Corte di Cassazione Civile Sezioni unite 11/9/2008 n. 23385; Pres. Carbone V.

Redazione 11/09/08
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SVOLGIMENTO DEL PROCESSO

1. Il Tribunale di Catania con sentenza del 31 marzo 2000 condannava il comune di Acireale al pagamento in favore del Consorzio Ravennate delle Cooperative di produzione e lavoro, quale capogruppo mandatario del R.T.l. costituito con la Soc. Cooperativa Ravennate Costruttori – C.R.C., a r.l., a titolo di arricchimento senza causa, la complessiva somma di L. 992.363.470, corrispondente alla differenza tra quanto il Comune, con – Delib. Giunta 22 marzo 1989 n. 505, aveva riconosciuto a titolo di indennizzo (L. 2.962.621.111) ed il valore effettivo delle opere realizzate nell’ambito di un contratto di appalto, annullato dal Consiglio di giustizia amministrativa della Regione siciliana quando i lavori erano stati parzialmente eseguiti e positivamente collaudati in data 14 aprile 1991.

In accoglimento dell’appello incidentale del Consorzio, la Corte di appello di Catania con sentenza del 21 febbraio 2003, dopo aver confermato la giurisdizione del giudice ordinario, ha elevato l’importo dell’indennizzo ad Euro 571.136, 00, e respinto l’appello principale del comune.

Ha osservato al riguardo, per quanto ancora qui interessa: 1) l’ammontare dell’indennizzo non può essere limitato con riferimento al corrispettivo contrattualmente determinato ed al relativo impegno di spesa, trattandosi di obbligazione rispetto alla quale non rileva il titolo negoziale annullato e la pubblica amministrazione si trova nella stessa situazione di un privato; 2) l’indennizzo deve tenere conto, nella determinazione del costo delle opere, sia del loro valore effettivo sia del mancato guadagno dell’impresa; pertanto, indipendentemente dalla sussistenza dei relativi presupposti (domanda dell’appaltatore e delibera dell’ente pubblico), poteva farsi ricorso alla procedura revisionale, le cui risultanze non erano state specificamente contestate, come criterio per accertare l’effettiva entità della diminuzione patrimoniale subita dal Consorzio; 3) la stazione appaltante è altresì tenuta al pagamento dell’IVA (L. 124.881.139) sull’importo corrisposto in quanto a seguito del riconoscimento dell’utilità delle opere, queste erano state acquisite dal Comune di Acireale e si era, quindi, verificato uno spostamento patrimoniale ricadente nella generica nozione di cessione di beni a titolo oneroso, compiuta nell’esercizio di impresa, assoggettabile ad IVA. Per la cassazione della sentenza l’amministrazione comunale ha proposto ricorso per 4 motivi, cui resiste il Consorzio ravennate con controricorso illustrato da memoria.

La 1^ sezione della Corte, con ordinanza interlocutoria 19944 del 26 settembre 2007, ha trasmesso la controversia al Primo presidente per l’eventuale assegnazione alle Sezioni Unite, rilevando che sussiste un contrasto nelle sezioni semplici circa i criteri di calcolo dell’indennizzo ex art. 2041 cod. civ.; e considerando di particolare importanza la questione della utilizzabilità della revisione prezzi quale criterio per la determinazione del valore dell’indennizzo al momento del verificarsi dell’arricchimento.

MOTIVI DELLA DECISIONE

2. Con il primo motivo del ricorso, il Comune, deducendo violazione dell’art. 2041 cod. civ., e vizi di motivazione, addebita alla sentenza impugnata di avere erroneamente attribuito alla controparte una somma superiore a quella contrattualmente dovuta; di avere applicato la revisione prezzi calcolata dal direttore dei lavori, malgrado la stessa fosse stata immediatamente contestata dall’amministrazione con il richiamo dei, criteri dettati dall’art. 2041 cod. civ.: peraltro a partire dal 29 ottobre 1986, data della gara d’appalto, e perciò da epoca addirittura anteriore alla sottoscrizione del contratto, e di avere ritenuto irrilevante il regolamento contrattuale che, invece, doveva rappresentare l’indice di riferimento al fine di stabilire non l’impoverimento, ma l’arricchimento delle parti; di avere, infine, ricompreso nell’impoverimento il lucro cessante, operando una sorta di restitutio in integrum, mentre l’arricchimento, nella disciplina dell’art. 2041 cod. civ., non rappresenta il quantum della pretesa dell’impoverito, ma il suo limite massimo, nel senso che l’indennità dovuta dell’arricchito trova un secondo punto di riferimento nell’ammontare del danno.

Con il secondo motivo, deduce la violazione dell’art. 2041 cod. civ., ed il vizio di motivazione, lamentando che la Corte territoriale, abbia dapprima affermato l’inesistenza di un contratto di appalto, e, poi, contraddittoriamente l’esistenza di una cessione a titolo oneroso, che invece era da escludere poichè il diritto all’indennità nasce da uno spostamento patrimoniale privo di una causa che lo giustifichi; che l’IVA comunque non era dovuta sull’importo revisionale, punto sul quale la sentenza aveva contraddittoriamente taciuto;e che in ogni caso era ingiustificata la condanna alla rivalutazione di una somma, quella relativa all’IVA, che il Consorzio non risultava avere versato.

Con il terzo motivo (deducendo violazione dell’art. 2041 cod. civ., dell’art. 103 del regolamento n. 350/1895, della L. n. 2248 del 1965, art. 344 e segg., del D.Lgs. n. 1501 del 1947, art. 1, si duole che la Corte territoriale abbia ritenuto ammissibile l’azione di arricchimento senza causa nei confronti di un comune, malgrado non si possa dare luogo a spese pubbliche se non in conformità a deliberazioni degli organi competenti, sottoposte al controllo di legge; ed abbia riconosciuto al Consorzio una revisione prezzi, che invece è espressione di un potere discrezionale dell’Amministrazione.

Con il quarto motivo, deducendo violazione della L. n. 41 del 1986, art. 33, censura nuovamente la sentenza impugnata per avere riconosciuto il diritto ad un compenso revisionale in assenza dei presupposti di legge.

3. Il ricorso è fondato.

Fin dalle prime applicazioni dell’art. 2041 cod. civ., che ha introdotto l’azione generale di arricchimento, dottrina e giurisprudenza non ebbero dubbi nel ravvisarne i presupposti:

a) nell’arricchimento senza causa di un soggetto;

b) nell’ingiustificato depauperamento di un altro;

c) nel rapporto di causalità diretta ed immediata tra le due situazioni, di modo che lo spostamento risulti determinato da un unico fatto costitutivo;

d) nella sussidiarietà dell’azione (art. 2042 cod. civ.), nel senso che essa può avere ingresso solo quando nessun’altra azione sussista ovvero se questa, pur esistente in astratto, non possa essere esperita per carenza ab origine di taluno dei suoi requisiti.

Si ritenne, poi, del tutto pacifico che l’arricchimento debba consistere in un’effettiva attribuzione patrimoniale: configurabile tuttavia con il conseguimento di qualunque utilità economica, e quindi non soltanto quando vi sia stato un incremento patrimoniale, ma anche se la prestazione eseguita da altri con diminuzione del proprio patrimonio abbia fatto risparmiare una spesa o fU abbia evitato il verificarsi di una perdita (Cass. 178/1970 e da ultimo, Cass. 10884/2007), ricevendo anche in questi casi un’utilità per la quale, il soggetto beneficiato, ove non avesse potuto disporne, avrebbe dovuto effettuare un esborso o subire una diversa diminuzione patrimoniale.

Mentre, per quanto riguarda la perdita correlativa all’arricchimento altrui, le prime interpretazioni della giurisprudenza, legate alla lettera della norma, considerarono ai fini dell’indennizzo dovuto, soltanto la effettiva diminuzione patrimoniale subita dal depauperato.

