Corte di Cassazione Penale Sezione Feriale 11/9/2008 n. 35107; Pres. Pizzuti G.

Redazione 11/09/08
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FATTO E DIRITTO

Con l’ordinanza in epigrafe il GIP presso il Tribunale di Lecce ha applicato la misura cautelare delta custodia in carcere, per quanto qui rileva, nei confronti di B.A., B.V. e M.E., indagati per i seguenti reati: associazione di tipo mafioso, detenzione e porto di armi, associazione finalizzata al traffico di sostanze stupefacenti, plurimi episodi di detenzione e spaccio di sostanze stupefacenti, associazione finalizzata al contrabbando di tabacchi lavorati esteri.

Avverso la citata ordinanza gli indagati sopra indicati propongono separati ricorsi per cassazione per saltum, qui riuniti, con provvedimento adottato in udienza, per identità di contenuto.

Con il primo motivo, sul rilievo che nei confronti dei ricorrenti non sarebbe risultata alcuna iscrizione ai sensi dell’art. 335 c.p.p. per i reati di associazione mafiosa, detenzione e porto di armi, associazione finalizzata al contrabbando, se ne deduce da ciò che sarebbe derivata l’improcedibilità di qualsiasi indagine e di qualsiasi iniziativa del PM, con la conseguenza che ogni risultato eventualmente prodotto da indagini illegittime dovrebbe essere considerato tamquam non esset.

Si sostiene che il dedotto vizio dovrebbe avere un diverso trattamento rispetto alla ipotesi della omessa o tardiva iscrizione del nominativo dell’indagato sul registro delle notizie di reato, in ordine alla quale ultima situazione solamente potrebbe invocarsi l’orientamento giurisprudenziale che esclude la sanzione dell’inutilizzabilità delle indagini e afferma la decorrenza del relativo termine dal momento dell’effettiva, pur tardiva, iscrizione del nominativo.

Secondo il difensore, invece, nella fattispecie proposta, conseguirebbe che la richiesta del PM di applicazione della misura custodiate e la conseguente ordinanza impositiva presenterebbero profili di illegittimità e di abnormità, perchè sarebbero elusive dei principi fondamentali in materia cautelare di cui agli artt. 273 e 274 c.p.p., che presuppongono la previa assunzione della qualità di indagato.

In ogni caso, si soggiunge, anche a non voler accedere a tale tesi, si dovrebbe far retroagire l’iscrizione mancante al momento in cui sarebbero state disposte le prime intercettazioni ambientali relative ai reati asseritamene non iscritti, con l’effetto, nel caso di specie, dell’inutilizzabilità degli atti di indagine compiuti oltre i termini di legge rispetto a tale data così convenzionalmente determinata.

Con altro motivo, si deduce l’inosservanza dell’art. 271 c.p.p., in relazione all’art. 268 c.p.p., comma 3, sul rilievo che i gravi indizi di colpevolezza erano stati desunti unicamente dalle intercettazioni telefoniche che erano state effettuate con l’impiego di impianti esterni facendo riferimento "agli eccezionali motivi di urgenza connessi alle modalità tecniche di esecuzione dei provvedimento", ma, si argomenta, senza adeguatamente spiegare le ragioni della eccezionale urgenza, tenuto conto della indicazione, contenuta nel provvedimento autorizzatorio del PM, in forza della quale la decorrenza del termine di durata delle operazioni doveva essere calcolata dal momento in cui le condizioni tecniche ne avessero reso possibile l’inizio.

Nello specifico, poi, con riferimento al decreto n. 582 del 2004 e Decreto n. 841 del 2005 proprio il ritardato effettivo svolgersi delle operazioni di intercettazione evidenziava l’insussistenza delle eccezionali ragioni di urgenza e l’evidente elusione di qualsivoglia meccanismo di proroga delle operazioni.

