Stupefacenti: confermata la punibilità della condotta di abbia coltivato una piantagione di cannabis (Cass. pen., n. 43184/2013)

Redazione 22/10/13
Scarica PDF Stampa

Svolgimento del processo

1. Con la sentenza indicata in epigrafe, la Corte di Appello di Catanzaro ha riformato parzialmente la condanna pronunciata dal Giudice per le indagini preliminari presso il Tribunale di Catanzaro nei confronti di C.A. e T.R., giudicati responsabili di aver realizzato e coltivato una piantagione di cannabis sativa costituita da circa 290 piante. Il giudice di seconde cure, per contro, ha mandato assolti gli imputati per la coltivazione di un quantitativo superiore a gr. 289,75 di cannabis e, confermata la condanna limitatamente a tal ultimo quantitativo, riconosciuta l’attenuante di cui all’art. 73, comma 5 T.U. Stup.; ha ridotto la pena inflitta agli imputati a mesi dieci di reclusione ed Euro quattromila di multa ciascuno, e ridotto la pena inflitta dal Tribunale.

2. Ricorrono per cassazione gli imputati con separati atti dal medesimo tenore, sottoscritti dai rispettivi difensori.

Con un primo motivo si deduce violazione dell’art. 87, comma 2 T.U. Stup. Si premette che venne eseguita la campionatura delle piante cadute in sequestro senza dare previo avviso al difensore, diversamente da quanto imposto dall’art. 87 cit. Tanto determinò una nullità assoluta ed insanabile. La Corte di Appello ha sì convenuto con la dichiarazione della nullità pronunciata dal Tribunale ma ne ha dedotto che l’effetto è limitato alla capacità del campione di rappresentare il tutto, giungendo a ritenere utilizzabile come prova il reperto residuo limitatamente alla sua sola consistenza.

Per gli esponenti, all’inverso, “la violazione del diritto di difesa involge il tutto, residuo compreso”.

Con un secondo motivo si deduce mancanza o illogicità della motivazione in relazione alla valutazione fatta delle risultanze dell’accertamento peritale.

Questo aveva evidenziato la presenza di un principio attivo pari a mg. 186/191 (inteso come 186 + 191 mg.), che per la Corte territoriale può avere effetti stupefacenti, tenuto conto della diluizione della capacità drogante originaria dovuta al tempo trascorso prima della perizia e alle non perfette modalità di conservazione. Il giudice distrettuale, tuttavia, non ha tenuto conto che il perito medesimo aveva rilevato che le piante non erano probabilmente giunte a fioritura e che il processo di essiccamento non è stato adeguato. Per l’esponente ciò significa che non è possibile affermare quale sia stata la capacità stupefacente della sostanza in origine e quindi la diversa affermazione della Corte di Appello di sarebbe apodittica.

Inoltre, essendo il principio attivo pari allo 0,2%, esso risulta inferiore al massimo tabellare di 500 mg., e quindi legittimamente detenibile.

Motivi della decisione

3. I ricorsi sono infondati, nei termini di seguito precisati.

3.1. Va rammentato preliminarmente che, in caso di rinvenimento di una piantagione destinata alla produzione di sostanze stupefacenti, la polizia giudiziaria ben può limitare il sequestro ad alcune piante scelte a campione, procedendo contestualmente alla distruzione delle altre, e nella selezione delle piante da sottoporre al vincolo, non deve adottare le modalità previste dal D.P.R. n. 309 del 1990, art. 87, atteso che tale disposizione disciplina la campionatura dello stupefacente già oggetto di cautela reale e non l’estrazione preliminare alla sua apposizione (Sez. 4, n. 16097 del 21/01/2009 – dep. 16/04/2009, Varone e altro, Rv. 243635).

Nel caso che occupa è pacifico che la campionatura è stata eseguita solo successivamente al sequestro, con gli effetti che i giudici di merito hanno ritenuto. Il tema non costituisce più materia di discussione.

La questione posta dai ricorsi è piuttosto quella della portata della nullità della campionatura, inteso come atto del procedimento.

La soluzione argomentata dalla Corte di Appello è del tutto condivisibile.

Il primo giudice, dopo aver dichiarato la nullità della campionatura eseguita dagli operanti per violazione dell’art. 87 T.U. Stup., aveva ritenuto comunque accertata la responsabilità degli imputati per il delitto loro contestato (e quindi per la coltivazione di 290 piante di cannabis sativa), sulla scorta della descrizione dei fatti operata dai verbalizzanti, dei rilievi fotografici aventi ad oggetto la piantagione e del parere espresso da un agronomo, nominato ausiliario d p.g..

