmente un’ordinanza sindacale contingibile ed urgente, emanata da un Comune abruzzese, fondando la pronuncia sulla mancanza di danno grave ed irreparabile, in quanto l’efficacia dell’ordinanza era, di fatto, limitata ad una piccola città litoranea[35]. All’evidenza, una simile motivazione, totalmente avulsa dal contesto giuridico di riferimento, rappresenta un disperato tentativo di difendere una posizione ideologica, ancorata alla tutela ad oltranza dell’ambiente, prescindendo da qualsiasi risvolto di tipo diverso, quali la libera concorrenza e libertà di iniziativa economica.

4. Legge di stabilità 2014 e introduzione green taxes

Le decisioni adottate dalla Conferenza delle parti12[36] trovano un riscontro e concrete implicazioni anche in alcune iniziative in corso nel nostro Paese. Il cosiddetto collegato ambientale italiano (disegno di legge “collegato” alla legge di stabilità 2014, approvato con la Legge 27 dicembre 2013, n. 147) recante disposizioni in materia ambientale per promuovere misure di green economy e per il contenimento dell’uso eccessivo di risorse naturali, è stato esaminato il 18 febbraio scorso da parte della 13° Commissione Territorio del Senato. Esso contiene una sezione dedicata al capitale naturale e alla contabilità ambientale, prevedendo l’istituzione del Comitato per il capitale naturale (Capo XI, art. 50). Questo avrà il compito di produrre il rapporto annuale sullo stato del capitale naturale, producendo informazioni e dati espressi non solo in unità fisiche ma anche monetarie, nonché di promuovere l’adozione di sistemi di contabilità ambientale. Si tratta di un importante e inevitabile progresso nel settore della contabilità ambientale che si collega strettamente al processo europeo dei MAEs (Mapping and Assessment of Ecosystems and their Services). Inoltre, si sta lavorando per la raccolta dei dati sui flussi finanziari mobilitati dal settore privato nel cosiddetto Reporting Framework, che costituisce il riferimento in base al quale misurare il grado di raggiungimento degli impegni finanziari in favore dei PVS assunti in ambito CBD.

Un altro fronte di impegno assai rilevante è stato quello dei rifiuti. A tale riguardo è stata elaborata una proposta di Direttiva europea che modifica le direttive n. 2008/98/Ce relativa ai rifiuti, n. 94/62/Ce relativa agli imballaggi e i rifiuti di imballaggio, n. 1999/31/Ce relativa alle discariche di rifiuti, n. 2000/53/Ce relativa ai veicoli fuori uso, n. 2006/66/Ce, relativa a pile e accumulatori ed ai rifiuti di pile e accumulatori e n. 2012/19/Ue relativa ai rifiuti di apparecchiature elettriche ed elettroniche. La proposta risponde all’obbligo giuridico di riesame degli obiettivi inerenti alla gestione dei rifiuti fissati dalle direttive ora menzionate.

Era poi stato confermato l’accordo politico sulla proposta di direttiva relativa alla riduzione del consumo dei sacchetti di plastica in materiale leggero. Tuttavia la proposta di revisione del pacchetto rifiuti a quanto consta è stata ritirata dalla Commissione europea, come anche quella per il pacchetto “Aria Pulita”, al fine di presentare una proposta più ambiziosa nell’ambito del nuovo programma di lavoro 2015. Il compromesso raggiunto in seguito al negoziato tra le istituzioni europee avrebbe previsto due opzioni per raggiungere l’obiettivo di limitare l’uso delle buste: la scelta da parte dei singoli Stati sull’imposizione di un prezzo ai sacchetti usa e getta di spessore inferiore a 0,05 millimetri entro la fine del 2017, oppure l’impegno a raggiungere il target di riduzione, cioè un consumo di 90 sacchetti pro capite entro il 2019 (contro i 198 di oggi) e di 40 pro capite entro il 2025[37].

Sta inoltre prendendo avvio tra gli Stati Membri la considerazione del problema delle microplastiche nell’ambiente, soprattutto in relazione ai danni all’ambiente marino. Si parla di un potenziale divieto dell’utilizzo delle microplastiche nei cosmetici e detergenti, allo scopo di rafforzare il ruolo dell’Ue come precursore nei prodotti innovativi e nella crescita verde (c.d. green growth, al centro dell’attenzione anche in area OCSE e ONU). In merito, anche le rappresentanze del comparto industriale hanno concretamente mostrato di voler collaborare per affrontare il problema.

Sul fronte nazionale, l’Italia ha dato conto dello stato delle bonifiche delle discariche illegali in Italia, e delle azioni che il Governo intende intraprendere in sede europea, in seguito alla sentenza del 2 dicembre 2014 con cui la Corte di Giustizia dell’Ue ha condannato il nostro Paese[38]. La sentenza, che ha deciso sul ricorso presentato dalla Commissione europea il 16 aprile 2013 che contesta l’inadempimento da parte dell’Italia della sentenza Commissione/Italia (EU:C:2007:250) del 26 aprile 2007, impone una sanzione forfettaria una tantum che ammonta a 40 milioni di euro, ed una penalità semestrale di 42 milioni e 800 mila euro, applicabile in forma decrescente, fino all’esecuzione completa della sentenza. La legge di Stabilità 2014 (legge n. 147/2013) ha istituito un apposito fondo destinato al finanziamento di un “piano straordinario di bonifica delle discariche abusive individuate in relazione alla procedura di infrazione comunitaria n. 2003/2077”, che individua interventi su 45 discariche[39].

Di tutto ciò si avvede la stessa Commissione europea (per tutti il libro bianco Delors), la quale, pur attribuendo particolare rilevanza ai tributi ambientali – che considera, “a ben vedere, lo strumento più efficace rimasto in capo agli stati nazionali per orientare il mercato verso nuovi, più efficienti e concorrenziali, modelli di produzione” -, non li pone in relazione con i disastri ambientali e con altre situazioni in cui gli interventi di ripristino e mitigazione appaiono particolarmente complessi, estesi e onerosi.