Sotto altro profilo, con riferimento al decreto n. 654 del 2004, Decreto n. 933 del 2005, Decreto n. 582 del 2004, Decreto n. 841 del 2005, ci si duole che al noleggio di attrezzature private non aveva fatto seguito alcun provvedimento autorizzativo del PM e che le operazioni erano quindi avvenute al di fuori del controllo degli organi di PG. Ci si lamenta, inoltre, della violazione di legge per mancanza di motivazione in ordine alla sussistenza dei gravi indizi per il delitto associativo di cui al D.P.R. n. 309 del 1990, art. 74, che si sarebbe risolta, dopo il rinvio alle argomentazioni sviluppate a supporto dell’affermata esistenza dell’associazione di tipo mafioso, in una motivazione apparente sostanziatasi solo nel riferimento alle trascrizioni delle intercettazioni relative ai reati fine riscontrati, e ciò con una evidente confusione dei diversi presupposti fra associazione di tipo mafioso e associazione finalizzata al traffico di sostanze stupefacenti e con un illogico e vietato automatismo tra i singoli episodi di detenzione ai fini di spaccio di sostanze stupefacenti e l’ipotesi associativa di cui al D.P.R. n. 309 del 1990, art. 74.

Analoga censura viene svolta con riferimento al reato di associazione a delinquere finalizzata al contrabbando di tabacchi lavorati esteri, per il quale il GIP si sarebbe limitato oltre alla semplice trascrizione del capo di accusa, a richiamare, in merito al profilo organizzativo, quanto esposto in precedenza, senza giustificare le specifiche esigenze cautelari e gli indizi che giustificavano in concreto la misura disposta.

Si deduce, infine, una indebita duplicazione dei capi 48 e 51 contestati al B.A. in concorso con altro ed aventi ad oggetto entrambi l’introduzione, la vendita, il trasporto, l’acquisto e/o la detenzione di un quantitativo di tabacco lavorato estero superiore ai 10 KG. I ricorsi non sono fondati.

Il primo motivo è, innanzitutto, inammissibile, non essendo stato allegato estratto del registro ex art. 335 c.p.p.. Non può certo la Corte provvedere, tra l’altro, ad una verifica di tutti gli atti di indagine onde apprezzare l’insorgenza del fumus dei reati che si assumono non iscritti, ai fini della pretesa declaratoria di inutilizzabilità.

Nè certo può essere satisfattiva la generica indicazione del difensore che, del resto, nel corpo dello stesso motivo di doglianza, a volte sembra limitarne la valenza al solo B.A. e, poi, estende la censura anche alla posizione dei coindagati.

La doglianza è, comunque, infondata.

Non è controversa perchè il ricorrente non solo non se ne duole, ma vi argomenta proprio la censura per i restanti reati l’iscrizione per i reati di cui al D.P.R. n. 309 del 1990, artt. 73 e 74, ma, in ogni caso, l’eventuale omessa iscrizione per talune ulteriori fattispecie che siano emerse a volerla ammettere, non è foriera di effetti quanto alla utilizzabilità degli elementi di indagine, residuando solo profili di possibile rilevanza disciplinare a carico del magistrato o del personale che abbia omesso, in ipotesi, di integrare le iscrizioni sul registro (v., sotto tale ultimo profilo, ex pluribus, Sezione 2, 17 febbraio 2004, ******* ed altro, dove si sottolinea infatti che II termine di durata delle indagini preliminari decorre dalla "effettiva" iscrizione del nome dell’indagato nell’apposito registro previsto dall’art. 335 c.p.p., e non dalla data nella quale il pubblico ministero "avrebbe dovuto iscriverlo"; mentre il ritardo del pubblico ministero nell’iscrizione può semmai essere censurabile sotto altri profili, ma non pregiudica in alcuna misura le attività di indagine nel frattempo ritualmente compiute).

Non può certo accedersi ad una soluzione interpretativa diversa, a seconda che la mancata o tardiva iscrizione riguardi il nominativo di un indagato ovvero ("indicazione di uno più reati oggetto di investigazione, giacchè trattasi di situazioni concettualmente sovrapponibili, onde anche per quella che qui si prospetta valgono le considerazioni sopra ricordate.

Nè del resto possono essere invocate l’inutilizzabilità e/o la nullità degli atti di indagine perchè entrambe queste sanzioni processuali non sono previste dalla legge.

Dovendosi, poi, escludere, la prospettata abnormità non è chiaro se ipotizzata come funzionale o strutturale.