Per contro la Corte di Appello ha ritenuto che tali elementi non fossero sufficienti a dare dimostrazione della natura stupefacente delle piante, ancorchè idonei ad individuarne il tipo e, stante la nullità della campionatura, ha affermato che il materiale vegetale costituente il campione non potesse essere considerato quale parte di un tutto. Tuttavia, ha proseguito la Corte distrettuale, la quota di piante in sequestro non valevole come campione, vale comunque a costituire prova della coltivazione delle stesse; e richiamato l’esito dell’accertamento peritale eseguito, che ha evidenziato un peso lordo pari a gr. 289,75 ed un principio attivo pari allo 0,2%, per mg. 186/191 (quindi un totale di mg. 377), ha ritenuto integrato il reato contestato limitatamente a tale quota, tenendo altresì conto del processo di degradazione del principio attivo dovuto al tempo trascorso tra il sequestro e la perizia e le non perfette modalità di conservazione del reperto.

Orbene, poichè la nullità ha colpito l’atto di campionatura, è proprio tale atto che perde cittadinanza nell’ambito del giudizio;

come già affermato dai collegi territoriali. Pretendere di estendere la portata di tale nullità al reperto in quanto tale è del tutto arbitrario, perchè significherebbe far risalire gli effetti del vizio dall’atto di campionatura al sequestro, che invece è immune da difetti.

4. Quanto al secondo motivo di ricorso, mette conto rammentare che nel delitto di coltivazione l’offensività si atteggia in modo diverso rispetto a quanto non valga per il delitto di detenzione di sostanze stupefacenti.

Il delitto di coltivazione domestica risulta integrato dalla condotta di coltivazione, dalla quale esula la destinazione alla cessione a terzi del prodotto della coltivazione medesima. Il dato ponderale, che pure risulta valorizzabile ai fini dell’accertamento della finalità per la quale si detiene della sostanza stupefacente, non assume quindi il medesimo valore all’interno della diversa ipotesi di coltivazione.

Tuttavia, la circostanza che anche la coltivazione risulta punibile sempre che la condotta risulti offensiva in concreto del bene giuridico tutelato implica la non irrilevanza del dato ponderale, dal momento che esso può dare indicazioni sulla offensività o meno della condotta oggetto del giudizio.

Ed invero, la giurisprudenza di legittimità ha più volte precisato che “Ai fini della punibilità della coltivazione non autorizzata di piante dalle quali sono estraibili sostanze stupefacenti, spetta al giudice verificare in concreto l’offensività della condotta ovvero l’idoneità della sostanza ricavata a produrre un effetto drogante rilevabile” (Sez. U, n. 28605 del 24/04/2008, Di ******, Rv. 239921; Sez. U. 24/4/2008, Valletta; Sez. 4, n. 1222 del 28/10/2008, *********, Rv. 242371; Sez. 4, n. 25674 del 17/02/2011, P.G. in proc. ******, Rv. 250721).

Le Sez. Un. (*********) insegnano che “la condotta è inoffensiva soltanto se il bene tutelato non è stato leso o messo in pericolo anche in grado minimo (irrilevante, infatti, è a tal fine il grado dell’offesa), sicchè, con riferimento allo specifico caso in esame, la offensività non ricorre soltanto se la sostanza ricavabile dalla coltivazione non è idonea a produrre un effetto stupefacente in concreto rilevabile”.

Quanto al parametro al quale va fatto riferimento a tal scopo, appare corretto il principio di diritto posto da altra decisione di questa sezione, secondo la quale il decreto ministeriale 2006 ha l’unica finalità di definire, ai sensi del D.P.R. n. 309 del 1990, art. 73, comma 1 bis, soglie quantitative che possono indurre a ritenere, eventualmente in accordo con altre acquisizioni, che la detenzione delle sostanze stupefacenti sia finalizzata ad uso esclusivamente personale. Per quel che qui interessa ciò significa che “la disciplina ministeriale, attese le sue finalità, individua la dose media con riferimento al principio attivo per singola assunzione idonea a produrre in un soggetto tollerante e dipendente un effetto stupefacente e psicotropo. Tale dose media costituisce a sua volta la base per la definizione della dose media giornaliera. La disciplina, dunque, essendo finalizzata ad individuare i bisogni medi di un soggetto assuefatto, non esclude affatto che dosi inferiori a quella media siano prive di rilievo penale. Si deve infatti considerare anche l’effetto drogante nei confronti di soggetti non dipendenti, che può essere evidentemente prodotto da dosi inferiori a quella media di cui si discute”.