La questione acquistò tuttavia rilevanza nel corso degli anni 70, allorchè la giurisprudenza cominciò ad ammettere la proponibilità dell’azione anche nei confronti della Pubblica Amministrazione ove questa abbia riconosciuto sia pure implicitamente l’utilità derivata dall’opera o dalla prestazione altrui; e ritenne che detto riconoscimento ben potesse risultare per implicito dal fatto che l’ente sia addivenuto alla sua utilizzazione: posto che l’oggetto era costituito quasi sempre da prestazioni di privati in dipendenza di contratti irregolari, nulli o addirittura inesistenti coinvolgenti in genere, appaltatori, fornitori o professionisti. E quindi situazioni caratterizzate dal fatto che l’opera svolta dall’impoverito ha carattere imprenditoriale ovvero professionale ed in ogni caso consiste in un’attività posta in essere abitualmente e professionalmente onde procurarsi un guadagno.

In tale ottica Cass. 14 marzo 1983 n. 1890, affrontando il problema della quantificazione dell’indennizzo dovuto ad un professionista, in relazione all’arricchimento conseguito dalla p.a., pur avvertendo i rischi che comportava la diretta applicazione della tariffa professionale, che di fatto "rendeva priva di conseguenze giuridiche la sanzione di nullità del contratto", questa anzi traducendosi in un vantaggio per il depauperato che conseguiva anche la rivalutazione monetaria, consentì il ricorso alla suddetta tariffa quale mero parametro di indole tecnica: affidandone l’applicazione al prudente apprezzamento del giudice di merito, ed avvertendo che comunque il compenso secondo tariffa rappresenta il limite massimo al quale la determinazione può pervenire.

Subito dopo, Cass. sez. un. 5833/1984 in fattispecie in cui l’amministrazione aveva espressamente riconosciuto con apposito atto il proprio debito per competenze professionali, dichiarò che la stessa fosse obbligata al pagamento di tali competenze, nella misura prevista dalle tariffe; e negli stessi anni Cass. 4275/1983 e 3627/1986 attribuirono a chi abbia venduto merci alla pubblica amministrazione, in base ad un negozio e non possa conseguirne la restituzione per avere l’amministrazione medesima consumato od utilizzato irreversibilmente quelle cose, il diritto di essere indennizzato dalla subita diminuzione patrimoniale, nei limiti in cui l’amministrazione, consumando od utilizzando detti beni, abbia ricevuto ed implicitamente riconosciuto un proprio arricchimento: e, quindi, il diritto di ottenere, in tali limiti, il pagamento di una somma corrispondente al prezzo di mercato dei beni medesimi.

E’ stata tuttavia Cass. 12 aprile 1995 n. 4192, ad affrontare in termini generali il problema del computo del lucro cessante nella "diminuzione patrimoniale" subita dall’impoverito, ed a risolverlo in senso favorevole all’esecutore della prestazione: che cioè tale formula deve comprendere quanto costui, ove il contratto fosse stato valido, avrebbe percepito a titolo di guadagno per l’espletamento di essa. Pur dando atto, infatti che la disposizione codicistica, se interpretata in senso letterale potrebbe indurre all’esclusione dell’indennizzabilità del mancato guadagno, la pronuncia ne ha ritenuto necessaria un’interpretazione estensiva fondata sulla ratio della norma di evitare che un soggetto ottenga senza causa un incremento patrimoniale a danno di altro soggetto; con la conseguenza che tale incremento non può che essere eliminato avendo riguardo all’intero pregiudizio subito da chi ha effettuato la prestazione priva di causa.

Da qui. la regola che l’impoverimento, allorquando riguardi l’appaltatore, deve essere costituito innanzitutto dalle spese affrontate per effettuare la prestazione, senza che possa distinguersi tra valore dei materiali e della mano d’opera impiegate:da quelle generali destinate ad essere ammortizzate con la loro vendita, alle imposte corrisposte in relazione alle forniture effettuate ed ai costi di realizzazione del servizio o di consegna delle merci. E, quindi, da ogni ulteriore pregiudizio economico del soggetto a svantaggio del quale l’accipiens si è arricchito, perciò comprendente anche il profitto dell’appaltatore per utile d’impresa connesso a prestazioni erogate posto che questo è il risultato dell’organizzazione dei fattori della produzione da lui posta in essere.

Questi principi sono stati immediatamente estesi (Cass. 7136/1996) all’indennizzo dovuto ai professionisti "con riguardo alla entità dell’effettiva perdita patrimoniale subita, da accertarsi tenendo a tal fine conto delle spese anticipate per l’esecuzione dell’opera, e del guadagno (mancato) da determinarsi eventualmente anche ex art. 1226 cod. civ., che lo stesso avrebbe ricavato dal normale svolgimento dell’attività professionale nel periodo di tempo dedicato all’esecuzione dell’opera di poi utilizzata dall’ente pubblico…"; e le decisioni successive oltre a riportarli quasi testualmente hanno cercato sempre più di liquidare a favore dell’indennizzato una somma in tutto e per tutto corrispondente al corrispettivo contrattualmente previsto, attraverso una valutazione rivolta il più possibile a ricostruire condizioni equivalenti a quelle nelle quali è stata resa la prestazione, nonchè ad applicare le tariffe previste per la particolare tipologia di queste.

Con il temperamento apportato da Cass. 6570/2005, secondo cui il mancato guadagno indennizzabile deve considerarsi soltanto quello che il professionista avrebbe ricavato dal normale svolgimento della sua attività professionale nel periodo di tempo dedicato invece all’esecuzione dell’opera utilizzata dall’ente pubblico: senza la possibilità di far ricorso a parametri contrattuali, stante la carenza di un valido vincolo contrattuale, o di commisurare, "sic et simpliciter", la perdita patrimoniale alla "utilitas" derivatane all’ente sotto il profilo della spesa risparmiata.

4. Si è già anticipato che la prima interpretazione dell’art. 2041 cod. civ., ne aveva invece ricondotto l’utilizzo alla sola eliminazione della diminuzione patrimoniale subita dal soggetto coinvolto, escludendovi la categoria del lucro cessante. Cass. 12 luglio 1965 n. 1471, aveva infatti precisato che il mancato guadagno dell’imprenditore esula dall’ambito della mera diminuzione patrimoniale di cui la norma prevede l’indennizzo, nei limiti dell’arricchimento, con la conseguenza di escludere dal suo computo sia le spese generali dell’imprenditore, sia il profitto di questo, nonchè la retribuzione dell’opera non consistente nella progettazione e direzione dei lavori: posto che tutte dette voci sono "connesse non con la consistenza materiale dell’opera, ma con l’esecuzione di una prestazione, nei confronti della quale non sussiste obbligo di corrispettivo" .

Questo indirizzo, pur in mancanza di nuove ed espresse conferme negli anni successivi ad eccezione di quella del tutto generica contenuta in Cass. 1992/1969, non è stato mai abbandonato del tutto dalla Corte che ne ha talvolta sotteso la ricorrenza, facendovi implicito riferimento pur nel periodo di maggiore affermazione di quello opposto, per attenuarne gli effetti estensivi: come dimostrano Cass. 6981/1986 secondo cui per la liquidazione dell’indennizzo non rileva l’utilità che l’autore dell’opera o della prestazione mirava a far conseguire o che il destinatario di esse sperava di realizzare, bensì quella che quest’ultimo ha in effetti conseguito, non consistente necessariamente in un conguaglio o in una riduzione delle spese. E Cass. 1753/1987 secondo la quale nel caso dell’elaborazione, a favore di un ente pubblico, di un progetto di opera pubblica non preceduto dal conferimento di un valido incarico professionale, occorre accertare soltanto l’entità della effettiva perdita patrimoniale subita dal professionista: senza possibilità nè di fare riferimento a parametri contrattuali, non utilizzabili stante la nullità dell’incarico, nè di equiparare sic et simpliciter detta perdita alla utilitas derivatane al comune sotto il profilo della spesa risparmiata.