Come si è noto, la nozione di provvedimento "abnorme", come tale censurabile con il ricorso in sede di legittimità, costituisce una categoria concettuale di costruzione giurisprudenziale, in forza della quale la Cassazione, pur a fronte delle regole generali della tipicità e tassatività dei casi di nullità (art. 177 c.p.p.) e dei mezzi di impugnazione (art. 568 c.p.p., comma 1), consente di rimuovere quel provvedimento giudiziario che risulti affetto da vizi in procedendo o in iudicando, assolutamente imprevedibili per il legislatore (che quindi non avrebbe potuto prevederli e regolamentarli, sanzionandoli a pena di nullità), che ne minano alla base la "struttura" o la "funzione". Sotto il primo profilo, dovendosi considerare abnorme il provvedimento giudiziale che, per la singolarità e stranezza del contenuto, risulti avulso dall’intero ordinamento processuale (cosiddetta "abnormità strutturale"); sotto il secondo profilo, dovendosi considerare tale il provvedimento che, pur essendo in astratto manifestazione di legittimo potere dell’organo che lo ha prodotto, si esplichi al di fuori dei casi consentiti e delle ipotesi previste, al di là di ogni ragionevole limite, sì da determinare una stasi irrimediabile del processo con conseguente impossibilità di proseguirlo, ovvero un’inammissibile regressione ad una fase ormai esaurita (cosiddetta "abnormità funzionale").

In entrambi i casi, si sostiene, la rimozione dalla realtà giuridica non può che passare attraverso la denuncia dell’abnormità davanti al giudice di legittimità: in particolare, poichè proprio l’atipicità del vizio non consentirebbe il ricorso ad uno specifico e predeterminato mezzo di gravame, l’esigenza di giustizia può essere appagata, ai sensi dell’art. 111 Cost., mediante il ricorso immediato per cassazione per violazione di legge.

Or bene, qui dell’abnormità non ricorrono i presupposti, giacchè trattasi di nozione che non può servire per farvi rientrare tutte indistintamente le irregolarità processuali non sanzionate con la nullità o l’inutilizzabilità, ma solo i provvedimenti che risultino o al di fuori del sistema processuale ciò che non può dirsi a proposito di un’omessa o tardiva iscrizione sul registro, che costituisce, come detto, un’irregolarità foriera essenzialmente di responsabilità disciplinare a carico di chi l’ha commessa o che determino una paralisi dell’attività ciò che analogamente qui non può ritenersi, nè, del resto, si è concretamente verificato, giacchè l’iter del procedimento ha a tal punto avuto il suo corso che qui si discute proprio del provvedimento de libertate che si denuncia come abnormemente adottato.

Anche il motivo riguardante la ritenuta assenza di adeguata motivazione circa le eccezionali ragioni di urgenza legittimanti l’impiego di attrezzature diverse da quelle installate presso la Procura della Repubblica è infondato.

Infatti, è affermazione ormai pacifica (v. in tal senso, Sezione 6, 11 dicembre 2007, ****** ed altri) che la sussistenza delle eccezionali ragioni di urgenza richieste dall’art. 268 c.p.p., comma 3, per l’esecuzione delle operazioni di intercettazione mediante l’impiego di apparecchiature diverse da quelle installate presso gli uffici della Procura della Repubblica, può desumersi finanche implicitamente dallo stesso contesto del processo e dalla natura delle imputazioni.

In altri termini, la motivazione sull’esistenza delle eccezionali ragioni di urgenza può anche essere implicita, quando si faccia riferimento ad un’attività criminosa in corso (ciò che si verifica, come nel caso che qui interessa attesa la natura delle contestazioni, nell’ambito dei reati di criminalità organizzata, per la loro natura permanente) (cfr., ancora, Sezione 2, 19 maggio 2006, ************ ed altri).

Ed è esattamente quanto avvenuto nella fattispecie, in cui il PM ha espressamente dato atto come le ragioni di urgenza fossero correlate alle modalità tecniche di esecuzione del provvedimento, in considerazione evidentemente della permanenza del reato associativo per il quale si procedeva e dell’esigenza di conoscenza ed accertamenti tempestivi di condotte criminali attuali, ciò anche al fine di impedirne eventuali sviluppi ed ulteriori conseguenze.

Mentre non può condividersi l’assunto difensivo che vorrebbe ipotizzare una sostanziale incompatibilità tra le ragioni di urgenza e la decorrenza del termine di durata delle intercettazioni dal momento in cui le condizioni tecniche avrebbero reso possibile l’inizio effettivo delle operazioni.

