Rito del lavoro. In primo grado l’omessa o inesistente notifica del ricorso di lavoro non preclude la concessione di un nuovo termine perentorio.

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Si consolida la giurisprudenza della sezione lavoro che prevede la possibilità per il ricorrente di chiedere ed ottenere un nuovo termine, perentorio, per la notifica del ricorso introduttivo del giudizio, in caso di precedente omissione ovvero inesistenza dell’originaria notificazione.

In particolare, la Corte di Cassazione, con la sentenza n. 12333, pubblicata in data 17 giugno 2016, in virtù della rinnovata giurisprudenza di recente formatasi sul punto, afferma il seguente principio di diritto: “Nel rito del lavoro, nel caso di omessa o inesistente notifica del ricorso introduttivo del giudizio e del decreto di fissazione dell’udienza, è ammessa la concessione di un nuovo termine, perentorio, per la rinnovazione della notificazione di tali atti”.

Ma attenzione il suddetto principio, che si applica oltre che ai giudizi di lavoro veri e propri, anche a quelli che seguono tale rito speciale (ad esempio, l’opposizione avverso la cartella esattoriale) ed ai giudizi per l’ottenimento dell’equo indennizzo da irragionevole durata del processo, risulta utilizzabile solo per il primo grado.

Ciò perché l’art. 415 c.p.c. non contiene una esplicita sanzione per l’omessa notifica del ricorso introduttivo e del decreto di fissazione dell’udienza, peraltro, in siffatti casi non si è ancora instaurato il contraddittorio, pertanto, non vi sarebbe alcuna esigenza della controparte da tutelare, né ciò potrebbe in qualche modo collidere con il principio del cd. giusto processo, in considerazione del fatto che, una sentenza di inammissibilità per omessa notificazione del ricorso introduttivo del giudizio, certamente si atteggerebbe come una pronuncia in rito, il che non precluderebbe la riproposizione del ricorso, in assenza di un giudicato nel merito della pretesa originaria.

Da queste considerazioni, oltre che a quelle che da qui a breve si andranno ad esplicitare, appare evidente come l’anzidetto principio non appaia estensibile anche al grado di appello ed ai giudizi di opposizione a decreto ingiuntivo.

Ed invero, per come evidenziato nella sentenza oggi in commento, praticamente speculare a quella della medesima Corte del 27.01.2015, n. 1483, “il processo del lavoro di primo grado, poi, è strutturalmente diverso rispetto a quello di appello ed all’opposizione a decreto ingiuntivo, aventi natura impugnatoria a struttura bifasica, in quanto in esso la notifica dei ricorso assolve unicamente la funzione di consentire l’instaurazione del contraddittorio e si configura come una fase caratterizzata da autonomia formale e strutturale rispetto a quella precedente, di proposizione della domanda, che si esaurisce nel deposito del ricorso”.

A ciò si aggiunga come, a differenza di quanto accade nei giudizi d’appello e in quelli di opposizione a decreto ingiuntivo, laddove sussiste uno specifico obbligo a carico della cancelleria di comunicare il decreto di fissazione d’udienza a parte ricorrente, nel giudizio di primo grado un siffatto onere non vige, di talché apparirebbe irragionevole trattare fattispecie diverse in maniera analoga, con una sanzione di improcedibilità che potrebbe risultare eccessivamente rigorosa per il ricorrente in primo grado, qualora lo stesso, per i motivi più disparati, non abbia avuto contezza ovvero non si sia tempestivamente avveduto della fissazione dell’udienza di discussione.

Per completezza espositiva deve darsi atto del ragionamento operato dalla Suprema Corte, in merito alla sanzionabilità del comportamento tenuto dal ricorrente in primo grado che non ha avuto contezza del deposito del decreto di fissazione dell’udienza e dei possibili risvolti sulla eccessiva durata del processo.

