Falso ideologico: sussiste se in atto pubblico si dichiara di avere requisiti morali pur se falliti (Cass. pen., n. 47085/2013)

Redazione 26/11/13
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Svolgimento del processo

1. Con sentenza in data 13 novembre 2012 la Corte d’Appello di Palermo, confermando la decisione assunta dal locale Tribunale, ha riconosciuto F.G. responsabile del delitto di falsità ideologica commessa da privato in atto pubblico per avere falsamente attestato, nella dichiarazione sostitutiva di atto notorio presentata al Comune di Palermo, di essere in possesso dei requisiti morali di cui al D.Lgs. n. 114 del 1998, art. 5, commi 2 e 5, mentre in realtà era stato dichiarato fallito.

1.1. Ha ritenuto quel collegio che non fosse venuta meno l’illiceità del fatto solo per essere stata abrogata la norma che rendeva la dichiarazione di fallimento ostativa all’esercizio del commercio, dal momento che all’epoca del fatto quel requisito morale era richiesto dalle leggi vigenti.

2. Ha proposto ricorso per cassazione l’imputato, per il tramite del difensore, in base a un solo motivo. Con esso sostiene che l’intervenuta abrogazione della norma che prevedeva la dichiarazione sostitutiva ha privato il fatto di rilevanza penale, secondo il disposto dell’art. 2, comma 2, del testo legislativo che il ricorrente indica nella Costituzione (mentre il riferimento appropriato deve intendersi fatto al codice penale).
Motivi della decisione

1. Il ricorso è privo di fondamento e va disatteso.

2. L’art. 2 c.p., comma 2 così, testualmente, dispone: “Nessuno può essere punito per un fatto che, secondo la legge posteriore, non costituisce reato; e, se vi è stata condanna, ne cessano l’esecuzione e gli effetti penali”.

2.1. Per una corretta applicazione della disposizione, occorre domandarsi quale sia il fatto preso in osservazione dalla norma incriminatrice che, nel caso di cui ci si occupa, è l’art. 483 cod. pen.. La risposta si trae agevolmente dall’esame del modello descrittivo, che riguarda l’ipotesi di falsità commessa nell’attestare ad un pubblico ufficiale, in un atto pubblico, fatti dei quali l’atto è destinato a provare la verità. Più precisamente, la riconducibilità alla norma in questione del fatto ascritto al F. discende dalla equiparazione alle dichiarazioni fatte a un pubblico ufficiale di quelle rese ai sensi del D.P.R. 28 dicembre 2000, n. 445, artt. 46 e 47, in virtù di quanto disposto dall’art. 76, comma 3, dello stesso decreto.

2.2. Orbene, le disposizioni legislative fin qui citate non sono state abrogate, nè hanno subito alcuna modificazione nel tempo intercorso fra la consumazione del fatto per cui si procede (12 dicembre 2005) e la data odierna; è soltanto venuto meno l’onere di attestare il possesso dei requisiti morali per l’esercizio di attività commerciale, precedentemente richiesto dalla L.R. 22 dicembre 1999, n. 28, art. 3, comma 2; ma tale modifica del regime giuridico investe soltanto il movente dell’azione illecita compiuta dall’imputato, mentre per nulla impinge negli elementi costitutivi del reato ascrittogli.

2.3. Del resto questa Corte Suprema si è già espressa in senso conforme (Sez. 5, n. 23224 del 14/04/2003, ******, Rv. 224930), enunciando il principio secondo cui, ai fini della configurabilità del reato di falso ideologico commesso da privato in atto pubblico, non è necessario che esista una norma giuridica che con riferimento al contenuto obblighi il privato a possedere i requisiti dichiarati, ma è sufficiente che il suddetto atto precostituito per la prova del fatto attestato abbia un contenuto non veritiero (fattispecie in cui anche dopo l’abrogazione, avvenuta con L. 26 giugno 1996, n. 507, dell’obbligo di presentare dichiarazione sostitutiva dell’atto di notorietà per ottenere le iscrizioni necessarie ad esercitare l’attività di autocarrozzeria, attestante il possesso di attrezzature occorrenti per l’attività di autoriparazione, è stato ritenuto che l’atto contenente la falsa attestazione costituisca il reato di cui all’art. 483 cod. pen. in quanto la legge sopra richiamata non ha inciso ne1 sulla norma penale nè su norme extrapenali costituenti presupposto di quella penale).

3. Al rigetto del ricorso consegue la condanna del ricorrente al pagamento delle spese processuali.

P.Q.M.

Rigetta il ricorso e condanna il ricorrente al pagamento delle spese processuali.

Così deciso in Roma, il 11 giugno 2013.

Redazione