Ritardo nella diagnosi di una malattia dall’esito infausto: lesione del diritto di autodeterminarsi

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Nel caso di specie, secondo i giudici di legittimità, il diritto di autodeterminazione, in base al quale la paziente avrebbe potuto scegliere liberamente quale percorso intraprendere una volta edotta della sua malattia, è risarcibile in quanto si tratta di un diritto costituzionalmente protetto.

Indice:

  1. I fatti
  2. I primi due motivi di ricorso
  3. Il diritto di autodeterminarsi
  4. Conclusioni

I fatti

La Corte di cassazione, con la sentenza in commento, si è pronunciata avverso un ricorso presentato dagli eredi di parte attrice, morta in corso di causa, i quali avevano impugnato la pronuncia della Corte d’Appello di Firenze che aveva rigettato la richiesta di risarcimento dei danni asseritamente subiti dalla attrice per un evento di malpractice medica.

All’origine, parte attrice aveva adito il Tribunale di Lucca deducendo che il medico, cui si era recata per un’affezione cutanea presente sull’alluce sinistro, non aveva accertato tempestivamente la reale natura dell’affezione che presentava, la quale, dopo aver effettuato dopo un anno dal primo incontro degli esami più approfonditi, si era rivelata essere un melanoma maligno.

Il medico dermatologo si era costituito in giudizio chiedendo il rigetto delle domande di parte attrice. Egli sosteneva che era stata la paziente a rifiutarsi di sottoporsi a più approfonditi accertamenti nel corso delle cure.

Come suddetto, la paziente, parte attrice nel giudizio di primo grado, moriva in corso di causa; si costituivano così in giudizio, in qualità di eredi, i suoi figli i quali proponevano appello avverso la sentenza del Tribunale di Lucca che aveva respinto la domanda attorea in quanto dalla C.T.U. non era emersa alcuna negligenza del medico e neppure era stato accertato il nesso causale tra il melanoma e la morte della paziente.

La Corte territoriale, adita dagli eredi della paziente, respingeva l’appello sulla base di due motivi: in primo luogo, riteneva che gli eredi potevano agire solo iure successionis, poiché aventi causa della madre (invece “per chiedere iure proprio i danni cagionati dalla morte della madre avrebbero dovuto iniziare una nuova  diversa causa”); in secondo luogo, riteneva che l’attrice, ossia la paziente, avrebbe dovuto dimostrare che i danni patiti e la successiva morte fossero collegati all’imperizia e negligenza del medico (onere della prova che, la Corte riteneva tuttavia non essere stato assolto).

A seguito del ricorso promosso dagli eredi della paziente, dunque,  la questione giungeva dinnanzi alla Corte Suprema, la quale accoglieva il terzo motivo di ricorso con il quale veniva denunziato che la Corte territoriale aveva errato nel ritenere non allegato e non provato il danno che la paziente deceduta aveva sofferto. In particolare, la Corte di legittimità cassava la sentenza della Corte d’Appello e rinviava alla stessa, in diversa composizione, la causa in attesa di nuova pronuncia.

La Corte d’Appello di Firenze, presso cui veniva riassunta la causa, pronunciava nuova sentenza con la quale respingeva ancora una volta le domande risarcitorie iure ereditatis degli eredi della paziente  in quanto, nuovamente, riteneva non provato il nesso causale tra la presunta condotta colposa del medico e il decesso della donna. In particolare, i giudici della Corte territoriale affermavano che una corretta e tempestiva diagnosi nel corso della prima visita non avrebbe comportato un esito differente della vicenda, in quanto il tumore si presentava già “ad uno stadio tale da poterle generare”.

Non soddisfatta neanche da questa pronuncia, parte ricorrente presentava ancora ricorso dinnanzi alla Cassazione, denunziando quattro motivi

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I primi due motivi di ricorso

Il primo motivo di ricorso, con il quale parte ricorrente sosteneva che la Corte territoriale non avesse osservato le risultanze della C.T.U., è stato rigettato dalla Corte di Cassazione, che ha richiamato a tal fine un precedente orientamento (Cass. Sez. I, n.5148/2011; Cass Sez. I, n. 988/2021) secondo il quale il giudice può legittimamente disattendere le conclusioni rese dal consulente d’ufficio avvalendosi di una valutazione critica ancorata a risultanze processuali e validi motivi. Secondo gli Ermellini, la decisone della Corte d’Appello non contrastava infatti con detti principi giurisprudenziali, fondando, perdi più, la sua decisone a dati scientifici acquisiti in corso di causa.