Ne consegue che lo Stato è portato ad intervenire soprattutto con l’impiego diretto di risorse straordinarie che vengono reperite, più che con nuovi tributi, mediante la fiscalità generale. A ciò va aggiunto che i disastri ambientali, a differenza di quelli naturali, non sono eccezionali, né del tutto imprevedibili. Essi dipendono per lo più da condotte umane reiterate, riconoscibili e causalmente imputabili. Ciò comporta che, mentre nel caso di calamità naturali possono essere adottate misure fiscali temporanee (si pensi alla sospensione dei termini per la presentazione delle dichiarazioni fiscali o del versamento dei tributi), nel caso di disastri ambientali le misure non possono essere circoscritte temporalmente, dovendo proiettarsi su più periodi d’imposta, il cui numero dipende dai tempi necessari a rimuoverne gli effetti. Allo stesso tempo, a differenza dei disastri naturali, per quelli ambientali è generalmente possibile risalire a chi abbia causalmente dato origine al disastro stesso e, successivamente, farne valere le responsabilità di ordine risarcitorio-riparatorio. La possibilità di ricorrere a modelli privatistici di responsabilità da fatto illecito, magari sulla base di provvedimenti dell’autorità giudiziaria, ha determinato un’ulteriore erosione degli spazi per l’applicazione di strumenti di carattere fiscale. E ciò nonostante la larga applicazione, nella materia, del principio “chi inquina paga”, vero pilastro e fondamento del diritto ambientale che è stato spesso proiettato in una dimensione squisitamente tributaria[40]. Nel programma d’azione per la protezione dell’ambiente del 17 aprile 1973, la Commissione europea ha stabilito che “qualsiasi spesa connessa alla prevenzione e all’eliminazione delle alterazioni ambientali è a carico del responsabile[41], introducendo una sorta di responsabilità a carico di chi ha il controllo dell’attività all’origine del danno. In forza di tale principio, l’attività imprenditoriale viene responsabilizzata attraverso l’accollo, in capo allo stesso autore, degli oneri collettivi relativi al disinquinamento o alla rimozione del degrado ambientale. Misure risarcitorie di natura civilistica e strumenti di carattere fiscale non solo non sono incompatibili ma possono convivere tranquillamente, concorrendo alla ripartizione degli oneri finanziari occorrenti per il ripristino ambientale. Infatti, come da ultimo ribadito nel Settimo Programma europeo di azione per l’ambiente[42], “occorrerà applicare il principio ‘chi inquina paga’ in modo più sistematico, in particolare attraverso l’eliminazione graduale delle sovvenzioni dannose per l’ambiente … e prendere in considerazione misure fiscali a sostegno di un impiego sostenibile delle risorse, ad esempio operando uno spostamento sostanziale dalla tassazione della manodopera verso la tassazione sull’inquinamento.“. Non può tuttavia tacersi come tali modelli fatichino a trovare attuazione per la difficoltà di un efficace bilanciamento dei diversi interessi in gioco; a ciò va aggiunto il ruolo della Magistratura, manifestatosi con forza in alcuni disastri ambientali (Area industriale di Taranto o c.d. Terra dei fuochi, solo per citare i più recenti e importanti esempi), e destinata in molti casi a svolgere un ruolo di supplenza rispetto agli amministratori e allo stesso legislatore (anche fiscale) che finisce per incidere, per altra via, sulla sfera economico-patrimoniale dei responsabili (si pensi ai provvedimenti di natura cautelare o ablatoria quali i sequestri, le confische, etc.).

5. Tributi ambientali nell’ordinamento tributario italiano

A partire dalla Legge 19 dicembre 2019, n. 157, recante disposizioni urgenti in materia fiscale e per esigenze indifferibili, e dalla Legge di Bilancio 27 dicembre 2019, n. 160, pubblicate rispettivamente nella Gazzetta Ufficiale del 24 e del 30 dicembre 2019, osserveremo distintamente le norme di specifico interesse del settore ambientale, distinguendo le disposizioni che, in relazione agli obiettivi di sostenibilità, determinano incentivi agli investimenti ambientali ovvero introducono più specificamente una tassazione ambientale.

Così “provando” a cogliere se, nei fatti, il dibattito sulla sostenibilità e sul Green New Deal ha prodotto dei risultati concreti.

Rinviando ad altra sede le riflessioni su come le risorse pubbliche sono state investite in questi ultimi anni, vale la pena valutare l’effettiva portata di una riforma fiscale “ecologica” che si pone l’obiettivo di riorganizzare le entrate dello Stato italiano a gettito invariato, introducendo nuove “tasse” ambientali, riducendo i sussidi impropri e il costo del lavoro ed aumentando gli investimenti pubblici di green economy.

Tale valutazione deve necessariamente partire dalla considerazione che in Italia la pressione fiscale è già alta e che ciò ha avuto l’effetto di ridurre gli investimenti, soprattutto nel campo della ricerca e dell’innovazione. Con la conseguenza di “rallentare” piuttosto che “spingere” verso l’obiettivo della sostenibilità[43].

Alla stessa stregua, il riferimento al gettito invariato porta inevitabilmente con sé una difficoltà di fondo che è quella di non poter incidere sulla leva fiscale per rilanciare lo sviluppo sostenibile, diminuendo la competitività del nostro Paese.

Si considerino, inoltre, le entrate parafiscali, quali, ad esempio quelle delle bollette energetiche (corrisposte da imprese e famiglie) che finanziano le fonti rinnovabili e che un nucleo ristretto di imprese già paga il “diritto” ad emettere CO2, secondo le regole comunitarie in vigore.

Queste entrate parafiscali assolvono alla funzione di introdurre sull’energia degli oneri, che, nel caso migliore, spingono verso l’efficienza e, in quello peggiore, a rendere meno competitive le nostre imprese.

Dopodiché bisogna intendersi sul fatto che le imprese non sono tutte uguali.

Ci sono quelle che sono energy intensive e quelle labour intensive, e, molto spesso, le filiere produttive sono orizzontali, in cui c’è chi produce il materiale (e quindi usa più risorse) e chi lo trasforma in diversi manufatti (fase nella quale il “lavoro” ha un maggiore peso).

L’uno presuppone l’altro, senza contare che il produttore del materiale è sovente (sempre?) anche il riciclatore e, quindi, il perno del sistema di economia circolare.

Pertanto, è difficile dividere il mondo in due, tra chi usa le risorse e chi no, perché ognuno ha un ruolo nella filiera produttiva.

Piuttosto, si dovrebbe premiare l’efficienza e l’innovazione, attraverso una ulteriore un sistema di incentivi concreti e di riduzione del carico fiscale; ponendo ambiente, innovazione e infrastrutture in cima all’agenda di un Piano di investimenti pubblici e privati.

Ma per ridurre drasticamente le emissioni ed avere una maggiore sostenibilità, occorre ben altro e il Green Deal europeo presentato nel dicembre scorso sembra andare in una direzione diversa e più decisa.

C’è poi il tema delle imposte definite “correttive”.

Queste sono applicate in tutto il mondo con l’obiettivo di ridurre le esternalità (come i costi sanitari del fumo, dell’inquinamento, dell’obesità) che altrimenti non emergono dai prezzi finali dei prodotti.

Per funzionare le tasse “correttive” devono essere applicate su dati scientifici e con la consapevolezza degli effetti esterni negativi e positivi che la produzione e il consumo di determinati beni possono avere sull’ambiente o sul consumo.

Si può agire con imposte esistenti (come l’IVA, innalzandola) oppure introducendone di nuove.

Una ulteriore variabile nel campo delle imposte “correttive” è quella di ridurre le imposte su prodotti che si intendono incentivare e promuovere (ne vedremo un esempio nel Decreto Fiscale[44]).

C’è un ultimo aspetto da considerare e cioè che la tassazione “al servizio della sostenibilità” dovrebbe prevedere una tassazione di scopo e cioè che il gettito sia investito in campo ambientale: ad esempio il gettito su tassa sulle emissioni sia utilizzato per finanziare investimenti in tecnologie meno inquinanti.

Il Tributo per l’esercizio delle funzioni ambientali, in qualche modo, costituisce il più antico tributo o tassa ambientale dell’ordinamento italiano. Più che di tassa correttiva dovremmo correttamente definirlo un tributo ambientale.

Era l’art. 19, D.Lgs. n. 504/1992 che istituiva “Tributo per l’esercizio delle funzioni di tutela, protezione e igiene dell’ambiente” (TEFA).

Il tributo provinciale per l’esercizio delle funzioni ambientali (TEFA) veniva istituito a fronte dell’esercizio delle funzioni amministrative di interesse provinciale, riguardanti l’organizzazione dello smaltimento dei rifiuti, il rilevamento, la disciplina ed il controllo degli scarichi e delle emissioni e la tutela, difesa e valorizzazione del suolo.