Mentre secondo Cass. 22667/2004 (e la conforme 20747/2007), nell’ipotesi di arricchimento senza causa per i miglioramenti apportati al fondo altrui l’indennizzo "dev’essere rapportato, nei limiti dell’arricchimento ricevuto dal concedente, all’importo della diminuzione patrimoniale, cioè alle spese sostenute dall’affittuario". E Cass. 21292/2007 ha ulteriormente ridotto la possibilità di ricorso alle tabelle professionali, pur come mero parametro di valutazione, subordinandolo alla prova gravante sul professionista "che le stesse corrispondano, da un lato, al suo impoverimento (e cioè che egli, nel tempo dedicato alla redazione del progetto per conto del Comune, avrebbe potuto esplicare altri incarichi nella stessa misura remunerativi) e, dall’altro, all’arricchimento della p.a. (la quale, se avesse conferito l’incarico secundum legem, avrebbe dovuto pagare, per onorario e rimborso spese, in relazione a quell’importo dei lavori, esattamente la stessa somma indicata nella parcella)".

L’interpretazione restrittiva è stata, invece, nuovamente riproposta dapprima da Cass. 2^, 3 luglio 2003 n. 11454, la quale, proprio in tema di lavori effettuati da un imprenditore in favore di un ente pubblico in assenza di un valido contrattola affermato che "la diminuzione patrimoniale subita da questi è costituita da ogni genere di spese affrontate per effettuare le opere richieste"; e poi in modo più articolato da Cass. 26 settembre 2005 n. 18785 per la quale l’art. 2041 cod. civ., considera solo la diminuzione patrimoniale subita dal soggetto e non anche il lucro cessante, che è altra componente, separata e distinta, del danno patrimoniale complessivamente subito alla stregua dell’art. 2043 cod. civ., ma espressamente escluso dall’art. 2041 cod. civ..

Con l’ulteriore duplice limite che "non è l’intero arricchimento che la legge prende in considerazione, ma solo quello corrispondente al danno o pregiudizio subito dall’altro soggetto; e non è l’intero pregiudizio che può essere risarcitola solo quello corrispondente ad un profitto o vantaggio dell’arricchito". E da ultimo è apparsa più convincente anche alla menzionata ordinanza interlocutoria 19944/2007, sia per la chiara lettera della disposizione suddetta;

sia perchè "l’argomento della ratio della norma si risolve nella sostanza in una petizione di principio e cioè nel ritenere che scopo della norma sia quello di impedire l’arricchimento al quale corrisponda il danno di un altro soggetto anzichè, come sembra suggerire la lettera della norma, quello di impedire l’arricchimento al quale corrisponda la diminuzione del patrimonio di un altro soggetto"; sia, infine perchè attraverso il computo nella diminuzione patrimoniale anche del lucro cessante, si "finisce per attribuire all’istituto dell’arricchimento senza causa una funzione che sembra ad esso estranea e cioè quella di trovare, in una ottica redistributiva, un equilibrio tra le prestazioni". 5. Anche fra gli studiosi dell’arricchimento senza giusta causa non vi è univocità di vedute in merito allo specifico tema se il mancato guadagno possa rientrare in una nozione lata di diminuzione patrimoniale indennizzabile.

La maggior parte di essi si è preoccupata di rivendicare l’autonomia della nozione di diminuzione patrimoniale sottesa alla tutela residuale e sussidiaria offerta dall’art. 2041 cod. civ., rispetto alla nozione di danno ingiusto peculiare della tutela aquiliana ex art. 2043 cod. civ.; ed ha evidenziato che il principio di ingiustificato arricchimento è un principio altrettanto generale e centrale dell’ordinamento, che sta a fondamento anche delle altre fonti legali delle obbligazioni: accomunate dal postulato che il conseguimento di un vantaggio patrimoniale a carico di altri deve essere giustificato da un interesse meritevole di tutela.

E tuttavia da tali premesse alcuni autori hanno tratto la conseguenza della non indennizzabilità del lucro cessante che ci si attendeva in cambio dell’attività svolta, assumendo che il ristoro integrale del danno che lo comprende, è previsto dalla legge solo in caso di fatto illecito: ed allorchè, dunque ne ricorrono i presupposti del dolo o della colpa.

Altri invece, si sono dichiarati favorevoli all’inclusione del mancato guadagno nella depauperazione indennizzabile (o l’hanno rimessa al prudente apprezzamento del giudice di merito), ora riproponendo le considerazioni della giurisprudenza prevalente;ora invocando principi di carattere generale, quale quello del "giusto prezzo" in base al quale l’azione di cui all’art. 2041 cod. civ., sarebbe finalizzata a procurare all’impoverito una somma pari a quello che sarebbe il giusto corrispettivo del bene o della prestazione, del suo godimento secondo l’andamento del mercato.

O infine, ricorrendo a principi di giustizia distributiva, in base ai quali se non si tenesse conto anche del lucro cessante, tutto ciò che non viene riconosciuto all’impoverito, resterebbe definitivamente acquisito all’arricchito.

Ma il problema ha perduto di rilevanza nella dottrina più moderna che, prendendo spunto dall’esperienza comparativistica, ha svalutato la concezione dell’indebito incentrata sul binomio danno – diminuzione patrimoniale e vi ha sostituito quale punto di riferimento, il profitto, realizzato mediante fatto ingiusto: in particolare rivolgendo il proprio interesse alla ed. teoria del profitto creato, che autorizza il ricorso all’istituto ogni volta che si sia determinato un profitto per l’arricchito, senza perciò più richiedere alcuna correlazione tra locupletazione e perdita economica che in ipotesi può pure mancare.

In base a questa prospettiva – che in Italia ha consentito di estendere l’indebito arricchimento ai diritti sui beni immateriali (cfr. Cass. 3599/1999) e specificamente ai comportamenti lesivi di brevetti industriali, per l’utilizzazione di invenzioni non brevettate e delle informazioni e/o dei segreti industriali, nonchè per lo sfruttamento abusivo del nome e dell’immagine altrui, ed in genere a tutela dei diritti della personalità – diviene indispensabile soltanto la realizzazione di un profitto o di un plusvalore prodotto attraverso l’utilizzazione di risorse altrui, o di utilità spettanti ad altri; e l’istituto viene ad assumere la funzione di nuova clausola generale, mirante questa volta alla sua integrale restituzione, indipendentemente dalla esistenza e dall’entità del danno cagionato: a somiglianza di quanto impongono già l’art. 2032 cod. civ., al gestore di affari altrui qualunque sia il suo stato soggettivo, nonchè il successivo art. 2038 cod. civ., a carico di chi abbia alienato una cosa ricevuta indebitamente.

Con l’indubbio merito non solo di giustificarne la piena dignità ed autonomia rispetto alle altre fonti delle obbligazioni, ma di avere enucleato nel suo ambito la categoria del lucro o profitto ottenuto a spese di un altro soggetto, perciò integralmente da restituire;e di tenerla distinta dalle fattispecie in cui si è di fronte ad ingerenze lecite negli altrui diritti, ovvero attuate in buona fede, o ancora dovute ad iniziative e comportamenti stessi dell’impoverito (ed. arricchimento imposto o mediato).

Siffatta concezione che dichiara di fondarsi su noti principi enunciati dalla giurisprudenza romana classica ("neminem … fieri locupletiorem.."), a livello legislativo, è ampiamente diffusa nei Paesi di common law, dove ai fini della configurabilità dell’azione in questione si ritiene sufficiente che qualcuno abbia realizzato un profitto a spese di un altro, ed è assurta a regola generale in altre legislazioni europee (cfr. art. 812 ed 818 BGB cit.; art. 10.0 cod. Sp.; art. 473 n. 1 cod. Portog.). Ed anche il nostro legislatore non ha mancato di condividerne l’idea di fondo sia pure in fattispecie specifiche: come quella della L. n. 349 del 1986, art. 18, il quale in materia di tutela civilistica dell’ambiente, dopo avere attribuito prevalenza alla riparazione in forma specifica, ha disposto, ove una tale reintegrazione non sia più possibile, la devoluzione a favore dello Stato di una somma di denaro, che tenga conto non solo dei danni effettivamente inferti, ma anche del profitto realizzato mediante il comportamento illecito (cfr. altresì il riferimento del D.Lgs. n. 480 del 1992, art. 1 sub b, al "vantaggio indebito"; nonchè del D.Lgs. n. 30 del 2005, art. 125, comma 1, agli "utili realizzati in violazione del diritto").

