Ristretta base azionaria e presunzione di distribuzione degli utili occulti

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Corte di Cassazione, Sentenza 23 dicembre 2019 n. 34282

Nelle ipotesi di società a ristretta base partecipativa, è legittima la presunzione di attribuzione ai soci degli eventuali utili extracontabili accertati, rimanendo salva la facoltà del contribuente di offrire la prova del fatto che i maggiori ricavi non siano stati distribuiti, ma accantonati dalla società, ovvero da essa reinvestiti. Tale principio è stato, altresì, completato precisando che la presunzione di distribuzione degli utili extra-bilancio può essere vinta dal contribuente anche fornendo la dimostrazione della propria estraneità alla gestione e conduzione societaria.

Considerazioni introduttive.

Viene definita società a ristretta base azionaria la società di capitali composta da un numero limitato di soci, legati spesso da vincoli di parentela e/o affinità.

Orbene, negli anni, la progressiva generalizzazione e diffusione del suddetto schema societario ha visto gli uffici finanziari approdare a una sorta di “equiparazione” tra le società di persone e le società di capitali a ristretta base partecipativa ritenendo, anche per queste ultime, legittimo assoggettare a tassazione i maggiori utili extra-bilancio non dichiarati e accertati nei confronti della società, direttamente in capo ai soci, presumendo che tali utili occulti fossero loro distribuiti.

In sostanza, se viene dimostrato che la società non ha dichiarato ricavi, il fatto che la cerchia sociale sia estremamente ristretta (pochi soci, in molti casi familiari o affini) fa presumere che il maggior reddito sia stato anche “ripartito” tra le persone fisiche.

Tanto, ha trovato conforto anche in un consolidato orientamento della Corte di Cassazione cheritiene legittima la presunzione di attribuzione ai soci degli eventuali utili extracontabili accertati in capo ad una società di capitali a ristretta base sociale.

Nello specifico, la Cassazione ha confermato tale impostazione precisando che il presupposto in base al quale sia legittimo presumere che vengano distribuiti ai soci gli utili “in nero” accertati alla società di capitali a ristretta base azionaria, sia ravvisabile proprio nell’esiguità del numero dei compartecipi, nel vincolo di solidarietà tra loro, nella possibilità che ciascuno ha di conoscere gli affari societari, nel reciproco controllo.

La ridotta compagine sociale, quindi, rappresenta a tutti gli effetti la chiave di volta che consente all’Amministrazione Finanziaria di presumere la distribuzione di utili in capo ai soci, di recuperare le imposte da questi non versate (unitamente a sanzioni e interessi) e di ribaltare su di loro l’onere di dimostrare in giudizio il contrario.

Ne consegue, che viene semplicisticamente delegato al contribuente il compito di produrre una prova complessa tesa a dimostrare, a contrario, di non aver percepito alcun utile “in nero”.

Ebbene, è evidente che seppur avallato dalla giurisprudenza di legittimità, tale meccanismo operativo risulti, oltre che privo di qualsiasi ancoraggio normativo, anche totalmente censurabile sotto il profilo della razionalità e del coordinamento con i principi generali del diritto sostanziale tributario; e tanto, anche alla luce del fatto che la ristretta base azionaria, assunta come fatto noto per presumere l’esistenza di un vincolo di complicità che avvince i partecipanti al sodalizio, non può far ulteriormente presumere, con sufficiente probabilità, che quegli utili siano stati effettivamente distribuiti ai soci, che la distribuzione sia avvenuta nello stesso periodo d’imposta in cui li avrebbe prodotti la società e nella stessa proporzione della quota di partecipazione al capitale sociale.

Ci sono però due aspetti che possono mitigare queste considerazioni:
da un lato, la dottrina ha preso posizione contro l’applicazione di questo automatismo ai casi in cui gli accertamenti non si concretizzano in una maggiore disponibilità, anche finanziaria, sulla società; dall’altro, le ultime pronunce di merito e legittimità hanno escluso, in particolari condizioni, la possibilità di accertare un dividendo in capo ai soci.

Invero, parallelamente all’orientamento giurisprudenziale appena descritto, se n’è sviluppato un altro che ha inteso smussare la suddetta probatio diabolica ammettendo che la stessa presunzione possa essere vinta:

  • qualora l’amministrazione non sia in grado di fornire la c.d “prova rafforzata” della ristretta base sociale e dell’effettiva distribuzione degli utili;
  • e/o laddove il contribuente dimostri la sua estraneità alla gestione e conduzione societaria.

 

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Orientamenti giurisprudenziali: Corte di Cassazione, ordinanza n. 18042/2018 e sentenza n. 34282/2019.

Tanto premesso, al fine di meglio analizzare la questione oggetto del presente contributo, preme chiarire che in tema di presunzione di distribuzione ai soci degli utili extracontabili accertati in capo ad una società a ristretta compagine sociale, un orientamento della giurisprudenza della Corte di Cassazione ne riconosce la legittimità sulla base del fatto noto costituito dalla complicità, dal vincolo di solidarietà e di reciproco controllo dei soci che normalmente caratterizza la gestione sociale nell’ambito delle anzidette società.

