Corte d’Appello Civile Palermo sez. III 23/3/2009 n. 465; Pres. Marino

Redazione 23/03/09
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Osserva

Con ricorso depositato in data 21/11/2007, (omissis), (omissis), (omissis) e (omissis) adivano questa Corte, chiedendo che il Ministero dell’Economia e delle Finanze, in persona del Ministro pro tempore, venisse condannato, ai sensi della L. 24/3/2001, n. 89, al pagamento di una somma – quantificata in e 20.000,00 oltre gli interessi legali e la rivalutazione monetaria dalla data di deposito della domanda – a titolo di equa riparazione per l’irragionevole durata del procedimento promosso, con ricorso recante il n. 5800 e depositato il 25/11/1994, dinanzi al TAR di Palermo ed avente ad oggetto l’annullamento della decisione n. 11021 adottata dal (omissis) di Agrigento, della condizione apposta dalla (omissis) di Agrigento (in regime di prorogatio), con decisione n. 50589 del 21/12/1990, sulla delibera commissariale n. 45/90, avente ad oggetto "Approvazione graduatoria n. 8 posti assistente Asilo Nido Nomina Vincitori Concorso" e della condizione apposta dalla (omissis) di Agrigento (in regime di prorogatio), con decisione n. 31283 del 27/6/1991, sulla delibera n. 510/91 della (omissis), avente ad oggetto "immissione in servizio assistenti asili nido".
Esponevano le istanti che, la pubblica udienza era stata fissata per il giorno 8/5/2007, ben tredici anni dopo il deposito del ricorso.
Con sentenza n. 1587/2007, depositata il 31/5/2007, il TAR accoglieva il ricorso e, per l’effetto, annullava gli atti di controllo impugnati.
Ciò premesso, le ricorrenti deducevano le conseguenze deleterie derivate dall’irragionevole durata del processo, avendo dovuto attendere tredici anni per la definizione di un solo grado di giudizio e non potendosi delineare una condotta processuale negligente a carico delle istanti, le quali, inoltre, in data 6/12/1995 avevano presentato apposista istanza di prelievo, per sollecitare la fissazione dell’udienza di discussione.
Le ricorrenti, pertanto, chiedevano il riconoscimento del diritto ad un’equa riparazione, ai sensi dell’art. 6, paragrafo 1 della Convenzione Europea dei Diritti dell’Uomo, per i danni morali subiti.
Si costituiva il Ministero dell’Economia e delle Finanze, il quale chiedeva l’accoglimento della domanda nei limiti di legge, con compensazione delle spese del giudizio.
A seguito di ordinanza di questa Corte in data 17/4/2008, il difensore delle ricorrenti depositava in Cancelleria copia dei documenti d’identità delle stesse.
All’udienza del 18/12/2008, il difensore produceva copia conforme della sentenza del TAR n. 1587/2007 e copia dell’ordinanza del TAR in data 5/12/2008, con la quale era stata disposta la correzione della suddetta sentenza, nel senso che la ricorrente (omissis) doveva essere sostituita con (omissis). Indi, le ricorrenti ed il Ministero insistevano nelle proprie domande e difese. La Corte poneva la causa in decisione.
Il ricorso va accolto solo parzialmente.
È da premettere che, l’art. 2 della legge n. 89 del 2001 riconosce il diritto ad un’equa riparazione a chi subisca un danno, patrimoniale o non patrimoniale, per effetto della violazione della Convenzione per la salvaguardia dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali, ratificata con legge n. 848 del 1955, sotto il profilo del mancato rispetto dell’art. 6, paragrafo uno, della citata Convenzione, che riconosce il diritto della persona a che "la sua causa sia esaminata… in un tempo ragionevole, da un tribunale". Il legislatore nazionale, disponendo che, nell’accertare la violazione, il giudice debba considerare la complessità del caso e, in relazione alla stessa, il comportamento delle parti e del giudice del procedimento, nonché quello di ogni altra autorità chiamata a concorrervi o, comunque, a contribuire alla sua definizione, ha fatto chiaro riferimento ai canoni interpretativi della giurisprudenza della Corte Europea per i Diritti dell’Uomo. Al riguardo, va brevemente osservato che, secondo quest’ultima, nella valutazione della complessità del caso, che, se esistente, provoca necessariamente il superamento dei normali tempi processuali, occorre fare riferimento sia ad elementi di fatto (quali, ad esempio, novità o importanza delle questioni, pluralità di domande, numero delle parti e dei testimoni, necessità di lunghe ed impegnative indagini, accertamenti tecnici o quantità di documenti da esaminare), che ad elementi di diritto (quali questioni controverse in dottrina e giurisprudenza o difficoltà giuridiche particolari).