Il TEFA, date le caratteristiche normative volute dal Legislatore, è un tributo incassato dai singoli Comuni contestualmente alla tassa/tariffa per lo smaltimento dei rifiuti solidi urbani (TARSU/TIA fino al 2012, TARES 2013 e TARI 2014).

Con apposita Delibera, da adottarsi entro il mese di ottobre di ciascun anno per l’anno successivo, viene determinato il tributo, in misura compresa tra l’1% ed il 5% delle tariffe per unità di superficie ai fini della tassa per lo smaltimento dei rifiuti solidi urbani applicate dai Comuni.

Il tributo è liquidato e iscritto al ruolo dai Comuni contestualmente alla tassa per lo smaltimento dei rifiuti solidi urbani e con l’osservanza delle relative norme per l’accertamento, il contenzioso, la riscossione e le sanzioni. Al Comune spetta una commissione posta a carico della provincia impositrice, nella misura dello 0,30 per cento sulle somme riscosse, senza importi minimi e massimi.

L’ammontare del tributo riscosso congiuntamente alla tassa per lo smaltimento dei rifiuti solidi urbani, previa deduzione della corrispondente quota del compenso della riscossione, è versato dal concessionario o dal Comune, in caso di gestione diretta.

L’art. 1, comma 666, Legge n. 147/2013 ha confermato l’applicazione del tributo ex art. 19, D.Lgs. n. 504/1992 per quanto riguarda la “TARI” – Tassa sui rifiuti prevista dall’art. 1, comma 639 ss., Legge n. 147/2013.

Il D.Lgs. 6 maggio 2011, n. 68, recante disposizioni in materia di autonomia di entrata delle regioni a statuto ordinario e delle Province, ha ridisegnato le entrate tributarie di competenza provinciale e delle Città Metropolitane in attuazione della Legge delega n. 42/2009 sul federalismo fiscale. In particolare, l’art. 20 sempre del D.Lgs. n. 68/2011 prevede che spettino alle Province gli altri tributi ad esse riconosciuti nei termini previsti dalla legislazione vigente che costituiscono tributi propri derivati; conseguentemente, è fatta salva l’applicazione del “Tributo per l’esercizio delle funzioni di tutela, protezione e igiene dell’ambiente” (TEFA) previsto dall’art. 19, D.Lgs. n. 504/1992.

L’art. 38-bis non innova nulla sotto il profilo della natura del tributo e delle relative attribuzioni, ma semplicemente stabilisce le regole per il “riversamento” del TEFA a Province e Città Metropolitane nel caso di pagamenti unificati effettuati dal contribuente, al netto di una commissione del 5% (comma 1).

In questa prima parte si tratta di una norma di specifico interesse per la Pubblica Amministrazione.

A ciò si aggiunge – e qui riguarda tutti, anche i contribuenti – l’introduzione della fissazione della misura del 5% del tributo del prelievo collegato al servizio di raccolta e smaltimento dei rifiuti solidi urbani stabilito da ciascun comune ai sensi delle leggi vigenti in materia.

Questo nel caso in cui non vi sia diversa deliberazione adottata dalla Provincia o dalla Città Metropolitana, da comunicare all’Agenzia delle entrate entro il 28 febbraio 2020.

Anche in questo caso sono necessarie delle ulteriori norme di attuazione.

Infatti, con uno o più decreti del Ministero dell’economia e delle finanze, emanati entro il 31 maggio 2020, previa intesa in sede di Conferenza Stato-città ed autonomie locali, sono stabiliti i criteri e le modalità per assicurare il sollecito riversamento del tributo anche con riferimento ai pagamenti effettuati tramite conto corrente, nonché eventuali ulteriori criteri e modalità di attuazione della disposizione di cui al primo periodo. In mancanza dell’intesa, i decreti di cui al periodo precedente sono comunque emanati purché i relativi schemi siano stati sottoposti all’esame della Conferenza Stato-città ed autonomie locali almeno trenta giorni prima dell’emanazione.

In conclusione, un articolo che dà certezza in termini di entrate a Province e Città Metropolitana, oltre che a prevedere una misura minima del 5% del TEFA nel caso in cui non vi sia una diversa deliberazione sulla misura dello stesso da parte della stessa Provincia o Città Metropolitana.

La prima lente di ingrandimento attraverso cui analizzare la fiscalità ambientale complessivamente intesa si sostanzia nel principio generale del diritto dell’Unione di non discriminazione fiscale, finalizzato alla piena attuazione delle libertà di circolazione. Previsto in origine dall’art. 12 TCE, il principio in campo fiscale si concretizza nel divieto di esercitare la potestà tributaria con arbitrio e irragionevolezza nel campo dei tributi, posto che il prelievo tributario deve realizzarsi per categorie omogenee di soggetti, indipendentemente da valutazioni di ordine sociale o di equità. Il divieto di discriminazione tra Stati è espressione del principio di uguaglianza tributaria ed è funzionalmente indirizzato “alla correzione degli squilibri del mercato ed alla rimozione delle discriminazioni derivanti da differenze di condizioni personali non come regola generale ed inderogabile”[45].

Tale principio segna un margine netto rispetto alle scelte operabili in sede nazionale e fornisce indicazioni di ordine sostanziale e contenutistico sulla fiscalità interna. Si tratta di una norma generale, applicata solo in assenza di altre disposizioni che disciplinino in modo specifico il mercato, che assume precipuo rilievo nell’ambito dei rapporti economici e commerciali tra gli Stati. Il principio di non discriminazione incide sul contenuto degli ordinamenti giuridici tributari nazionali e diviene in prospettiva uno strumento di eliminazione delle disparità fiscali sul piano meramente soggettivo. La diversa accezione di libertà cui si è in precedenza fatto riferimento, correlata al “cittadino” europeo, che traspare nella più recente giurisprudenza della Corte di Giustizia, lentamente sta portando ad estendere anche ai propri cittadini il divieto di discriminazione ad opera di uno Stato membro: la discriminazione a danno dei propri connazionali deve essere considerata una disparità di trattamento che confligge con il concetto di mercato unico e con il principio di non discriminazione, in grado di creare potenziali distorsioni alla concorrenza[46]. Fra le giustificazioni a possibili discriminazioni fiscali, fondate su ragioni imperative di interesse generale, vi è la coerenza fiscale: un esempio può essere fornito dalla presenza di misure fiscali tese a garantire il mantenimento del nesso diretto tra una qualsiasi forma di imposizione e l’applicazione di un trattamento sottrattivo, quale la deduzione di un contributo, l’esenzione o l’applicazione di tariffe preferenziali. Tale giustificazione applicata principalmente nel settore delle imposte dirette, ha subito progressive limitazioni, che ne hanno ristretto l’ambito applicativo: “Il consolidato orientamento restrittivo della Corte di Giustizia è da condividere in pieno. Va, anzi, auspicato che la rilevanza del principio di coerenza sia ulteriormente ristretta. La coerenza interna dei sistemi fiscali nazionali non può prevalere sull’esigenza di coerenza dei sistemi nazionali con le regole del Trattato”[47].