In tal senso, tra tutte si cita la recente pronuncia della Suprema Corte, ordinanza n. 25501/2020, con cui è stato ulteriormente esteso l’utilizzo della presunzione di distribuzione ai soci di utili non contabilizzati, e si è giunti ad ammetterla, oltre che in seguito al recupero di costi inesistenti, anche in quello – ben diverso – dei costi ritenuti indeducibili.

Tuttavia, preme rilevare che sempre la giurisprudenza di legittimità ha però ammesso, in altre circostanze, che la stessa presunzione può essere superata qualora l’amministrazione non fornisca la c.d “prova rafforzata” della ristretta base sociale e dell’effettiva distribuzione degli utili, e/o laddove il contribuente dimostri la sua estraneità alla gestione e conduzione societaria (cfr., ex pluribus Corte di Cassazione, sez. trib., sentenza 23.12.2019, n. 34282; Corte di Cassazione, sez. trib., sentenze 29.10.2019, n. 27639, 27638 e 27637; Corte di Cassazione, VI sez. civile, ordinanza 16.10.2019, n. 26112 e Corte di Cassazione, sez. trib., sentenza 17.7.2019, n. 19171; Corte di Cassazione, sez. trib., sentenza 20.6.2019, n. 16545; Corte di Cassazione, sez. trib., sentenza 19.4.2019, n. 11045 e Corte di Cassazione, sez. trib., ordinanza 14.12.2018, n. 324).

Pertanto, se è pur vero che in più occasioni la Cassazione ha stabilito che la ristretta base partecipativa di una società di capitali determina quei requisiti di gravità, precisione e concordanza propri delle presunzioni semplici, d’altro canto si stanno registrando nuovi approdi giurisprudenziali tesi a rilevare che la dimostrazione della ristrettezza della base societaria è condizione sì necessaria, ma non sufficiente per l’accertamento dei maggiori redditi di capitale a carico dei soci.

In sostanza, per legittimare l’accertamento, l’Ufficio dovrebbe attivarsi per ricercare ulteriori «fatti-indice» presuntivi. In altri termini, per realizzare i caratteri di gravità, precisione e concordanza propri delle presunzioni semplici, deve essere onere dell’Ufficio corroborare il requisito della ristretta base partecipativa con altri elementi al fine di ritenere che la presunzione semplice si sia formata e venga trasferito l’onere probatorio al contribuente. Ad esempio, l’Ufficio dovrebbe provare movimentazioni sospette sui conti correnti oppure operazioni finanziarie o acquisti immobiliari “equivoci”.

Nel dettaglio, si rileva come con l’ordinanza n. 923 del 20 gennaio 2016, la Corte di Cassazione abbia ritenuto illegittimo l’avviso di accertamento emesso nei confronti di un contribuente, fondato solo ed esclusivamente sulla presunzione della ristretta base azionaria, laddove, non solo non è stata dimostrata l’effettiva distribuzione di utili ma, altresì, laddove, il contribuente ha messo a disposizione i propri flussi di reddito transitati in conto corrente dai quali non è dato evincersi alcuna rilevanza o incremento che possa ricondurre alla percezione e distribuzione di extra utili societari.

Sul punto, la Corte di Cassazione, con la pronuncia in commento, ha inteso precisare che, se il contribuente introduce una prova contraria, attraverso l’integrazione di fonti di prova “sufficientemente valide”, le quali sconfessino la ripartizione degli utili presunta dall’Ufficio, l’Amministrazione finanziaria ha l’onere di rispondere, introducendo elementi positivi di dimostrazione dell’avvenuta distribuzione (ulteriori, ovviamente, rispetto alla presunzione).

Ne discende che, la mancata prova diretta, da parte dell’Ufficio, dell’effettiva percezione da parte dei soci del maggior reddito accertato alla società si tradurrebbe in un’inammissibile praesumptio de praesumpto inficiante gli esiti dell’accertamento.

È a questo punto palese, che la caratterizzazione a ristretta base azionaria di una società di capitali non legittima una diretta imputazione pro quota al socio dei redditi societari occultati, se non quando vi siano elementi di prova, idonei a dimostrare che i maggiori utili della società siano stati effettivamente ripartiti tra i soci; inoltre, per l’automatico collegamento tra il reddito societario e quello del socio, deve esserne provata l’effettiva percezione: se tale prova non viene fornita, l’accertamento nei confronti del socio è illegittimo. Né la predetta presunzione di percezione, può essere fornita con una prova negativa di “non percezione”, che costituirebbe una “probatio diabolica“; mentre la prova positiva di distribuzione degli utili prodotti e non risultanti in bilancio, supportata da presunzione indiziaria, deve essere fornita dall’Amministrazione finanziaria con collaterale attività di riscontro o di incrocio.