Il provvedimento del PM, letto nel significato proprio, lungi dal rappresentare una contraddizione in termini tra l’urgenza e la modalità esecutiva, si è limitato alla ovvia indicazione del resto superflua della decorrenza del termine di durata delle operazioni dal momento in cui questa fossero iniziate. Momento che ben poteva essere immediato e prossimo e non necessariamente (come rivelatosi ex post) temporalmente non contiguo.

Ma, in ogni caso, gli eventuali ritardi intervenuti nell’attivazione delle intercettazioni, non possono influire sulla validità e l’utilizzabilità delle intercettazioni, perchè, afferendo la fase esecutiva, sono inidonei a dimostrare ex post il difetto del requisito dell’urgenza che va apprezzato avendo riferimento al momento dell’autorizzazione (cfr Sezione 6, 16 giugno 2005, *******).

Infondata è anche la doglianza in merito alla mancanza dell’autorizzazione all’uso di impianti privati.

Secondo la giurisprudenza consolidata di questa Corte in tema di intercettazioni di conversazioni o comunicazioni e di utilizzazione di impianti diversi da quelli installati nella procura della Repubblica (Sezioni unite, 29 novembre 2005 – Campennì), l’autorizzazione del pubblico ministero ai sensi dell’art. 268 c.p.p., comma 3, ad eseguire le operazioni con impianti "in dotazione alla polizia giudiziaria" deve ritenersi onnicomprensivo di qualsiasi concreta disponibilità, ivi compreso l’utilizzo di strumenti presi a noleggio. Ciò in quanto, ai fini che interessano, deve considerarsi impianto "in dotazione alla polizia giudiziaria, qualsiasi apparecchiatura della quale la stessa abbia la disponibilità presso i propri uffici, a prescindere dallo strumento contrattuale all’uopo utilizzato per conseguire tale disponibilità: la norma, infatti, non si occupa dello strumento giuridico in virtù del quale l’organo di polizia giudiziaria acquisisca tale dotazione, ma mira solo a tutelare la fondamentale esigenza che terzi estranei a tali impianti non possano accedervi.

In tal senso è stato, altresì, sottolineato (v. Sezione 6, 5 ottobre 2005, ******** ed altri), che l’osservanza della regola ordinaria di esecuzione delle intercettazioni, in forza della quale le relative operazioni devono essere compiute per mezzo degli impianti installati nella procura della Repubblica, è assicurata ogni qualvolta dette operazioni si svolgano nell’ufficio giudiziario, a nulla rilevando l’eventualità che le apparecchiature utilizzate siano state acquisite per l’occasione, anche mediante noleggio, presso imprese private. In tale evenienza, pertanto, il pubblico ministero non è tenuto a provvedere ai sensi dell’art. 268 c.p.p., comma 3, ultima parte, perchè comunque gli apparecchi sono installati presso la procura.

In definitiva, vuoi che le operazioni siano svolte presso la polizia giudiziaria o comunque non presso gli uffici della procura della Repubblica ex art. 268 c.p.p., comma 3, vuoi che siano svolte negli uffici della procura, del tutto irrilevante è la proprietà degli apparecchi e il titolo in forza dei quali questi sono utilizzati.

Trattasi di questione di nessun interesse processuale, che riveste valenza solo economico-contabile.

Infondata è la censura con la quale si deduce la mancanza di motivazione quanto ai delitto associativo D.P.R. n. 309 del 1990, ex art. 74, che si sostiene semplicisticamente risolta attraverso il rinvio alla motivazione resa sulla fattispecie di cui all’art. 416 bis c.p..

La decisione de libertate oggetto di impugnazione, per non qualificandosi per un particolare approfondimento in ordine ai tratti distintivi delle diverse fattispecie in contestazione, ha una motivazione che regge il vaglio di legittimità.

Ciò perchè si caratterizza per un’ampia ed esaustiva motivazione sulla fattispecie di tipo mafioso, che il difensore neppure contesta, e per una non erronea applicazione dei principi che presiedono all’esatto discrimine delle fattispecie associative in contestazione.