6. Le Sezioni Unite ritengono che il contrasto debba essere composto privilegiando l’interpretazione dell’art. 2041 cod. civ., che esclude dal calcolo dell’indennità richiesta per la "diminuzione patrimoniale" subita dall’esecutore di una prestazione in virtù di un contratto invalido, quanto lo stesso avrebbe percepito a titolo di lucro cessante se il rapporto negoziale fosse stato valido ed efficace.

A questo risultato induce anzitutto la chiara lettera della norma, saldamente ancorata alla tradizione romanistica rivolta a riparare il "detrimentum" sofferto dall’impoverito, attraverso le numerose "condictiones indebiti" via via apprestate a partire dal diritto classico i onde garantirgli la restituzione di quanto avesse dato in base ad una giustificazione mancante fin dall’inizio, o venuta meno successivamente. E pure la maggior parte delle decisioni che hanno recepito l’orientamento opposto (c.d. estensivo) ha dato atto del significato testuale inequivoco della formula, che secondo gli studiosi, trova un significativo completamento nell’espressione "pregiudizio" utilizzata dall’art. 2042 cod. civ., a riprova dell’intento del legislatore di evitare qualsiasi confusione con il "danno ingiusto" ex art. 2043 cod. civ., e con le sue componenti.

D’altra parte, l’invocata esigenza di sacrificare la lettera della norma alla asserita "ratio" che, intendendo eliminare ogni pregiudizio (nei limiti dell’arricchimento) subito dall’impoverito, ne imporrebbe una interpretazione estensiva comprendente anche il mancato guadagno per utile d’impresa connesso a prestazioni erogate sine causa, non si sottrae all’addebito rivoltogli dall’ordinanza interlocutoria 19944/2007 di risolversi in una mera petizione di principio:posto che ciò che doveva dimostrarsi era proprio che la "diminuzione patrimoniale" nel contesto della menzionata disposizione legislativa acquistasse, malgrado la diversa terminologia, la medesima estensione di quella dell’art. 1223 cod. civ., (recepita dell’art. 2043 cod. civ., e segg.) contenente espresso riferimento non soltanto alla perdita subita dal creditore (c.d. danno emergente), ma anche all’intero pregiudizio di costui, e quindi, anche all’accrescimento patrimoniale che avrebbe conseguito se ad impedirlo non fosse intervenuto il fatto generatore del danno.

Detta equiparazione è invece smentita sia dalle origini che dalle finalità dell’istituto: come è noto non considerato quale rimedio generico dal codice del 1865 che riconosceva e disciplinava, invece, unitamente ad alcune leggi speciali (art. 67 L. camb.; art. 59 L. assegno) singole tipologie (artt. 447, 704 705, 1145 – 1150 ecc.), oltre alla ripetizione di indebito ed alla gestione di affari altrui;e che tuttavia non aveva impedito di enucleare una autonoma azione di arricchimento sia alla dottrinaria alla giurisprudenza, inducendo la Cassazione a configurarla in termini generali ed a denominarla azione "de in rem verso" : quasi ad evidenziarne la funzione restitutoria identica alla originaria fattispecie conosciuta dal diritto romano, e fonte delle successive "condictiones" (Cass. Torino 19 dicembre 1887 e Cass. Firenze 24 febbraio 1888).

Essa venne quindi introdotta nel progetto di codice delle obbligazioni del 1936, ove un unico articolo stabiliva che "Chi si arricchisce senza legittima causa a danno di un’altra persona, è tenuto, nei, limiti dell’arricchimento, ad indennizzarla "di ciò di cui questa si è impoverita" ; ed accolta nel vigente codice che l’ha significativamente collocato dopo la previsione di numerosi casi particolari (art. 31 c.c., comma 3, art. 535 c.c., art. 821 c.c., comma 2, artt. 935, 940, 1150 c.c., art. 1185 c.c., comma 2, artt. 1190, 1443, 1769 c.c., art. 2037 c.c., comma 3, art. 2038 c.c., comma 3): assolutamente eterogenei, ma ispirati al medesimo principio, ed accomunati dall’obbligo di "restituire" all’impoverito esclusivamente perdite, esborsi, spese, prestazioni ed altri elementi, utilità o valori già sussistenti nel suo patrimonio "nei limiti dell’arricchimento". Sicchè si è mantenuto un sistema di figure tipiche spesso disciplinate in modo minuzioso cui – quale unica novità – ha fatto seguito l’enunciazione del principio generale privo di innovazioni rispetto ad esse, ispirato al modello francese ed avente le medesime caratteristiche già individuate dalla giurisprudenza precedente (arricchimento di un soggetto, correlativo impoverimento di un altro soggetto, mancanza di una giusta causa); il quale ha assunto, come espressamente reso palese dalla Relazione al progetto del codice, la funzione di norma di chiusura formulata onde coprire anche i casi "che il legislatore non sarebbe in grado di prevedere tutti singolarmente".

Esso necessariamente partecipa, in conseguenza, del-la disciplina e delle finalità sostanziali cui sono rivolte ed ispirate le disposizioni suddette, di eliminare l’iniquità prodottasi mediante uno spostamento patrimoniale privo di giustificazione di fronte al diritto, sancendone la restituzione:perciò disposta in funzione e nei limiti dell’arricchimento, e non già in dipendenza di una variabile legata al concreto ammontare del danno subito, come avviene nell’azione risarcitoria. Sicchè soltanto questo e non altro può ritenersi il fondamento dell’istituto, sintetizzato da qualificati studiosi nella formula che l’azione è data non contro l’arricchimento o il danno, ma "per evitare l’arricchimento a danno altrui".

Il fatto, poi, che il legislatore abbia inteso rimarcarne la valenza di rimedio generale dell’ordinamento al pari del principio del neminem laedere in materia di responsabilità civile, nonchè del principio pacta sunt servanda in materia contrattuale, e che nella ricordata Relazione sia definito "uno di quei precetti ampi ed elastici" deputati ad abbracciare "un gran numero di casi oggi non tutti prevedibili", ne comporta l’idoneità a recepire una serie illimitata di ipotesi indefinite e non predeterminabili, via via riconosciute meritevoli di protezione giuridica:e, quindi la possibilità di estenderne sia l’ambito che i criteri legali di applicazione (fino a raggiungere i diritti della personalità, i diritti sui beni immateriali). Ma non autorizza il sostanziale equivoco che sta alla base dell’orientamento tuttora prevalente, di annullarne l’autonoma funzione recuperatoria, onde inglobarlo per imprecisati motivi di giustizia sostanziale, nell’ottica panaquiliana propria dell’art. 2043 cod. civ..

7. Non mancano, peraltro, ipotesi specifiche in cui è lo stesso legislatore a spostare il baricentro dell’istituto dalla sua tradizionale ragione giustifica-trice alla persona del "danneggiato" in ossequio ora alla preoccupazione che la lesione della sua posizione giuridica sia meritevole di particolare protezione, ora a quella di trovare in un’ottica redistributiva un equilibrio tra le prestazioni (e comunque tra i due patrimoni): considerando il pregiudizio pari al valore del bene o del suo uso, o al valore della prestazione. Ma con ciascuna di queste soluzioni confermando che si tratta di altrettante deroghe dell’oggetto e della funzione della disposizione generale che sono rispettivamente la locupletazione e la restituzione;e non il danno ed il suo risarcimento.

E’ sufficiente al riguardo ricordare esemplificativamente le fattispecie di consumazione della cosa altrui di cui agli artt. 935 e 939 cod. civ., in cui spetta un’indennità pari al suo valore.

Laddove se la consumazione è stata compiuta in malafede è dovuto il risarcimento dei danni ulteriori, peculiari della responsabilità da illecito: con ciò introducendosi una tutela differenziata in base alla quale il danno rilevante per l’azione di arricchimento ha una misura inferiore a quella del danno rilevante per l’azione da illecito e la responsabilità non va oltre quella misura, quale che sia la consistenza dell’arricchimento o dell’impoverimento.