Con il secondo motivo di ricorso, veniva lamentato che la Corte territoriale si era ispirato al criterio dell’ “oltre ogni ragionevole dubbio”, piuttosto che al criterio del “più probabile che non” nel giudizio di accertamento del nesso di causalità tra i danni sofferti e la morte della paziente. Anche tale motivo è stato rigettato dalla Suprema Corte: secondo gli Ermellini, infatti, se è pur vero  che nel processo civile, a differenza di quello penale, vige la regola del “più probabile che non”, tuttavia, nel caso di specie, la Corte d’Appello aveva correttamente escluso il nesso di causalità proprio sulla base di un giudizio di verosimiglianza e non di certezza assoluta (infatti, non vi era la certezza assoluta che una tempestiva e precoce diagnosi della malattia avrebbe permesso di evitare il danno).

Il diritto di autodeterminarsi

Con il terzo motivo di ricorso, veniva lamentato che la Corte territoriale si era pronunciata solo su una parte delle domande avanzate dal ricorrente in quanto veniva tralasciata la domanda “sui gravi danni patrimoniali anche connessi al decesso e non solo quelli conseguenti a detto evento finale”, mentre con il quarto motivo parte ricorrente denunziava che la Corte territoriale non aveva osservato i precedenti e costanti orientamenti della Corte di legittimità, non considerando che “il ritardo nella diagnosi avrebbe determinato di per sé una lesione del diritto di autodeterminarsi”.

I giudici di legittimità hanno accolto i due suddetti motivi di ricorso (esaminati congiuntamente), in quanto hanno ritenuto che la Corte d’Appello aveva omesso di considerare il seguente fatto: ossia il paziente, anche a seguito di una diagnosi di una malattia ad esito infausto, deve essere messo in una condizione tale da poter scegliere, nell’ambito dei suggerimenti della scienza medica, come “fruire della salute residua fino all’esito infausto e di programmare il suo essere persona in vista di quell’esito”.

Alla base di tale affermazione, si trova il c.d. principio di autodeterminazione, in virtù del quale nessun trattamento sanitario può essere compiuto in difetto del previo ed esplicito consenso del soggetto interessato. Quest’ultimo, infatti, è libero di scegliere in che modo “far fronte” alla malattia, anche in virtù di quanto disposto dall’art. 32 della Costituzione (“Nessuno può essere obbligato ad un determinato trattamento sanitario se non per disposizione di legge“). Il consenso del paziente, che deve essere libero e consapevole (c.d. consenso informato), è ritenuto espressione dei diritti inviolabili della persona alla salute e ad autodeterminarsi. Il paziente deve trovarsi in una condizione tale da esprimere una scelta che sia frutto di una volontà consapevole e informata (ex art. 33 L. 833/1978).

Conclusioni

Secondo i giudici di legittimità, il diritto di autodeterminazione, in base al quale la paziente avrebbe potuto scegliere liberamente quale percorso intraprendere una volta edotta della sua malattia, è risarcibile in quanto si tratta di un diritto costituzionalmente protetto.

Sul punto, gli ermellini sono concordi nel ritenere che la condotta del medico non ha causato la morte della paziente, con conseguente esclusione dei danni non patrimoniali per lesione del diritto alla salute e/o alla vita, ma affermano, a differenza della Corte territoriale, che la condotta del medico ha comportato un peggioramento del periodo rimanente della paziente determinando, conseguentemente, la risarcibilità per lesione del diritto di autodeterminarsi. Infatti, l’omissione da parte del personale sanitario della diagnosi di una malattia terminale integra l’esistenza di un danno risarcibile poiché non permette al paziente di poter scegliere “cosa fare”: ciò nel senso che il paziente deve essere messo in una condizione tal da poter programmare il corso della vita in vista di quell’esito determinato dalla malattia terminale.

Per i motivi suddetti, la Corte suprema ha dunque rinviato nuovamente la causa alla Corte d’Appello fiorentina, che sarà chiamata ad applicare tale principio: i giudici fiorentini dovranno cioè valutare se gli eventuali colpevoli ritardi del medico nella diagnosi di patologie dall’esito infausto hanno determinano il danno per la perdita di un ventaglio di opzioni con le quali la paziente avrebbe potuto decidere come affrontare la fine della sua vita.

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Avv. Muia’ Pier Paolo

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