Anche nell’ipotesi di agevolazioni fiscali ambientali è necessario il rispetto del principio in questione, che non può essere violato neanche per la realizzazione di una diversa politica dell’Unione, come ha più volte ribadito la Corte di Giustizia. In tal senso appare opportuno ricordare alcune fattispecie interne. In primo luogo, con riferimento al patrimonio culturale, si ricorda la questione inerente le agevolazioni tariffarie previste da alcuni musei – il palazzo dei Dogi di Venezia e il museo comunale di Treviso – che consentivano l’accesso gratuito per i cittadini italiani di età inferiore a diciotto o superiore a sessanta o sessantacinque anni e di altri – musei municipali di Firenze e Padova – che prevedevano l’accesso gratuito ai soli residenti nel territorio comunale in presenza di medesimi requisiti di età; di tali agevolazioni non beneficiavano i turisti cittadini di altri Stati membri o i non residenti, con identiche condizioni oggettive di età. La gestione del patrimonio culturale comporta notevoli oneri finanziari sulla collettività, solo in parte riversati sui visitatori mediante il pagamento di un biglietto di ingresso; l’accesso gratuito per i cittadini od i residenti rappresenta uno strumento di politica sociale con cui l’ente locale o lo Stato privilegiano gli appartenenti alla collettività che ne sostiene i costi di gestione. La Corte di Giustizia ha però rilevato che tale agevolazione per i soli cittadini o residenti si traduce in un ostacolo alla libertà di ricevere servizi a carattere turistico-culturale sia in modo diretto – come nel caso dei musei di Venezia e Treviso – sia dissimulato, come nel caso dei musei di Firenze e Padova, con palese contrasto del principio di non discriminazione[48].

Anche in campo ambientale la Corte ha più volte evidenziato che tale finalità non può essere tutelata in contrasto con altri principi fiscali dell’Unione. Con riferimento al sistema interno, diverse fattispecie tributarie sono state dichiarate illegittime in presenza di una presunta finalità ambientale. Si fa riferimento, in ordine cronologico, alle cosiddette tasse “sul marmo”, “sul tubo” e “sul lusso”.

Il primo caso si riferisce ad una particolare fattispecie di prelievo del Comune di Carrara posta in essere su un prodotto all’atto dell’esportazione dal territorio comunale[49]. Il tributo si applicava, con aliquote differenziate in relazione al pregio della roccia, su tutti i marmi estratti dalle cave di Carrara, a prescindere dalla destinazione finale; faceva eccezione il marmo lavorato negli stabilimenti di Carrara e di alcuni Comuni limitrofi, per i quali erano previste esenzioni ed agevolazioni, con riferimento alla destinazione industriale dei prodotti o alla lavorazione nel comprensorio.

La Corte di Giustizia ne ha dichiarato l’illegittimità in quanto tassa di effetto equivalente ad un dazio doganale. Occorre solo ricordare che per tassa di effetto equivalente si intende ogni onere pecuniario che, a prescindere dalla denominazione e dalla struttura, sia direttamente o indirettamente collegato all’importazione o all’esportazione di un prodotto, con conseguente aumento del suo costo. Si ricomprende ogni prelievo imposto unilateralmente da uno Stato, che colpisca le merci destinate oltre frontiera, aumentandone il prezzo, sia qualora tale onere venga applicato all’atto del materiale attraversamento della frontiera, sia nel caso in cui tale aumento avvenga successivamente. Vige un divieto assoluto, ovvero, il regime di libera concorrenza non deve essere turbato, a prescindere dal potenziale profitto per lo Stato, dai reali effetti discriminatori o protezionistici, dallo scopo in vista del quale sono stati istituiti o dalla destinazione dei proventi che ne derivano. Non sono, invece, contrastanti, con il principio di libera circolazione, quei tributi locali il cui  gettito rappresenta la remunerazione di un servizio reso all’operatore economico che ha sostenuto l’onere stesso. La Corte, per tali fattispecie, ha stabilito la non equivalenza a dazi doganali: in determinate ipotesi, in cui non vi sia contrasto con il principio di libera circolazione, un servizio effettivamente prestato può dar luogo ad una proporzionata controprestazione[50], purché si realizzi una serie di presupposti valutati dal giudice nazionale.

Altra possibile deroga si ha nell’ipotesi in cui il prelievo colpisca sia il prodotto nazionale sia quello importato: gli Stati membri sono liberi di stabilire tributi interni purché, in linea generale, questi non comportino turbamento al mercato unico e non si trasformino in forme di protezione o sostegno dei propri prodotti. Il Comune di Carrara tentò di difendere il proprio prelievo invocando una pretesa finalità ecologica della tassa, che avrebbe dovuto essere destinata a coprire le spese causate dall’industria del marmo sul territorio e l’ambiente: i proventi, secondo il Comune, dovevano finanziare la costruzione e riparazione di infrastrutture stradali e portuali, l’adozione di provvedimenti di protezione ambientale, il sostegno di iniziative culturali ed, infine, l’assistenza sociale a favore degli operai impegnati nel settore. La Corte di Giustizia rilevò che nel caso di specie, non si evidenziava nessun nesso di causalità fra il prelievo e le opere di riqualificazione ambientale realizzate dall’industria marmifera né alcun ritorno del tributo, sotto forma di servizi, in favore dei soggetti passivi del tributo stesso; la Corte confermò che in ogni caso, né lo scopo – sociale, ambientale, culturale o altro – né la finalizzazione dei proventi possono giustificare l’istituzione di una tassa in contrasto con un principio fiscale dell’Unione.

Analoga violazione viene invocata con riferimento alla cd. tassa sul tubo della Regione siciliana, che si riporta in quanto esempio di prelievo con finalità ambientale contrastante con principi europei, pur non contemplando fattispecie agevolative[51]Ex art. 6 della legge regionale siciliana primo marzo 2002 n. 2, che riformula l’art. 5 della Legge regionale 3 maggio 2001, n. 6, il tributo in oggetto si sostanziava in un prelievo fisso di natura patrimoniale su specifiche attività di trasporto e commercializzazione del gas. La legge in questione, nelle intenzioni del legislatore regionale, avrebbe dovuto recuperare risorse per finanziare investimenti finalizzati a ridurre e prevenire il potenziale danno ambientale derivante dalle condotte installate sul territorio della Regione siciliana e, più in generale, al reperimento di risorse volte alla salvaguardia, alla tutela ed al miglioramento dell’ambiente. La legge, sin dalla sua emanazione, era stata vivacemente contestata sia dalla dottrina sia dalla giurisprudenza[52]. Il legislatore era però stato sordo ai richiami che da più parti provenivano in tal senso, probabilmente anche per ragioni politiche connesse con la necessità di piantare i primi semi del federalismo fiscale. La Corte di Giustizia ne ha dichiarato l’illegittimità, evidenziando che la presunta finalità ambientale – a prescindere dal fatto che apparisse tardiva e pretestuosa – esterna o interna alla struttura di un tributo, non può di per sé sola giustificare l’introduzione di una tassa di effetto equivalente ad un dazio doganale, posto che i principi fondamentali del diritto europeo travalicano i confini delle singole politiche, compresa dunque quella ambientale.