E, per converso, nel l’ipotesi di opere eseguite da un terzo sul fondo altrui prevista dall’art. 936 cod. civ., (ed in quella di specificazione di cui all’art. 940 cod. civ.), ove il proprietario ne voglia acquistare la proprietà per accessione, si realizza una fattispecie tipica di arricchimento ingiustificato, che la norma ha disciplinato specificamente ponendo a carico di quest’ultimo l’obbligo di pagare al terzo oltre al valore dei materiali anche "il prezzo della mano d’opera". Con la conseguenza che, essendo detto prezzo dovuto anche nel caso in cui il proprietario dei materiali abbia eseguito personalmente l’attività lavorativa, secondo alcuni autori in tale fattispecie si è in presenza di una sorta di indennizzo per mancato guadagno, rivolto a compensare la perdita della possibilità di svolgere altre attività remunerative. Mentre, secondo altri l’azione mira a conseguire, entro i limiti dell’arricchimento soltanto il giusto prezzo del godimento o della prestazione (prezzo che può essere superiore o inferiore al lucro cessante).

Ancor più marcata è la tutela dell’impoverito nella nota ipotesi prevista dall’art. 2126 cod. civ., in cui egli abbia eseguito una prestazione lavorativa in esecuzione di un contratto di lavoro nullo o annullato: posto che equipara gli effetti del contratto invalido a quello valido "per il periodo in cui il rapporto ha avuto esecuzione", al fine di tutelare il diritto del lavoratore alla retribuzione (ed alle altre prestazioni connesse previste dalla legge).

Se si considera che pur in assenza della norma, il lavoro di fatto avrebbe potuto essere compensato ricorrendo allo strumento dell’art. 2041 cod. civ., risulta evidente, da un lato, che il legislatore ha inteso in detta fattispecie privilegiare soprattutto la prestazione di lavoro subordinato, attribuendo al suo titolare una tutela rafforzata cui corrisponde un obbligo resti-tutorio integrale ed in forma specifica a carico dell’arricchito: commisurato all’intero valore della prestazione ottenuta senza causa; e che prescinde perfino da qualsiasi accertamento circa l’esistenza di un effettivo arricchimento e giovamento per il datore di lavoro. Ma, dall’altro, diviene ancor più palese la distanza tra la peculiarità di detta riparazione completa e l’obbligazione generale dell’art. 2041 cod. civ., correlata (e limitata) alla diminuzione patrimoniale dell’impoverito, già evidenziata del resto negli anni 80 dalle Sezioni Unite allorchè limitarono l’applicazione dell’art. 2126 c.c., nell’ambito del lavoro pubblico, escludendola in presenza di specifiche norme che ne vietino comunque la costituzione in difetto di determinate condizioni all’uopo tassativamente prescritte e sanciscono espressamente la assoluta improduttività di qualunque effetto per l’assunzione o l’affidamento di attività lavorative. Ed in tal caso consentendo al prestatore di lavoro di esperire soltanto l’azione di indebito arricchimento di cui l’amministrazione abbia beneficiato per effetto delle sue prestazioni (Cass. Sez. Un., 1494/1981; 4198/1982; 3098/1985).

8. Il realtà l’indirizzo giurisprudenziale ed. maggioritario ha operato una mera trasposizione di concetti e contenuti propri della responsabilità aquiliana alla materia dell’arricchimento; e ponendo in primo piano l’interesse leso dell’arricchito, ed individuando un nesso di causalità ex artt. 40 e 41 cod. pen., tra di esso e la locupletazione, ha ritenuto di perseguire quale logico risultato la restituito in integrum del patrimonio dell’impoverito: perciò includendovi sia la perdita subita che il mancato incremento, questa volta riparato togliendo il valore corrispondente ad altra persona a cui vantaggio l’utilità è stata rivolta.

Ma, pur convenendo sul fatto che l’elaborazione dell’azione di arricchimento ad opera dei compilatori del codice è sicuramente avvenuta con particolare riferimento ai casi di locupletazione ottenuta mediante fatto ingiusto, le Sezioni Unite non ritengono di condividere tale commistione tra le due azioni: esclusa, già, dallo loro autonoma collocazione nel libro quinto delle obbligazioni ove il legislatore ha posto l’arricchimento senza causa nel titolo 8, e dedicato ai fatti illeciti un successivo e distinto titolo, il nono con ciò mostrando l’intendimento di separarne in modo netto ed inequivoco anche disciplina e funzione.

Si tratta del resto di una scelta assolutamente coerente con la diversità delle fonti delle rispettive obbligazioni, addirittura di origine contrapposta nella disposizione dell’art. 1173 cod. civ., posto che quella risarcitoria nell’art. 2043 c.c., nasce da un comportamento illecito che è – esso – origine dell’obbligazione in quanto fatto esclusivo causante il danno. Laddove con riguardo al rimedio dell’art. 2041 cod. civ., impoverimento ed arricchimento non sono in rapporto di causa ed effetto, ma sono entrambi due effetti, i quali producono direttamente la nascita dell’obbligazione in quanto fatti causati da circostanze esterne al meccanismo di produzione della fonte; per cui, dal punto di vista giuridico l’arricchimento può essere l’effetto economico di un fatto qualunque che il legislatore non ha avuto interesse a qualificare, significativamente enunciando una "correlazione" tra di esso (allorchè sia ingiustificato) e "diminuzione patrimoniale" dell’attore.

E proprio perchè le relative obbligazioni sorgono e si pongono su piani non comparabili, ne sono affatto diversi anche il contenuto ed il risultato che si propone ciascuna, che nell’azione risarcitoria è quello, congenito alla sua funzione, di approntare un rimedio contro il danno, ristabilendo la situazione patrimoniale alteratasi per effetto dell’illecita ingerenza; laddove l’altra è rivolta ad apprestare tutela contro il profitto realizzato secondo modalità ingiuste e riparare il grave squilibrio che in forza del relativo spostamento patrimoniale si è formato. Con la conseguenza che in detta azione la centralità del danno viene necessariamente meno, e non mirando la norma ad operare la ricomposizione del patrimonio dell’impoverito, manca in radice il titolo idoneo a compensare il suo mancato incremento attraverso i profitti non realizzati.

Il che non significa che si è in presenza di una tutela debole o secondaria rispetto a quella aquiliana, perchè se è vero che in numerose fattispecie – quelle in particolare di appropriazione di beni ed utilità che competevano all’impoverito – si produce una diminuzione del suo patrimonio che viene riparata soltanto nei limiti dell’arricchimento, è pur vero che la casistica giudiziaria ne evidenzia altrettante perfettamente speculari, in cui l’ingerenza arreca un beneficio patrimoniale al convenuto senza tuttavia provocare al soggetto leso alcun danno effettivo (o un pregiudizio facilmente individuabile); o ancora in cui l’arricchimento ottenuto può essere nettamente superiore al danno cagionato:fattispecie nelle quali non potrebbe comunque invocarsi l’obbligazione risarcitoria, ed ha invece piena cittadinanza, come già si è visto a proposito delle ipotesi particolari disciplinate dagli art. 936 e 940 cod. civ., l’azione di arricchimento per la cancellazione del profitto prodotto da quell’ingerenza ingiustificata. Tanto da indurre questa Corte già in pronunce assai lontane nel tempo (Cass. 966/1965) all’elaborazione di complesse formule onde evitare un arricchimento dell’impoverito, con le quali si prendevano le distanze dalla ricostruzione incentrata sull’illecito, chiarendosi che "non è l’intero pregiudizio che deve essere risarcito, ma solo quello che corrisponde ad un profitto o vantaggio dell’arricchito. L’indennità deve perciò essere contenuta nei limiti della locupletazione, se questa è inferiore all’altrui impoverimento, e nei limiti dell’impoverimento, anche se l’arricchimento sia maggiore".