Il comportamento delle parti, che deve essere sempre improntato a diligenza, limita o esclude invece la responsabilità dello Stato nel caso d’abuso dei poteri loro conferiti dalle norme processuali, d’attività tendente ai fini dilatori (come le istanze di mero rinvio), di assenza dalle udienze, di dismissione del mandato da parte dell’avvocato e sua sostituzione con nomina conferita ad altro difensore, di riassunzione non immediata della causa, di lunghe pause tra i diversi gradi del giudizio, di chiara volontà concorde delle parti di differire la conclusione del processo.
È stato sottolineato che, il temperamento attingibile dai suddetti criteri (complessità della controversia e condotta processuale delle parti) non può tuttavia mai portare ad una radicale sterilizzazione del dato temporale, giacché le cause complesse e quelle in cui le parti abbiano tenuto un comportamento defatigatorio non sono sottratte alla norma che ne impone la definizione in un tempo ragionevole, il giudice potendo e dovendo far fronte alla complessità con un più risoluto ed incisivo impegno di studio ed al comportamento defatigatorio delle parti con i rimedi all’uopo previsti dal c.p.c. (Cass. S.U. 1338/04).
Inoltre, secondo la giurisprudenza della Corte Europea, sono irrilevanti e non consentono quindi d’escludere la responsabilità dello Stato, le disfunzioni ed i ritardi riconducibili all’organizzazione amministrativa ed al sistema processuale e, in particolare, alla mancata predisposizione di misure idonee alla sollecità definizione dei procedimenti, attraverso un’adeguata predisposizione di risorse umane e materiali ed un’efficiente organizzazione degli uffici. Con specifico riferimento al carico di lavoro dell’organo giudicante, la Corte Europea ha ritenuto che, in base all’art. 6 della Convenzione, l’Autorità ha l’obbligo di organizzare il sistema giudiziario in modo tale che i Tribunali possano soddisfare tutti i requisiti del giusto processo previsti dalla disposizione richiamata. In buona sostanza, la valutazione circa la violazione del termine ragionevole del processo va formulata in termini meramente oggettivi, indipendentemente da ogni indagine sulla possibilità d’addebitare o d’imputare la violazione stessa all’uno o agli altri organi dello Stato.
Va poi aggiunto che, in base all’art. 2, comma terzo della legge n. 89 del 2001, l’equa riparazione deve essere determinata a norma dell’art. 2056 c.c. (e degli artt. 1223, 1226 e 1227 dal primo richiamati), con riferimento al solo periodo eccedente il termine ragionevole e nel rispetto del principio dell’onere della prova.
Nel caso di specie, il periodo da prendere in considerazione va dal 25/11/1994 (data del deposito del ricorso presupposto, indicata nella sentenza del TAR) al 31/5/2007 (data del deposito della sentenza del TAR).
Orbene, con riferimento al carattere ragionevole della durata, non v’è dubbio che un periodo di tempo di 12 anni, 6 mesi e 6 giorni per la pronuncia della sentenza di primo grado è, secondo i criteri della giurisprudenza comunitaria (alla quale questo Giudice deve adeguarsi), irragionevole. Al riguardo, va rilevato che un periodo di tre e due anni è stato individuato, in via approssimativa e generale, dalla giurisprudenza della Corte Europea, quale durata ragionevole, rispettivamente, del procedimento di primo e secondo grado.