Infine, vi è la nota questione della tassa sul lusso sarda, la cui illegittimità si fonda anche sulla violazione della disciplina in tema di aiuti di Stato. Per tale fattispecie è stato giustamente rilevato che “è difficile rinvenire un caso di così palese contrasto tra un progetto di buone intenzioni e la sua non meditata realizzazione[53]“. Con legge regionale 11 maggio 2006 n. 4 era stata istituita un’imposta regionale sulle plusvalenze dei fabbricati adibiti a seconde case, un’imposta regionale sulle seconde case ad uso turistico ed un’imposta regionale sugli aeromobili ed unità da diporto; la legge prevedeva trattamenti differenziati in ragione del domicilio fiscale e della residenza in Sardegna ovvero dell’essere o meno nato nell’isola. La Presidenza del Consiglio dei Ministri aveva presentato, all’indomani dell’emanazione, ricorso alla Corte Costituzionale. Il Consiglio della Regione Sardegna, nel tentativo di salvare la norma, aveva approvato, con l’art. 3 della legge regionale 29 maggio 2007 n. 2, alcune modifiche alle fattispecie previste dagli artt. 2, 3 e 4 della legge regionale 4/2006, istituendo, nel contempo, l’imposta di soggiorno. La Corte Costituzionale, investita della questione, con la sentenza n. 102 del 4 febbraio 2008 ha dichiarato l’incostituzionalità degli art. 2 e 3 della Legge 4/2006; con ordinanza n. 103 ha – prima volta nel sistema italiano – operato rinvio alla Corte di Giustizia ex art. 234 del Trattato CE, chiedendo alla Corte di pronunciarsi in via pregiudiziale sulla compatibilità dell’imposta con le norme del Trattato CE. Il giudice delle Leggi ha richiesto alla Corte di Giustizia di interpretare gli artt. 49 e 87 del Trattato, chiamati in causa dalla ricorrente, come elementi integrativi del parametro di cui al primo comma dell’art. 117 della Costituzione; era infatti necessario verificare la legittimità della norma censurata non solo in riferimento all’art. 117, primo comma, Cost., risultando imprescindibile la preventiva valutazione della sua conformità al diritto europeo. La Corte di Giustizia ha dichiarato l’illegittimità dell’imposta sarda sugli aeromobili e sulle unità da diporto in quanto aiuto di Stato contrario all’art. 87 n. 1 CE nei confronti delle imprese che svolgono la propria attività e hanno il domicilio fiscale all’interno della Regione; il significativo vantaggio fiscale per le imprese sarde era tale da alterare la libera concorrenza. La Corte ha altresì rimarcato che né la finalità di tutela ambientale né l’insularità possono essere ragioni valide a giustificare una limitazione della libertà di prestazione dei servizi, ammissibile solo per motivi di ordine, sicurezza o sanità pubblica.

Il tributo avrebbe dovuto configurarsi, nelle intenzioni del legislatore, come una rinnovata imposta di soggiorno, di cui sembrerebbe, per certi versi, condividere la ratio: infatti, le tradizionali imposte di tal genere – come ad esempio proprio quella istituita dalla stessa Regione Sardegna, con l’art. 5 della legge regionale n. 2/2007 – permettono agli enti locali di applicare un’imposta a carico delle persone non residenti che soggiornano nelle strutture alberghiere ed extra-alberghiere di un determinato territorio, al fine di far concorrere anche i turisti alle spese pubbliche che i residenti già finanziano attraverso una parte del proprio carico tributario. Il tributo regionale sugli scali aereo-portuali avrebbe potuto essere inquadrato come un prelievo teso a colpire una analoga manifestazione di capacità contributiva, selezionando i flussi turistici cui applicare il tributo in ragione delle modalità di ingresso dei visitatori sull’isola; ciò anche in considerazione del fatto che le imbarcazioni incise permettono il pernottamento dei passeggeri[54]. La Corte di Giustizia ha però rilevato che, anche volendo considerare legittimi i motivi invocati dalla Regione Sardegna quali fondamento dell’imposta regionale, gli stessi non possono giustificarne le modalità applicative, per l’oggettiva disparità di trattamento nei confronti degli esercenti aventi il domicilio fiscale fuori dal territorio regionale, unici debitori di tale imposta. Ciò in contrasto con la linea interpretativa della Corte, secondo cui a prescindere dall’esistenza di uno scopo legittimo che corrisponda a motivi imperativi di interesse generale, la giustificazione di una restrizione alle libertà fondamentali garantite dal Trattato CE presuppone che la misura in questione sia idonea a garantire il conseguimento dello scopo perseguito e non vada oltre quanto è necessario per il suo raggiungimento. Per la fattispecie in questione, dunque, “gli inquinamenti ambientali laddove siano causati da aeromobili privati e da unità da diporto che fanno scalo in Sardegna, si producono a prescindere dalla provenienza di detti aeromobili e unità da diporto e, in particolare, non presentano alcun legame con il domicilio fiscale degli esercenti degli stessi. Gli aeromobili e le imbarcazioni dei non residenti contribuiscono a danneggiare le risorse ambientali in maniera analoga agli aeromobili e alle unità da diporto dei residenti. Pertanto, la restrizione alla libera prestazione di servizi, quale essa risulta dalla normativa tributaria di cui trattasi nella causa principale, non può essere giustificata da motivi relativi alla tutela dell’ambiente in quanto l’applicazione dell’imposta regionale sullo scalo che essa istituisce si basa su una differenziazione tra le persone priva di relazione con detto obiettivo ambientale[55]“. Per alcune fattispecie è possibile un trattamento diverso tra non residenti e residenti, se si verifica l’esistenza di un’oggettiva diversità di situazioni: in caso contrario non è legittimata una disparità della norma tributaria per un preteso motivo ambientale a nessun livello di governo.


Note:

[1] CECCHETTI, La disciplina giuridica della tutela ambientale come “diritto dell’ambiente”, in www.federalismi.it, pag. 78.

[2] CECCHETTI, La disciplina giuridica della tutela ambientale come “diritto dell’ambiente”, cit.

[3]  A dimostrare il ruolo del riciclaggio per ridimensionare il “problema emissivo”, basterà qui ricordare che per ogni tonnellata sottratta all’incenerimento, si determinerebbe una riduzione dell’anidride carbonica scaricata in atmosfera di circa 2 tonnellate: vale a dire, raddoppiando il tasso di riciclaggio, le emissioni annue di CO2 si ridurrebbero, rispetto allo stato attuale, di circa 17,2 milioni di tonnellate.

[4]  Solo un quarantesimo degli scarichi oceanici a livello mondiale, ma tuttavia aggravato dalla vulnerabilità degli ambienti marini interessati, come i mari “chiusi” (il Mediterraneo e il Mar Nero, a sud, e il Mare Artico, a nord).

[5] CECCHETTI, La disciplina giuridica della tutela ambientale come “diritto dell’ambiente”, cit.

[6]  Si tratta di una plastica di tipo convenzionale alla quale si aggiungono additivi per rendere più rapida la frammentazione del materiale per effetto delle radiazioni ultraviolette o dell’esposizione al calore, dapprima in particelle e poi in micro-particelle, con caratteristiche simili a quelle delle “microplastiche”, introdotte sia per la realizzazione di rivestimenti che nella cosmesi.

[7] CECCHETTI, La disciplina giuridica della tutela ambientale come “diritto dell’ambiente”, cit.

[8] CECCHETTI, La disciplina giuridica della tutela ambientale come “diritto dell’ambiente”, cit.

[9] Art. 36 L. 15 novembre 2019.