Anche sotto questi profili non è conclusivamente consentito sovrapporre la funzione risarcitoria propria dell’azione aquiliana a quella restitutoria dell’indebito arricchimento, mantenendo quest’ultima in un rapporto di subalternità al precetto del neminem laedere, ed al parametro di natura soggettiva che lo stesso comporta al fine di conseguire la reintegrazione patrimoniale del danno ingiusto. E neppure raggiungere analogo risultato attraverso un abnorme cumulo delle loro discipline, ripristinando di fatto la relativa costruzione prospettata durante la vigenza del codice civile del 1865, da qualche autore; che, tuttavia, avvertendone l’anomalia, l’aveva fondata su di un fatto illecito ravvisato nella mancata restituzione dell’arricchimento (o su un quasi – delitto, consistente nello stesso fatto di arricchirsi a spese altrui).

Senza considerare, infine, che la trasposizione del regime peculiare dell’obbligazione risarcitoria è resistita anche dal ruolo indispensabile svolto dall’elemento soggettivo: il quale, in essa presupponendo un problema di responsabilità, postula un comportamento antigiuridico del danneggiante, che nell’indebito arricchimento dovrebbe tradursi in una condotta colposa o dolosa dell’arricchito.

Ma questa non può nè potrebbe essere richiesta dalla normativa ad esso relativa, dato che ove fosse configurabile, l’impoverito, come rilevato da attenta dottrina, avrebbe a disposizione proprio l’azione generale di cui all’art. 2043 cod. civ.: con ciò facendo venir meno il presupposto della sussidiarietà indispensabile per esperire quella di indebito arricchimento;con la conse-guenza che il rimedio prescinde necessariamente dal comportamento tenuto dall’agente.

A differenza dell’azione risarcitoria, ove se il danneggiante non è in colpa nella produzione del danno, non gli si può a maggior ragione addossare il profitto perduto dal danneggiato.

Ed allora, questa voce di danno gli viene attribuita dalla giurisprudenza ad essa favorevole in base ad una sorta di responsabilità oggettiva che da istituto eccezionale ed utilizzabile in ipotesi specificamente individuate, nell’azione in esame è assurta al rango di regola generale (seppur inespressa dalla norma);

e per di più indiscriminatamente applicabile, dato il carattere unitario del rimedio, sia ai casi di arricchimento conseguito appropriandosi di utilità insite nell’altrui situazione protetta, sia a quelli che dipendono da comportamenti dell’impoverito.

In relazione ai quali invece la dottrina più moderna si è posta sempre più frequentemente (cfr. 5) la questione basilare di evitare l’imposizione di una responsabilità da arricchimento non desiderato, e le legislazioni di numerosi stati europei hanno messo in forse la stessa esperibilità dell’azione: come dimostrano esemplificativamente l’art. 814 BGB tedesco, per il quale "ciò che è stato prestato per l’adempimento di un’obbligazione non può essere ripetuto se l’adempiente era consapevole di non essere obbligato alla prestazione…" ;nonchè il sistema del Common Law in cui nessuna pretesa può essere fatta valere nei confronti di chi abbia ricevuto un servizio senza volerlo o senza la consapevolezza di doverlo pagare.

9. Nella seconda di dette categorie rientrano le prestazioni professionali o imprenditoriali eseguite, come nella specie, in conseguenza di un contratto invalido o giuridicamente inesistente, allorchè non sia perciò possibile ottenerne altrimenti il corrispettivo stabilito; ed in essa a differenza della prima, ove l’approfittamento che ha provocato l’arricchimento, presenta innegabili punti di contatto con la responsabilità civile, ne sussistono altrettanti, questa volta con il regime di esecuzione dei contratti.

In effetti, è proprio questa la strada alternativa percorsa dalla giurisprudenza, anche di merito, favorevole ad includere il mancato guadagno tra i criteri di calcolo dell’indennizzo dovuto al professionista o all’imprenditore ; la quale, a partire dagli anni 80 in tali casi, ha ragionato in un’ottica di adempimento della prestazione dedotta nel contratto invalido (così come nell’altra categoria di condotte era stata perseguita la finalità della reintegrazione integrale del danno subito): ritenendo – in ricordo della natura di quasi contratto attribuita alle relative obbligazioni fin dal periodo giustinianeo – che chi ha eseguito la prestazione ha diritto, onde evitare lo squilibrio che si verrebbe altrimenti a provocare, ad una determinazione indennitaria estremamente aderente a quanto egli avrebbe percepito ove avesse stipulato un negozio valido.

E ad essere ricollocato in posizione sostanzialmente analoga a quella nella quale si sarebbe trovato in quest’ultimo caso:perciò nella medesima prospettiva di chi si propone effettivamente di trarre un guadagno dalla propria attività.

Pur dando atto, infatti, che detto soggetto non ha diritto ad una controprestazione, nè tanto meno a quella stessa prestazione che gli sarebbe spettata se il contratto stipulato fosse stato valido ed efficace, per l’insussistenza di un rapporto sinallagmatico, queste decisioni hanno fatto ricorso alla finzione che il negozio sussistesse al limitato fine di determinare le utilità spettanti all’impoverito: con sistematico riferimento sia pure in via indiretta e meramente parametrica, al corrispettivo contrattualmente previsto ovvero a quello stabilito dalle tariffe professionali, nonchè ad ogni ulteriore condizione contrattuale più favorevole all’autore della prestazione; ed attribuendo al riguardo ampio valore probatorio perfino alle fatture emesse dall’imprenditore (dal fornitore, o dal professionista), quanto all’importo ivi riportato mediante richiamo all’obbligo di fatturazione unitamente al rischio, anche penale inerente all’inesatta o addirittura falsa fatturazione (Cass. 9690/1999; 5021/1997).

Ne è scaturita una liquidazione estremamente favorevole all’impoverito, ed il più delle volte addirittura premiale, già avvertita da Cass. 1890/1983, non soltanto perchè il relativo importo, avente pacificamente natura di credito di valore, viene rivalutato dal giudice alla data della pronuncia automaticamente e senza necessità della prova del maggior danno richiesta al creditore di pretese contrattuali dall’art. 1224 c.c., comma 2; ma anche perchè nella quantificazione non si tiene conto delle condizioni di particolare favore per la p.a., normalmente inserite nei contratti dalla stessa predisposti, nonchè delle clausole e condizioni cui è subordinato il compenso, comunque prestabilito nella convenzione o nel capitolato e non rimesso a successive parcelle o alle tariffe professionali, che non consentirebbero di preventivarne la spesa.

Per cui, in questo settore l’azione di cui all’art. 2041 cod. civ., da rimedio residuale è divenuto sempre più l’obbiettivo principale di quanti hanno volontariamente eseguito una prestazione, pretermettendo del tutto l’osservanza dei normali canoni che presiedono alla conclusione dei contratti con la P.A., o non avendo convenienza ad utiliz-zarli;e mostrando, invece, interesse a far valere essi la nullità o l’inesistenza del contratto.

Da qui le pronunce di questa Corte rivolte a rimediare a tali incongruenze sia pure in relazione allo specifico caso concreto: ora incidendo in modo più rigoroso sul "riconoscimento dell’utilità dell’opera o della prestazione" da parte dell’amministrazione, che è stato escluso comunque nei casi di mera presentazione all’ente senza formale incarico, di un progetto o di un’opera, a prescindere dal fatto che questi li abbia ricevuti:con l’enunciazione del principio che tale attività non si identifica nella utilizzazione proficua della prestazione richiesta dalla norma (Cass. 5638/1995). Ora richiedendo che il riconoscimento debba provenire soltanto da atti degli organi deliberanti dell’ente pubblico o che ne abbiano per legge la rappresentanza esterna (Cass. 11133/2002; 9694/2001;

8285/2000). Mentre altre decisioni hanno cercato di introdurre maggior rigore nell’ambito dell’onere probatorio a carico del professionista o dell’imprenditore che agisce ex art. 2041 cod. civ., rilevando che il ricorso alle tabelle professionali o ai capitolati di appalto, è una mera finzione del tutto inaccettabile una volta stabilita la nullità dell’incarico o dell’appalto che costituisce la conditio sine qua non della loro applicazione; e che grava comunque sul richiedente l’onere di dimostrare, da un lato che egli nel tempo dedicato al compimento della prestazione per conto dell’ente pubblico avrebbe potuto espletare altre equivalenti attività, anch’esse egualmente remunerative. E, dall’altro, che se la p.a. avesse dovuto conferire l’incarico o l’opera secundutn legem, avrebbe dovuto pagare, per rimborso spese e compensi, una somma analoga a quella indicata nella parcella o nel contratto (Cass. 1753/1987 e da ult.