Quanto alla condotta delle istanti, risulta che le stesse hanno fatto ricorso agli impulsi sollecitatori in loro potere, tesi ad ottenere una più spedita trattazione della causa, mediante la presentazione di due istanze di fissazione di udienza e di un’istanza di prelievo (v. documentazione allegata alla domanda). Per il resto, non emergono elementi, dai quali possa desumersi un atteggiamento processuale defatigatorio o negligente delle ricorrenti. E, poi, in re ipsa l’insussistenza della temerarietà della lite, stante l’avvenuto accoglimento del ricorso.
Per quanto riguarda i danni conseguenti all’accertata irragionevole durata del provvedimento, va rilevato che le istanti hanno prospettato soltanto danni non patrimoniali, i quali vanno senz’altro riconosciuti. Va premesso che il giudice italiano, chiamato a dare applicazione alla legge n. 89/2001, deve interpretarla in modo conforme alla Convenzione Europea. E dalla giurisprudenza della Corte di Strasburgo – che è il giudice ultimo delle violazioni alla Convenzione, al quale anche il giudice nazionale deve fare riferimento – si desume che il danno non patrimoniale conseguente alla durata non ragionevole del processo, una volta che sia stata provata la violazione dell’art. 6 della Convenzione, viene normalmente liquidato alla vittima della violazione senza bisogno che la sua sussistenza sia provata, sia pure in via soltanto presuntiva (e ciò a differenza del danno patrimoniale, per il quale si richiede, invece, la prova della sua esistenza). Il danno non patrimoniale, infatti si verifica normalmente, e cioè di regola, per effetto della violazione stessa. Ed invero, è normale che la anomala lunghezza di un processo produca nella parte che vi è coinvolta un patema d’animo, un’ansia, una sofferenza morale che non occorre provare. Trattasi di conseguenze non patrimoniali, che possono ritenersi presenti secondo l’id quod plerumque accidit, senza bisogno di alcun soggetto probatorio relativo al singolo caso e sempre che non emergano situazioni concrete (che non ricorrono nel caso di specie), in presenza delle quali tali conseguenze normali della pendenza del processo vanno escluse, perché il protrarsi del giudizio risponde ad un interesse della parte o è comunque destinato a produrre conseguenze, che la parte percepisce come per lei favorevoli.
Valutando, quindi, tutti gli elementi del caso concreto e rilevando che, per la liquidazione del danno non patrimoniale deve farsi riferimento a quella effettuata in casi simili dalla Corte di Strasburgo (Cass., S.U., 1340/04; vedi anche Cass., n. 8568 del 2005, la quale ha precisato che la Corte di Strasburgo ha individuato in un importo compreso fra euro 1.000,00 ed euro 1.500,00 per anno la base di partenza per la quantificazione dell’indennizzo a titolo di danno non patrimoniale), reputa la Corte rispondente ad equità liquidare alle istanti, a titolo di riparazione per la durata non ragionevole del processo, la somma di e 9.500,00 (novemilacinquecento/00) ciascuna, al cui pagamento va, pertanto, condannato il Ministero dell’Economia e delle Finanze.
Le ricorrenti hanno chiesto anche gli interessi legali e la rivalutazione monetaria. Quanto agli interessi legali, gli stessi sono dovuti dalla data della domanda (21/11/2007) al soddisfo. Non è, invece, dovuta la rivalutazione monetaria, avuto riguardo al carattere indennitario (e non risarcitorio) dell’obbligazione di cui al presente procedimento (Cass., 13/4/2006, n. 8712).
Avuto riguardo all’accoglimento soltanto parziale delle richieste delle istanti e tenuto conto del fatto che il Ministero non si è opposto all’accoglimento della domanda, sussistono giusti motivi per dichiarare interamente compensate tra le parti le spese del presente giudizio.
P.Q.M.
La Corte, visti gli artt. 2 e segg. L. 24/3/2001, n. 89, condanna il Ministero dell’Economia e delle Finanze, in persona del Ministro pro tempore, al pagamento in favore di (omissis), (omissis), (omissis) e (omissis), a titolo di equa riparazione per l’irragionevole durata del processo, della somma di e 9.500,00 (novemilacinquecento/00) ciascuna, oltre gli interessi legali dalla data della domanda (21/11/2007) al soddisfo.

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