[10] Muratori, Sì ai velocipedi, no ai mozziconi, a maggior gloria della green economy, in Foro.it, n. 4/2016, pag. 269,

[11] Divieto a suo tempo disposto dall’art. 6, comma 1, lett. p) del D.Lgs. n. 36/2003, per altro, finora più volte differito nella sua applicazione, e perciò, di fatto, mai concretamente entrato in vigore, col quale si intendeva inibire il conferimento in discarica di tutta una serie di tipologie di rifiuti, tra i quali, in primis, i rifiuti di plastica, e, insieme ad essi, anche quelli tessili, legnosi, cartacei, ecc.

[12] Dopo il ritiro di un analogo documento approvato l’anno prima, che aveva incassato molte critiche da parte degli organismi designati ad esprimersi.

[13] Muratori, Programma Nazionale Prevenzione Rifiuti: la montagna ha partorito il topolino?, in Foro.it, 1/2014, pag.13.

[14] Dir. 05-06-2019, n. 2019/904/UE.

[15] La Direttiva oggetto di analisi è frutto di un progetto ad ampio raggio delle Istituzioni delle Unione europee volto altresì alla riduzione dei rifiuti marini.

[16] Muratori, Prodotti in platica monouso: dalla Dir. 2019/907/UE, regole “circolari” contro la dispersione nell’ambiente, cit., 31.

[17] La materia della responsabilità estesa del produttore è stata peraltro modificata ed integrata dalla Dir. UE 2018/851 del 30 maggio 2018, che modifica la Dir. 2008/98/CE relativa ai rifiuti, in https://eur-lex.europa.eu, che ha altresì introdotto i “requisiti generali minimi”. Gli Stati membri devono così definire in maniera chiara i ruoli e le responsabilità di tutti gli attori coinvolti, a partire dai produttori, le fonti di finanziamento, l’individuazione dei costi, gli obiettivi e le modalità di controllo in relazione al raggiungimento degli stessi).

[18] Commissione Europea, 16 gennaio 2018, 268.

[19] La proposta della Commissione, contenuta nella comunicazione del 16 gennaio 2018, è stata accolta con favore dal Parlamento europeo, che ha altresì esortato la Commissione stessa a prendere in esame l’introduzione di requisiti relativi al contenuto riciclato minimo per specifici prodotti immessi sul mercato dell’Unione, nonché a proporre norme qualitative sulla plastica riciclata per rafforzare la fiducia ed incentivare il mercato della plastica secondaria. Viene inoltre richiesto di adottare norme che vietino l’uso di microplastica aggiunta intenzionalmente nei prodotti e della plastica oxo degradabile entro il 2020, di fissare requisiti minimi per ridurre in modo significativo il rilascio di microplastica alla fonte, in particolare per i tessuti, gli pneumatici, le vernici ed i mozziconi di sigaretta. Ved., in proposito, la relazione di Mark Demesmaeker, membro e relatore della commissione del Parlamento europeo competente per il merito, in EPRS – Servizio Ricerca del Parlamento europeo, riportata da Didier Bourguignon (Servizio di ricerca dei deputati), settembre 2018, in http://www.eprs.ep.parl.union.eu. La conclusione della relazione è nel senso che, sebbene la plastica biodegradabile e compostabile possa contribuire a sostenere la transazione verso un’economia circolare, essa non può essere considerata un rimedio contro i rifiuti marini, né dovrebbe legittimare applicazioni monouso non necessarie.

[20] Ved. proposta di Dir. 28 maggio 2018 COM(2018) 340 final che modifica la Dir. 2008/98/CE relativa ai rifiuti, afferente alla riduzione dei rifiuti di plastica monouso, in particolare, i contenitori per alimenti, le tazze per bevande, i bastoncini cotonati, le posate, i piatti, i mescolatori, le cannucce, le aste per palloncini, i palloncini, i pacchetti e gli involucri, i contenitori per bevande con i relativi tappi e coperchi, le bottiglie per bevande, i filtri di prodotti del tabacco, le salviettine umidificate, gli assorbenti igienici, i sacchetti in plastica in materiale leggero, gli attrezzi da pesca.

[21]  Al momento dell’introduzione dell’art. 226 quater, la specifica direttiva europea non era ancora stata emanata. Per questo, le azioni sono state previste in via volontaria.

[22] In tal senso è di rilievo approfondire le tematiche sulle politiche europee legate alla plastica attraverso l’analisi dei lavori del Parlamento e del Consiglio dell’Unione Europea, in http://www.politicheeuropee.gov.it/media/4666/eprs_bri-2018-625115_en.pdf. La Commissione ed il Parlamento europeo sulla base dei report dell’Agenzia europea dell’Ambiente hanno deciso di intraprendere una campagna e la formalizzazione di atti volti alla tutela dell’ambiente.

[23] Il principio di proporzionalità, di cui all’ art. 5 TFUE, regola l’esercizio delle competenze esercitate dall’Unione europea. L’azione dell’Unione europea deve quindi essere limitata e pertanto il contenuto e la forma dell’azione devono essere rapportate all’azione stessa. Più specificatamente, qualora si impongano determinati obblighi agli operatori economici e gli stessi abbiano a disposizione una pluralità di alternative adottabili appropriate, sarà necessario fare riferimento alla misura meno impegnativa ed altresì garantire che, gli oneri sostenuti, siano direttamente proporzionali agli obiettivi posti. Ad esempio, in materia di libera circolazione delle persone all’interno degli Stati membri, non possono essere applicate condizioni eccessivamente gravose per garantire l’applicazione della libertà di soggiorno né, tanto meno, devono essere previste sanzioni non proporzionate in caso di mancato rispetto delle formalità, che potrebbero ostacolare la libera circolazione.

[24]  L’adeguamento degli ordinamenti nazionali alle direttive dell’Unione europea è sicuramente una delle tematiche che ha posto problemi di varia natura: tra questi anche la teoria del risarcimento dei danni nei confronti di Paesi inadempienti da parte di singoli cittadini. La sentenza che ha espresso i principi cardine in tale senso è stata la Francovich procedimenti riuniti C-6/90 e C-9/90, in https://curia.europa.eu/jcms/jcms/Jo1_6308/. La Corte di Giustizia ha infatti ritenuto che dinanzi alla pretesa di attribuzione di diritti a favore dei singoli, il contenuto possa essere individuato sulla base della direttiva stessa e un nesso di casualità tra la violazione dell’obbligo ed il danno subito. Con specifico riferimento al caso italiano, si ritiene che l’inadempimento possa essere ricondotto alla disciplina dell’art. 2043 c.c. Nel dettaglio, la Corte aveva indicato che, per configurare un diritto al risarcimento, era necessaria la configurazione di tre elementi: il risultato sancito dalla direttiva doveva implicare l’attribuzione di diritti ai singoli, tali diritti dovevano essere individuabili con riferimento al testo della direttiva; la presenza del nesso di causalità tra la violazione dello Stato ed il danno subito dal soggetto leso. L’accertatamente del danno e la statuizione del nesso è quindi in capo al giudice nazionale. Il principio consolidato dalla Corte è riferibile non sono ad una titolarità in capo ai singoli Stati membri, bensì anche ai cittadini che sono soggetti all’ordinamento giuridico dell’Unione e, pertanto, titolari di diritti ed obblighi. Alla luce di quanto enunciato è pertanto possibile statuire che l’obbligo degli Stati membri, di dare attuazione alle direttive, sancito dal Trattato, è correlato al diritto dei singoli di vantare l’applicazione delle disposizioni comunitarie.
Ecco quindi che diviene di particolare rilievo il principio della diretta applicabilità del diritto dell’Unione europea, nonché del suo primato (per approfondimenti in tal senso v. sentenza del 15 luglio 1964, Costa c. Enel, in https://curia.europa.eu/jcms/jcms/Jo1_6308/. È possibile affermare che, ciò che differisce la sentenza Francovich rispetto a tutta la precedente giurisprudenza comunitaria è la determinazione della responsabilità dello Stato non sulla base del diritto interno, bensì rispetto a quanto sancito dalla normativa comunitario; gli ordinamenti nazionali devono esclusivamente interessarsi degli elementi procedurali. La sentenza statuisce l’esposizione dello Stato a pretese risarcitorie, da parte di un numero illimitato ed indeterminabile di beneficiari della normativa.