In senso conforme, si è espressa recentemente la Suprema Corte in tema di presunzioni, con l’ordinanza n.1278 del 18/01/2019, proclamando: “In tema di prove, è inammissibile la c.d. praesumptio de praesumpto, non potendosi valorizzare una presunzione come fatto noto per derivarne da essa un’altra presunzione”.

E ancora, anche le Corti di merito, in conformità alla giurisprudenza di legittimità, si sono pronunciate sulla quaestio iuris affermando che il Fisco deve sempre provare detta distribuzione, non potendo semplicemente presupporla dalla circostanza relativa alla ristrettezza della compagine societaria (cfr. CTR Bari sentenza n. 19 del 17 aprile 2012; CTR Lombardia n. 65/46/11/2011; CTP Napoli n. 145/2012).

Precisamente, l’utilizzo della presunzione legata alla ristretta base sociale al fine di poter recuperare, sul singolo socio, quanto ritenuto occultamente distribuitogli dalla società, pur se ammesso, necessita di ulteriori elementi per provare la percezione di utili, soprattutto se condotto dall’Ufficio nei confronti di un socio con partecipazione minoritaria, avente deboli poteri di gestione (cfr. CTR Lombardia, sentenza n. 5279/2019).

Tanto è stato avvalorato, altresì, dalla Suprema Corte di Cassazione con l’ordinanza 09 luglio 2018, n. 18042, la quale ha chiarito che se il socio è estraneo alla gestione non opera la presunzione di percezione di utili non dichiarati; pertanto, la presunzione può essere vinta dalla dimostrazione dell’estraneità del socio alla gestione sociale.

Più nel dettaglio, la Suprema Corte, con la suddetta pronuncia, in applicazione di tale principio, ha dichiarato inammissibile il ricorso proposto dall’Agenzia delle Entrate avverso la decisione della CTR Toscana, con la quale si era ritenuto che il contribuente avesse efficacemente vinto la presunzione in esame, dimostrando di svolgere la professione di neuropsichiatra e di non essersi mai inserito nella conduzione della s.r.l. – impegnata nel settore della ristorazione – della quale, insieme al figlio, era socio. I finanziamenti erogati nel corso degli anni dal contribuente alla predetta società, infatti, lungi dal comprovare l’interferenza dello stesso nello svolgimento degli affari sociali, risultavano volti unicamente ad offrire un sostegno al figlio, senza alcuna contropartita.

In definitiva, la suddetta sentenza ha chiarito che: «È legittima la presunzione di attribuzione ai soci degli eventuali utili extracontabili accertati, rimanendo salva la facoltà del contribuente di offrire la prova del fatto che i maggiori ricavi non sono stati distribuiti, ma accantonati dalla società, o da essa reinvestiti (Cassazione 5076/11, 9519/09, 7564/03, 6780/03, 7564/03, 16885/03, 18640/08 e 8954/13)», ma al contempo ha  precisato che «la presunzione di distribuzione degli utili extra-bilancio può essere vinta dando la dimostrazione della propria estraneità alla gestione e conduzione societaria (Cassazione 1932/2016, 17461/2017 e 26873/2016)».

Negli stessi termini, gli Ermellini si sono espressi anche con la recente sentenza 23 dicembre 2019 n. 34282 con cui, in particolare, i giudici di legittimità hanno chiarito che nelle ipotesi di società a ristretta base partecipativa, è legittima la presunzione di attribuzione ai soci degli eventuali utili extracontabili accertati, rimanendo salva la facoltà del contribuente di offrire la prova del fatto che i maggiori ricavi non siano stati distribuiti, ma accantonati dalla società, ovvero da essa reinvestiti. Tale principio è stato, altresì, completato precisandosi che la presunzione di distribuzione degli utili extra-bilancio può essere vinta dal contribuente fornendo la dimostrazione della propria estraneità alla gestione e conduzione societaria.

La Cassazione ha, quindi, individuato alcune circostanze che potrebbero scagionare il socio accertato: tra queste, ad esempio, la dimostrazione che, nonostante la ristretta compagine, altri soci detengano il controllo delle scelte gestionali e amministrative.

Si potrebbe, in quest’ottica, produrre i verbali assembleari che dimostrino il conflitto tra il socio di minoranza e quelli di maggioranza; oppure dimostrare che il socio dissenziente abbia promosso iniziative penali o azioni di responsabilità nei confronti dell’organo amministrativo.

D’altronde, negli stessi termini, si sono espressi anche i giudici di merito, i quali hanno chiarito che non può essere supposta nessuna presunzione di distribuzione di utili in capo al socio che non abbia gestito la società e che non abbia commesso l’illecito (cfr., ex pluribus Commissione Tributaria regionale della Lombardia, sentenze n. 4755/2017 e n. 5279/21/2019).

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