6570/2005; 21292/2007, cit.).

Pur con tali apprezzabili contemperamenti, neanche la rilettura in chiave contrattuale dell’istituto appare convincente, anzitutto per le ragioni inerenti alla sua ben precisa identità ed alla esclusiva finalità di indennizzare lo spostamento di ricchezza senza giusta causa dall’uno all’altro soggetto, già evidenziate per escluderne possibili funzioni risarcitorie (p. 6 ed 8); le quali ragioni non consentono neppure di ricondurlo tra gli strumenti che l’ordinamento predispone per porre rimedio allo squilibrio nelle prestazioni, come invece avviene in ambito contrattuale. Sicchè a maggior ragione gli è estraneo il ruolo, pur attribuitogli da non poche pronunce giurisdizionali, di assicurare all’autore di una prestazione eseguita malgrado l’invalidità di un contratto, il medesimo profitto che avrebbe ricavato nello stesso periodo di tempo da altre attività remunerate : soprattutto quando detta esecuzione derivi da una iniziativa propria e non sia rispettosa della legge.

Esso, per di più, non tiene in alcun conto che l’attività negoziale della p.a. è comunque soggetta a specifiche condizioni e limitazioni apposte direttamente dal legislatore, costituite dalle regole c.d. dell’evidenza pubblica che presidiano e condizionano l’attività negoziale della p.a.: costituenti un vero e proprio sistema rigido" e vincolante, per il quale: A) i comuni, le Province e gli altri enti locali indicati nel T.U. appr. con R.D. n. 383 del 1934, ancora vigente all’epoca dell’appalto affidato alla Cooperativa Ravennese, non possono assumere obbligazioni senza rendersi conto del loro ammontare e senza conoscere se e come farvi fronte :perciò dovendo indicare (artt. 284 e 288 c.c.) nelle relative deliberazioni a pena di nullità l’ammontare di esse e i mezzi per farvi fronte (Cass. sez. un. 12195 e 13831/2005, nonchè 8730/2008); B) all’assunzione della spesa deve necessariamente seguire una fase preliminare, caratterizzata dalla formazione della volontà della P.A, che resta sul piano del diritto amministrativo, ed è disciplinata dalle regole ed. dell’evidenza pubblica, poste dalla legge, da un regolamento nonchè da atti generali della stessa amministrazione (Cass. 17697/2005; 14789/2003; 2235/1998; 7151/1983); che si conclude con la delibera a contrarre, destinata a disporre in ordine alla stipulazione del negozio; C) e quindi la sussistenza di un atto contrattuale redatto nelle forme di legge e sottoscritto dal rappresentante esterno dell’ente stesso e dal privato, da cui deve desumersi la concreta instaurazione del rapporto negoziale con le indispensabili determinazioni in ordine alle prestazioni da svolgersi ed al compenso da corrispondergli; che deve perciò essere stabilito all’interno del contratto (Cass. 19670/2006; 11930/2006; 4635/2006;

1702/2006; 24826/2005); D) seppure è vero che detti principi devono essere contemperati con la regola di carattere generale che non sono ammessi arricchimenti ingiustificati nè spostamenti patrimoniali ingiustificabili neppure a favore della p.a., è pur vero che le regole suddette rivolte a sollecitare un più rigoroso rispetto dei principi di legalità e correttezza da parte di coloro che operano nelle gestioni locali, come già rilevato da queste Sezioni Unite, sono ricollegabili al buon andamento, di dette amministrazioni in un quadro di certezza e di trasparenza, e trovano oggi fondamento nello stesso art. 97 Cost..

Si tratta, dunque, di regole ritenute da dottrina e giurisprudenza assolutamente inderogabili ed aventi forza talmente cogente da invalidare e travolgere qualsiasi convenzione con esse confliggente, per cui è per lo meno illogico utilizzare il rimedio dell’art. 2041 cod. civ., per renderle inoperanti e ricollocare l’autore della prestazione nella situazione in cui si sarebbe trovato se avesse concluso con successo proprio quel contratto che la legge considera assolutamente invalido o addirittura giuridicamente inesistente:perciò consentendone la sostanziale neutralizzazione in nome di imprecisate esigenze equitative. Ed è ancor più contraddittorio dopo avere invocato la funzione riequilibratrice del modello contrattuale, prenderne inopinatamente le distanze onde giustificare detta elusione, in nome del postulato, più volte ripetuto dalla sentenza impugnata, che nell’azione di indebito arricchimento non rilevano nè il pregresso titolo negoziale nè la disciplina dallo stesso introdotta proprio per l’invalidità del negozio o per la sua avvenuta caducazione: anche perchè questo principio comporta soltanto che una ragione di tutela sussiste per l’impoverito anche quando il titolo principale sia venuto meno o non abbia comunque raggiunto alcuna operatività (cfr. l’art. 812, 1° comma del ricordato cod. civ. tedesco, per il quale "L’obbligazione sussiste anche quando la ragione giuridica viene meno successivamente …" ).

Ma solo un salto logico può indurre ad attribuire a detta tutela il carattere di rimedio extra ordinem, che, da un lato, comprenda tutti i benefici derivanti da un contratto valido, e dall’altro lo trascenda per aggiungervi anche quelli altrimenti non consentiti dalle condizioni e dai limiti che nell’ordine normativo presidiano l’attività negoziale degli enti pubblici a meno di non trasformarla in uno strumento utilizzabile per sottrarsi all’applicazione delle leggi che dettano le "normali regole di contabilità pubblica in tema di copertura di spesa" allorquando appaiono inique (pag. 7 – 8 sent. imp.).

Il che è quanto è avvenuto nella fattispecie, in cui la cooperativa aggiudicataria di un appalto in base ad una gara annullata ha comunque eseguito la prestazione in luogo dell’effettivo aggiudicatario in base a regolare asta pubblica; ed ha conseguito tramite l’azione di cui all’art. 2041 c.c., interpretata nel senso di non tener conto di esse, un compenso ben più elevato rispetto a quello che sarebbe spettato al contraente adempiente e rispettoso di dette regole.

Proprio per impedire tale risultato, di apportare di fatto, attraverso il rimedio in esame, singole modifiche e/o correzioni agli istituti giuridici di cui si tratta o a singoli aspetti di essi, e comunque di ovviare a conseguenze non gradite del sistema giuridico imperniato sull’evidenza pubblica – peraltro in base a va-lutazioni meramente soggettive – il legislatore, in un’ottica di risanamento delle finanze locali, ne ha radicalmente modificato la possibilità di applicazione nei confronti dei comuni e di altri enti locali.

Ed a partire dalla L. n. 144 del 1989, non ha più consentito il ricorso alla prassi di conferire, senza il rispetto di dette normative, appalti, incarichi e forniture, poi egualmente remunerati con il ricorso alla regola dell’indebito arricchimento, rendendo l’amministratore o il funzionario locale direttamente responsabile del conferimento, ed attribuendo all’autore della prestazione le normali azioni contrattuali direttamente nei confronti di costui;con conseguente impossibilità di esperire l’azione di indebito arricchimento senza causa nei confronti dell’ente locale, stante il difetto del necessario requisito della sussidiarietà. 10. Anche l’interpretazione logico – sistematica dell’art. 2041 cod. civ., induce, conclusivamente, il Collegio a ribadire che nel periodo antecedente alla legge suddetta il rimedio debba mantenere il carattere di mezzo di tutela residuale e sussidiaria che l’ordinamento mette a disposizione del privato – allorchè non dispone nei confronti della P.A. di nessun’altra specifica azione sia essa contrattuale, o al di fuori del contratto – al fine di garantirgli la conservazione della posizione patrimoniale.