[25]  Cfr. Regione Sicilia, l’Assessorato del Territorio e dell’Ambiente, 6 dicembre 2018, Linee guida per la riduzione della plastica monouso nelle zone demaniali marittime – Direttiva Plastic free (COM2018-28 final) – circolare, in http://pti.regione.sicilia.it/portal/page/portal/PIR_PORTALE/PIR_Servizi/PIR_News?_piref857_3677299_857_3677298_3677298.strutsAction=%2Fnews.do&stepNews=det_news&idNews=198045406.

[26] Proposta di Dir. 28 maggio 2018 COM(2018) 340 final.

[27] art. 25 e seguenti del DL 179/2012.

[28] Cfr. art 1, comma 548, L. n. 205 del 27 dicembre 2017, che prevede la sanzione amministrativa pecuniaria del pagamento di un importo da 2.500 a 25.000 euro, che può essere aumentata fino al quadruplo del massimo se la violazione attiene ad una quantità ingente di cosmetici, oppure se il valore della merce supera il venti per cento del fatturato del trasgressore. Se il contravventore è recidivo, lo stesso può subire la sospensione dell’attività produttiva per un periodo non inferiore ad un anno.

[29] Ordinanza del T.A.R. Puglia, Bari, SS.UU., 30 luglio 2019, n. 315, in https://www.giustizia-amministrativa.it/dcsnprr; conforme T.A.R. Puglia, Bari, Sez. II, 23 luglio 2019, n. 1063, in https://www.giustizia-amministrativa.it/dcsnprr; cfr. altresì, ordinanza del T.A.R. Sicilia, Sez. I, 5 luglio 2019, n. 798, in https://www.giustizia-amministrativa.it/dcsnprr.

[30] Cfr. art. 117, comma 2, lett. e), Cost.

[31] Cfr. Corte cost. 2 dicembre 2013, n. 300, in https://www.cortecostituzionale.it/default.do, nella cui motivazione si dà conto che “la tutela dell’ambiente rientra nelle competenze legislative esclusive dello Stato e, pertanto, le disposizioni legislative statali, adottate in tale ambito, fungono da limite alla disciplina che le Regioni, anche a statuto speciale, dettano nei settori di loro competenza”; conformi: Corte cost. 12 aprile 2017, n. 77, Corte cost. 13 aprile 2016, n. 83, Corte cost. 26 novembre 2010, n. 341, Corte cost. 23 luglio 2009, n. 232, Corte cost. 26 luglio 2002, n. 407, in https://www.cortecostituzionale.it/default.do. In quest’ultima decisione, la Corte Costituzionale chiarisce peraltro che non tutti gli ambiti materiali specificati nel secondo comma dell’art. 117 Cost. possono, in quanto tali, configurarsi come “materie” in senso stretto, poiché, in alcuni casi, si tratta più esattamente di competenze del legislatore statale idonee ad investire una pluralità di materie. In questo senso, l’evoluzione legislativa e la giurisprudenza costituzionale portano ad escludere che possa identificarsi una materia in senso tecnico, qualificabile come “tutela dell’ambiente”, dal momento che non sembra configurabile come sfera di competenza statale rigorosamente circoscritta e delimitata, ma, al contrario, essa investe e si intreccia inestricabilmente con altri interessi e competenze.

[32] Tesauro, Diritto dell’Unione europea, 2012, 165 ss.

[33] Cfr. ordinanza del T.A.R. Puglia, Bari, SS.UU., 30 luglio 2019, n. 315, cit.

[34] Cfr. ordinanza del T.A.R. Sicilia, Palermo, Sez. I, 6 luglio 2019, n. 807, in https://www.giustizia-amministrativa.it/dcsnprr; cfr. altresì ordinanza del T.A.R. Sicilia, Palermo, Sez. I, 5 luglio 2019, n. 798, in https://www.giustizia-amministrativa.it/dcsnprr.

[35] Cfr. ordinanza del T.A.R. Abruzzo, Sez. I, 11 luglio 2019, n. 123, in https://www.giustizia-amministrativa.it/dcsnprr.

[36] 12a Conferenza delle Parti (COP12) della Convenzione sulla Diversità Biologica (CBD).

[37] http://www.ansa.it/europa/notizie/rubriche/ambienteenergia/2014/11/21/buste-plastica-passa-intesa-ue-ok-a-quasi-stop-entro-2025_5dffb238-1569-46b8-a1e8-f378440bf83d.html.

[38] CORTE DI GIUSTIZIA CE-UE, Staatssecretaris van Veiligheid en Justitie, – Sentenza 2 dicembre 2014, n. C-148/13.

[39] Documentazione per le Commissioni, esame di atti e documenti dell’Ue, n. 28, Condanna dell’Italia in materia di gestione di rifiuti e discariche, 16 dicembre 2014: http://documenti.camera.it/leg17/dossier/pdf/es028.pdf.

[40]  L’azione inquinante si traduce così in un costo aziendale, tanto più elevato, quanto maggiore è il danno producibile. Espresso, per la prima volta, dalla Dichiarazione sull’ambiente umano, approvata il 16 giugno 1972 dai Capi delle centodieci delegazioni partecipanti alla Conferenza dell’ONU tenutasi a Stoccolma, il principio del “chi inquina paga” ha ispirato l’evoluzione della disciplina comunitaria in materia ambientale, legittimando strumenti riparatori-risarcitori e prelievi commisurati agli effetti dell’inquinamento prodotto o agli esborsi da sopportarne per eliminare i predetti effetti. Sull’argomento si veda MELI, Le origini del principio “chi inquina paghi” ed il suo accoglimento da parte della comunità europea, in “Riv. giur. amb.”, 1989, pag. 217 ss.; ID., Il principio comunitario <chi inquina paga>, Milano, 1996, pag. 89. Evidenziano JMALHERBE-VAN VYVE, in Environmental taxation: the Belgian experience, in “Riv. dir. trib. int.”, 2005, pag. 61, “When a Member State or one of its subdivisions applies the polluter-pays-principle, the tax rate applied will depend from the answer to the question for what the polluter is paying. If the tax is meant to make the polluter bear the costs for the prevention and control of pollution, the tax could be aimed at merely recovering the specific, marginal costs of prevention and control. In that event, a less ambitious environmental objective will be attained. The tax rate can, however, be higher, on the ground that the complete behavior of the polluter should be corrected and that all costs of realizing a specific environmental objective should be recovered from the polluter (for e.g. the restoration of the whole environment)”. Si consultino, ancora, SELICATO, Imposizione fiscale e principio “chi inquina paga”, in “Rass. Trib.” n. 4/2005, pag. 1161, il quale ricorda che la prima formulazione del principio può essere fatta risalire alla raccomandazione OCSE C(72) 128 del 26/5/1972, secondo la quale all’inquinatore devono imputarsi i costi della prevenzione e delle azioni contro l’inquinamento al fine di mantenere l’ambiente in uno stato accettabile e che già nella legge francese n. 1245 del 16/12/1964 veniva espressa compiutamente la formula “chi inquina paghi e chi depura viene aiutato”. Così anche MARIOTTI-IANNANTUONI, Il nuovo diritto ambientale, Rimini, 2009, 74 secondo cui il principio del chi inquina paga affonda le proprie radici nella legge francese 16 dicembre 1964, n. 1245 con la quale si istituisce la agence financière de bassin.