Inoltre, se l’inidoneità dell’azione, relativamente alle fattispecie previste dal D.P.R. n. 309 del 1990, art. 73, va valutata unicamente avuto riguardo ai beni oggetto della tutela penale, individuabili in quelli della salute pubblica, della sicurezza e dell’ordine pubblico e della salvaguardia delle giovani generazioni, beni che sono messi in pericolo anche dallo spaccio di dosi contenenti un principio attivo al di sotto della soglia drogante (Sez. un. 24/06/1998 Rv. 211073), la configurazione della tipicità oggettiva non può comunque prescindere del tutto dalla considerazione della farmacologia attitudine delle diverse sostanze a produrre i loro effetti caratteristici. L’art. 14 T.U. Stup. richiama l’azione “narcotico-analgesica” dell’oppio e degli oppioidi; l’”azione eccitante” della coca; l’azione “eccitante sul sistema nervoso centrale” degli anfetaminici; “ogni altra sostanza che produca effetti sul sistema nervoso centrale ed abbia capacità di determinare dipendenza fisica o psichica dello stesso ordine o di ordine superiore”; la cannabis con i suoi effetti tipici ed “ogni altra pianta i cui principi attivi possono provocare allucinazioni o gravi distorsioni sensoriali”.

Lo stesso richiamato decreto ministeriale del 2006 fa riferimento al “potere di indurre alterazioni comportamentali e scadimento delle capacità psicotrope”. In conseguenza, una configurazione dell’incriminazione in una guisa che prescindesse del tutto dal concreto effetto psicotropo finirebbe con il cancellarle il tratto più tipico della fattispecie, connesso, appunto, alla concreta attitudine ad influenzare in qualche (anche lieve) misura l’attività neuropsichica del consumatore.

Pertanto, e conclusivamente, la condotta è “inoffensiva” soltanto se essa è priva della concreta attitudine ad esercitare, anche in misura assai limitata, minima, l’effetto psicotropo evocato dal già richiamato D.P.R., art. 14. Esulano, quindi, dalla sfera dell’illecito solo le condotte afferenti a quantitativi di stupefacente talmente tenui, quanto alla presenza del principio attivo, da non poter indurre, neppure in misura trascurabile, la modificazione dell’assetto neuropsichico dell’utilizzatore; per converso, anche dosi inferiori a quella media singola ben possono configurare il delitto in esame (Sez. 4, n. 21814 del 12/05/2010, *****, Rv. 247478). Tali conclusioni confutano il risalente orientamento, cui si richiama il ricorrente, per il quale “in materia di coltivazione non autorizzata di piante stupefacenti, una volta accertata l’idoneità di una pianta a produrre il tetraidrocannabinolo (thc) che è l’elemento produttivo degli effetti psicotropi, essa deve essere considerata, agli effetti finali, alla stessa stregua di una “cannabis indica”, a nulla rilevando la sua particolare, diversa denominazione, e la maggiore o minore concentrazione di principio attivo, purchè non inferiore allo 0,5 per cento. (Sez. 6, n. 16648 del 20/10/1989, ********, Rv. 182682).

5. Nel caso che occupa l’accertamento tecnico ha stabilito che le piante esaminate permettevano di ricavare mg. 377 mg. di principio attivo; non vi è quindi alcun dubbio in ordine alla capacità del quantitativo presente nel materiale vegetale mantenuto in sequestro di produrre gli effetti di alterazione neuropsichica sopra descritta.

Ciò rende irrilevante ogni ulteriore considerazione in ordine alle implicazioni dell’effetto di decadimento dell’originaria capacità drogante. La sentenza impugnata è pertanto immune da censure.

6. Segue al rigetto, a norma dell’art. 616 c.p.p., la condanna dei ricorrenti al pagamento delle spese del procedimento.

P.Q.M.

Rigetta i ricorsi e condanna i ricorrenti al pagamento delle spese processuali.

Così deciso in Roma, nella Camera di Consiglio, il 20 settembre 2013.

Redazione