Ovvero (se si segue la dottrina più moderna), la restituzione del beneficio (e/o del profitto) conseguito dall’amministrazione.

Neppure nell’ambito di quest’ultima via, residua perciò spazio per trasformare l’azione restitutoria in un meccanismo rivolto ad assicurare il "giusto corrispettivo" dell’incarico, o dei lavori eseguiti; e comunque, più in generale, per garantire gli effetti sostanziali dell’azione contrattuale attraverso l’artificio di valutazioni parametriche. Ed anche allorchè esperita nei confronti della P.A., la depauperazione di cui all’art. 2041 cod. civ., deve comprendere, come già affermato dalla lontana Cass. 1471/1965, tutto quanto il patrimonio ha perduto (in elementi ed in valore) rispetto alla propria precedente consistenza;ma non anche i benefici e le aspettative connessi con la controprestazione pattuita quale corrispettivo dell’opera, della fornitura, o della prestazione professionale, non percepito: quale esemplificativamente, per quanto qui interessa, il profitto di impresa, le spese generali e "la retribuzione dell’opera che non sia consistita nella progettazione o direzione dei lavori", con i relativi accessori, nonchè ogni altra posta rivolta ad assicurare egualmente al richiedente – direttamente o indirettamente, tramite il ricorso ai parametri di cui si è detto – quanto si riprometteva di ricavare dall’esecuzione del contratto; o che è lo stesso dall’esecuzione di analoghe attività remunerative nello stesso periodo di tempo.

Resta da queste statuizioni assorbita e risolta anche la questione della utilizzabilità della revisione prezzi nella determinazione dell’indennizzo dovuto all’imprenditore che ha eseguito l’opera al di fuori di un valido contratto di appalto, che la Corte siciliana ha contraddittoriamente liquidato dopo aver ripetutamente escluso di voler far ricorso all’istituto – tipico del contratto suddetto introdotto dal d.l.c.p.s. 1501 del 1947 (o dall’art. 1664 cod. civ. per gli appalti privati): senza saper peraltro indicare quali norme o principi giuridici prevedano un rimedio similare nell’ambito della nozione di "impoverimento patrimoniale": perciò solo apoditticamente affermato (pag. 9).

D’altra parte, se lo scopo dell’inclusione dell’importo suddetto è soltanto quello indicato dalla Corte nella prima parte della motivazione, di compensare i maggiori esborsi dovuti sostenere dal Consorzio ravennate per la realizzazione dell’opera a causa dell’aumento dei prezzi dei materiali e della manodopera, allora lo stesso doveva essere subordinato esclusivamente alla prova rigorosa da parte dell’impresa, di averli effettivamente sostenuti (in misura superiore a quella riconosciuta dal Comune con la delibera 648/1991);

e dovendo l’indennizzo essere calcolato nei soli limiti in cui la relativa prova era stata fornita, non aveva senso il riferimento al valore dei beni realizzati e dei servizi utilizzabili, nè tanto meno all’aumento percentuale dei prezzi correnti di mercato subito nel periodo considerato, che è lo strumento di analisi tipico dell’istituto contrattuale: anche perchè nel caso non poteva esservi il dato iniziale di raffronto solitamente costituito dai prezzi di capitolato, indispensabile per quantificare l’eventuale differenza.

Mentre se la decisione ha inteso remunerare "l’utile d’impresa" e comunque l’aumento percentuale subito dai prezzi di mercato nel periodo considerato, si da determinare (e compensare) la variazione assoluta presunta della spesa complessiva dell’opera (da qui il riferimento al suo valore effettivo), perciò avvalendosi del meccanismo esclusivo dell’istituto della revisione e peraltro conseguendone la precipua funzione, non bastava escludere ripetutamente di avervi inteso fare ricorso, una volta che era stato interamente applicato; ed il consueto espediente di precisare che l’utilizzazione è avvenuta a titolo meramente parametrico per quantificare la diminuzione patrimoniale in base a dati certi e non arbitari, non poteva valere per quanto si è detto a superare la considerazione della stessa Corte di appello che l’istituto non era applicabile perchè ne difettavano i presupposti previsti dalla legge: a cominciare dall’esistenza di un valido contratto di appalto tra le parti, senza il quale dunque il compenso revisionale non poteva essere corrisposto nè direttamente, nè per via indiretta (Cass. 5951/2008; 10868/2007).

Il Collegio deve aggiungere che esso non poteva essere liquidato neppure se fosse stato previsto dal contratto di appalto caducato dalle pronunce del giudice amministrativo:posto che la legge 37 del 1973 ha vietato ogni genere di patti in materia, perciò escludendo che il riconoscimento della revisione possa avvenire in via preventiva in sede di stipulazione del contratto e consentendolo soltanto mediante un atto successivo, unilaterale dell’amministrazione che può, dunque, sopravvenire soltanto durante lo svolgimento dell’appalto ovvero al termine di esso (Cass. sez. un. 21292/2005; 18126/2005; 6993/2005).

In relazione alla cui concessione la posizione dell’appaltatore è stata tradizionalmente qualificata di interesse legittimo (Cass. sez. un. 23072/2006; 22903/2005; 1996/2003).

Per cui, attribuendo al rimedio in esame anche la funzione di adeguare altresì i prezzi ai mutati costi dei fattori produttivi da utilizzare per l’adempimento dei lavori, che è invece il ruolo assegnato dal legislatore esclusivamente all’istituto della revisione prezzi, è stato ancora una volta conseguito il risultato di neutralizzare le regole sui presupposti, sui termini e sui procedimenti tassativamente posti dalla legge per la sua applicazione; e la Corte territoriale si è in concreto sostituita alla stazione appaltante nella valutazione discrezionale della "facoltà" di autorizzare la revisione riservata fin dal d.l.c.p.s.

1501/1947 esclusivamente a quest’ultima: perciò incorrendo in una palese violazione del divieto posto dalla L. n. 2248 del 1865, art. 4, e trasformando la tradizionale posizione di interesse legittimo dell’appaltatore che non gli avrebbe consentito di pretenderla nell’azione contrattuale, in quella di diritto soggettivo perfetto a conseguirla automaticamente per il solo fatto che a causa della invalidità del contratto sia ammesso ad esercitare la tutela residuale e sussidiaria concessa dall’art. 2041 cod. civ..

Per queste ragioni, il Collegio deve concludere che la revisione prezzi non può costituire neppure un parametro di riferimento di cui tener conto ai fini della liquidazione dell’indennizzo anche perchè l’utilizzabilità del relativo meccanismo è sottoposto dalla legge a precisi limiti e condizioni, peraltro sempre all’interno di un valido contratto di appalto di o.p.; per cui non è corretto estrapolarlo dal suo contesto ed utilizzarlo senza i limiti di legge cui esso è soggetto, nonchè a maggior ragione per eludere i limiti suddetti, e porre l’appaltatore che ha stipulato un contratto nullo o addirittura inesistente in una situazione più vantaggiosa di quella cui avrebbe avuto diritto in esecuzione di un contratto valido.

La sentenza impugnata che ha disatteso siffatti principi includendo invece nell’indennizzo dovuto al Consorzio ravennate, tutte le poste tipiche di un contratto di appalto, incentrate sugli utili ed i profitti di impresa, nonchè più in generale rivolte a compensare il mancato guadagno dell’imprenditore, va conclusivamente cassata; con rinvio alla stessa Corte di appello di Catania che in diversa composizione determinerà l’indennità in questione attenendosi ad essi e provvedere alla liquidazione delle spese del giudizio di legittimità.

P.Q.M.

La Corte, a sezioni unite, accoglie il ricorso, cassa la sentenza impugnata e rinvia alla Corte di appello di Catania, in diversa composizione, anche per la liquidazione delle spese del giudizio di legittimità.

Redazione