[41] Nella Raccomandazione del 3 marzo 1975, n. 436, adottata di concerto tra CEE, CECA ed EURATOM, concernente l’imputazione dei costi e l’intervento dei pubblici poteri in materia di ambiente si stabilisce che “sia le Comunità europee a livello comunitario, sia gli Stati membri nelle loro legislazioni nazionali in materia di protezione dell’ambiente devono applicare il principio “chi inquina paga”, secondo il quale le persone fisiche o giuridiche, di diritto pubblico o privato, responsabili di inquinamento debbono sostenere i costi delle misure necessarie per evitare questo inquinamento o per ridurlo, al fine di rispettare le misure e le misure equivalenti che consentono di raggiungere gli obiettivi di qualità o, qualora non esistano i suddetti obiettivi, le norme e le misure equivalenti fissate dai pubblici poteri”. La Raccomandazione, poi, aggiunge: “in linea di massima, quindi, la protezione dell’ambiente non deve essere assicurata da politiche basate sulla concessione di aiuti e che addosserebbero alla collettività l’onere della lotta contro l’inquinamento”.

[42] Si veda la decisione n. 1386/2013/UE del Parlamento Europeo e del Consiglio del 20 novembre 2013 su un programma generale di azione dell’Unione in materia di ambiente fino al 2020 “Vivere bene entro i limiti del nostro pianeta”.

[43] Tesauro, Diritto dell’Unione europea, 2018, 170 ss.

[44]  Legge 19 dicembre 2019, n. 157 “Conversione in legge, con modificazioni, del decreto-legge 26 ottobre 2019, n. 124.

[45] Alfano, Tributi ambientali. Profili interni ed europei, Giappichelli, 2012, 152.

[46] Alfano, Tributi ambientali. Profili interni ed europei, cit., 160.

[47] Alfano, Tributi ambientali. Profili interni ed europei, cit., 161.

[48] Alfano, Tributi ambientali. Profili interni ed europei, cit., 163.

[49] Corte di Giustizia, 9 settembre 2004, Causa C-72/03, Carbonati Apuani Srl/Comune di Carrara in “Riv. dir. trib.”, n. 3/2005, III, pag. 57, con commento di ALFANO, Tasse di effetto equivalente e libera circolazione delle merci all’interno del territorio dello Stato membro; CARINCI, Autonomia tributaria delle Regioni e vincoli del Trattato dell’Unione Europea, in “Rass. trib.”, n. 4/2004, pag. 1228.

[50] CARINCI, Autonomia tributaria delle Regioni e vincoli del Trattato dell’Unione Europea, cit., pag. 1228 e la giurisprudenza ivi citata, fra cui Corte di Giustizia, 26 febbraio 1975, causa C-63/74, Cadsky, in “Racc.”, 1975, pag. 281, punto 8; Corte di Giustizia 15 dicembre 1993, cause riunite C-277/91, C-318/91 e C-319/91, LigurCarni in Racc., 1993, I – 06621, punto 31.

[51] La Tassa sul tubo, per molti aspetti, ha ricordato la prima imposta propria spagnola di carattere ambientale della Comunidad Autónoma delle Isole Baleari, l’Impuesto Balear sobre Instalaciones que Inciden en el Medio Ambiente, – I.B.I.I.M.A – che fu introdotta dal¬la legge n. 12 del 20 dicembre 1991. Il suo presupposto si sostanziava nella presenza sul territorio di stabilimenti siti nel territorio delle Baleari potenzialmente in grado di danneggiare l’ambiente quali oleodotti, gasdotti, torrette di telecomunicazione, cisterne per la conservazione di carburanti e combustibili solidi, liquidi o gassosi. Soggetto passivo era il titolare dello stabilimento, a qualunque titolo giuridico, tenuto al pagamento di una somma pari all’1 per cento del valore dell’immobile. Il gettito ricavato non era però destinato ad alcun fine specifico, sebbene l’esposizione dei motivi della legge facesse riferimento ad “un’imposta diretta alla compensazione, mediante l’internalizzazione dei costi derivati da determinate azioni che inquinino o modifichino negativamente l’ambiente nel territorio della Comunidad Autónoma delle Isole Baleari”. Dopo molteplici contestazioni dottrinarie la Corte Costituzionale, con sentenza n. 289/2000, ha dichiarato tale imposta illegittima, in quanto non gravava le attività contaminanti ma la mera titolarità degli elementi patrimoniali, senza reale attenzione per la concreta capacità contaminante; inoltre il legislatore non aveva mostrato nessuno strumento diretto ad stimolare le attività in grado di proteggere l’ambiente. P. HERRERA MOLINA, Los tributos con fines ambientales, Impuestos autonómicos sobre instalaciones contaminantes in AA.VV., Derecho del Medio Ambiente y Administración Local, Diputación de Barcelona-Civitas, Madrid, 1996, pag. 693; più specificamente GUERVÓS MAÍLLO, El Impuesto Balear sobre Instalaciones que Inciden en el Medio Ambiente, Marcial Pons, Madrid, 2000, che riferisce anche di figure affini all’I.B.I.I.M.A. negli ordinamenti francesi e tedeschi, sia precedenti sia successive.

[52] La questione fu sollevata sia in sede amministrativa, TAR Lombardia, sez. II, 24 gennaio 2003 n. 130, sia tributaria, Commissione Tributaria Provinciale di Palermo, Sez. I, 5 gennaio 2004 n. 1203 in “TributImpresa”, n. 3/2004, http://www.tributimpresa.it/, con nota di ALFANO, Applicabilità d’ufficio del diritto comunitario nel processo tributario (a proposito del tributo regionale sul passaggio del gas metano attraverso il territorio della Regione Sicilia): la Ctp aveva proceduto a dichiarare l’inapplicabilità del predetto art. 6, in quanto contrastante con i principi comunitari e a disapplicarlo.

[53] MARONGIU, Le tasse “Soru” e l’impatto con la Corte costituzionale , cit., pag. 568.

[54] A conferma che, almeno in parte, questa fosse l’intenzione del legislatore sardo si osserva che, qualora si fosse trattato di imbarcazioni che sostavano sull’isola tutto l’anno, non vi sarebbe stata applicazione del tributo.

[55] Corte di Giustizia, 17 novembre 2009, causa C-169/08, Presidente del Consiglio dei Ministri contro Regione Sardegna, in “Racc.”, 2009, I-10821, punti 44 e 45.

Avv. Martina Liaci

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