Non va del resto trascurato di considerare che, vertendosi in tema di ricorso per saltum, il difetto di motivazione può rilevare solo se si sostanzia in una carenza assoluta di motivazione o nella rappresentazione di un’erronea applicazione di norme di legge.

In particolare, per quanto riguarda il D.P.R. n. 309 del 1990, art. 74, nella parte motiva, viene satisfattivamente spiegato il tratto qualificante rappresentato dalla commissione di reati in materia di sostanze stupefacenti, che ben possono essere commessi anche da soggetti associati ex art. 416 bis c.p., conseguendone, in tal caso, il concorso di reati.

Nella richiamata parte motiva dell’ordinanza si sottolineano, in particolare, gli elementi in funzione dei quali i diversi reatifine, oggetto di contestazione, sono valorizzati come dimostrativi di una struttura associativa, del resto, ampiamente dimostrata, come sopra esposto, in occasione della valorizzazione degli elementi indiziari propri dell’associazione mafiosa.

Ciò è sufficiente, ove si consideri che dal punto di vista strutturale ciò che distingue l’associazione ex art. 74 è solo la specificità dei reati fine perseguiti. Mentre, sotto il profilo dell’apprezzamento della organizzazione criminosa, sono satisfattive le considerazioni spese sull’associazione mafiosa.

Analogo discorso deve farsi per il reato di associazione a delinquere finalizzata al contrabbando di tabacchi lavorati esteri.

Premesso l’elemento specializzante di tale reato è anche stavolta costituito dalla specificità dei reati-fine, onde per il resto è sufficiente il rinvio operato per relationem a quanto sviluppato sull’apparato strutturale dell’associazione mafiosa, ai fini della sussistenza dei reati fine e della loro valenza dimostrativa della sussistenza dell’associazione appare sufficiente in questa sede il richiamo che il giudice della misura fa ad alcuni colloqui telefonici, in cui è esplicito è il riferimento alle "stecche" ed all’illecito commercio, ai fini della contestazione di specifici episodi di contrabbando, che valgono per dimostrare la fattispecie associativa.

La valorizzazione del contenuto di tali intercettazioni, nella prospettiva della ritenuta sussistenza della fattispecie associativa, va logicamente letta, nell’economia dell’ordinanza de libertate, unitamente alla diffusa motivazione sull’apparato strutturale di cui si è detto.

A ciò dovendosi aggiungere, del resto, che, secondo pacifico assunto, le valutazioni effettuate dal giudice di merito sul contenuto delle comunicazioni intercettate qui, sotto il profilo della valorizzazione a supporto della fattispecie associativa sono censurabili in sede di legittimità solo quando si fondino su criteri interpretativi inaccettabili ovvero quando applichino scorrettamente tali criteri. Infatti, l’interpretazione del linguaggio e del contenuto delle conversazioni costituisce una questione di fatto, rimessa alla valutazione del giudice di merito, e si sottrae al sindacato se sorretta da adeguata motivazione, dovendosi comunque escludere che alla Corte di cassazione, nel momento del controllo di legittimità, competa di stabilire se la decisione di merito proponga effettivamente la migliore possibile ricostruzione dei fatti, giacchè la Corte deve piuttosto limitarsi a verificare se la spiegazione offerta dal giudice di merito sia compatibile con il senso comune e con i limiti di una plausibile opinabilità di apprezzamento (ex pluribus, Sezione 5, 13 dicembre 2006, As Khaled ed altri).

Quanto alla erronea duplicazione del capo di accusa contenuto nel capo 51, contestato a B.A., in concorso con altro, trattasi, all’evidenza, di una erronea contestazione sotto capi differenti di un’unica condotta criminosa, derivandone l’assorbimento del capo 51 nel capo 48. Di ciò terrà conto il giudice di merito, vertendosi in tema di evidente errore materiale, che non conduce certo all’annullamento in parte qua della misura.

Al rigetto dei ricorsi consegue la condanna dei ricorrenti in solido al pagamento delle spese processuali.

P.Q.M.

rigetta i ricorsi e condanna i ricorrenti in solido al pagamento delle spese processuali.

La Corte dispone inoltre che copia del presente provvedimento sia trasmessa al Direttore dell’Istituto penitenziario di competenza perchè provveda a quanto stabilito nella L. 8 agosto 1995, n. 332, art. 23, comma 1 bis.

Redazione