Ebbene la Corte di Cassazione si pone l’interrogativo per cui “se parte ricorrente comunque non ha avuto conoscenza del deposito del decreto e, in ragione di ciò, non ha provveduto alla notificazione e chiede l’autorizzazione a rinnovarla, ove venisse seguita l’esegesi qui non condivisa si porrebbe il problema se l’inosservanza dell’onere informativo incombente sulla difesa tecnica possa essere sanzionato con una pronuncia di inammissibilità o improcedibilità del ricorso”.

La soluzione prospettata dalla stessa tiene conto del fatto che: “il legislatore ben può condizionare l’esercizio di atti di difesa giudiziale al rispetto di termini ed al compimento di atti, anche a pena di improcedibilità o di inammissibilità, ma, in ossequio al principio di effettività della tutela giurisdizionale del diritto, non è lecito presumere che una tale conseguenza sia prevista implicitamente in situazioni nelle quali non risulti, al contempo, garantito alla parte onerata dal rispetto del termine la tempestiva conoscenza dei momento dal quale essa prende a decorrere (così, da ultimo, ancora C.ass. SS.UU. n. 5700 del 2014, ma v. già Cass. n. 5493 del 2012). Ciò che ha indotto la Corte costituzionale (sent. n. 15 del 1977), nel quadro delle garanzie del diritto di difesa, a dichiarare l’illegittimità dell’art. 435 c.p.c., comma 2, nella parte in cui non dispone che l’avvenuto deposito del decreto presidenziale di fissazione dell’udienza sia comunicato all’appellante e che da tale comunicazione decorre il termine di notificazione all’appellato. Si è introdotto così un obbligo di comunicazione dell’avviso di deposito di detto decreto che funge da contrappeso alla sanzione di improcedibilità, obbligo che l’art. 415 c.p.c. invece non prevede”.

Il secondo interrogativo che la Corte si pone è quello per cui: “resta da chiedersi se impedire la rinnovazione della notificazione omessa o inesistente del ricorso introduttivo del giudizio realmente giovi all’osservanza del canone di ragionevole durata del processo”.

A tale riguardo, la stessa riferisce che: “in realtà, ove di tale principio non si coltivi una visione legata al dato puramente formale della data in cui il singolo affare è iscritto a ruolo e quella in cui viene statisticamente definito, ma si annodi la vicenda processuale alla situazione giuridica sostanziale sottostante, per cui il processo ha durata ragionevole in considerazione del lasso temporale che trascorre tra il momento in cui il cittadino accede al servizio giustizia ed il momento in cui riceve una pronuncia sul merito del diritto preteso, deve convenirsi che la preclusione alla rinnovazione della notificazione può realizzare effetti distonici rispetto alle finalità che l’art. 111 Cost. intende perseguire. Infatti, la pronuncia in rito condurrà alla riproposizione del medesimo ricorso, con differimento dei tempi processuali tesi ad ottenere una decisione sul merito. Peraltro, salvo che il decorso del tempo non abbia prodotto decadenze o prescrizioni. Quella pronuncia di merito, unica idonea a soddisfare l’interesse della parte, che è garanzia di effettività della tutela ai sensi dell’art. 24 Cost., la quale per la Corte di Giustizia implica che le modalità di attuazione della tutela giudiziario non debbano rendere in pratica Impossibile o eccessivamente difficile l’esercizio dei diritti (ex plurimis, CGUE, 19 settembre 2006 Germany e Arcor, C- 392/04 e C-422/04, punto 57; 30 giugno 2011, Nellicke e a., C-262/09, punto 55; Pelati d.o.o. contro Republika Slovenija, 18 ottobre 2012, n. 603, punto 23 e 25). Se poi la decisione di rito interviene nelle fasi o in gradi processuali successivi, magari azzerando istruttoria e pronunce, l’allungamento della durata del processo rettamente intesa appare inconciliabile con un “processo giusto”. Come emblematicamente accaduto nella specie, laddove la sentenza in rito della Corte territoriale ha riformato, a distanza di anni dall’introduzione del giudizio, la decisione di merito di primo grado, con ingente dispersione di risorse processuali, riportando le parti al punto di partenza”.

Avv. Accoti Paolo

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