Rischi e dilemmi del giurista: il “caso” Carl Schmitt

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La visione del reprobo

Sessanta anni fa veniva dato alle stampe “ex captivitate salus”. L’autore del testo definiva la pubblicazione “un libro capitale” per comprendere le radici storiche e spirituali del XX secolo.

Carl Schmitt, in quelle pagine, consegnava una serie di riflessioni decisive e di interrogativi tuttora aperti sulle due guerre mondiali e sull’essenza  degli eventi moderni nei quali si era trovato a vivere da protagonista del pensiero giuridico e, successivamente, da reprobo.

Il libro dello studioso tedesco è la biografia sintetica di un uomo immerso nel vortice delle cose, consapevole della fama, della fortuna, della disgrazia che sperimenta il giurista allorché  – nella peculiare essenza di visionario e di diagnostico nella quale si riconosce – prende su di sé il senso della Legge, la studia, la conserva, la diffonde, così coltivandone anche le contraddizioni e gli insoluti. Perché, dunque, la sapienza (e/o la saggezza?) che scaturisce dalla cattività, dall’esperienza dell’Io prigioniero?

Carl Schmitt, all’esito della disfatta del Terzo Reich, rischia di essere riconosciuto colpevole di crimini contro la pace e contro l’umanità. Dagli americani viene privato della libertà per due volte. Viene fermato il 26 Settembre 1945 e rimane prigioniero sino al 10 ottobre 1946. Il 19 Marzo 1947 è di nuovo faccia a faccia con la giustizia d’occupazione. Compare al Tribunale alleato di Norimberga, ideato e retto dai vincitori allo scopo di giudicare i delitti commessi dal Nemico, prima trionfante e poi rovesciato e consegnato all’infamia. Consapevoli della retroattività del giudicato, gli alleati – respingendo la questione sollevata dalle difese – proclamano la volontà di perseguire le condotte di chi – a vario titolo – ha colpito la pace del consesso internazionale ed i diritti individuali  e dei popoli coinvolti nel turbine del conflitto. Su Schmitt si indaga al fine di provare la partecipazione alla guerra di aggressione e le sue responsabilità in ordine ai crimini di guerra ed e ai crimini contro l’umanità[1].

I tempi della tranquillità ed i tempi della violenza

In “Ex captivitate salus” è messo in suadente risalto il destino del  giurista in tempi di ricerca e di studio non deformati dalle intermittenze della storia, e nel tempo delle trasformazioni geopolitiche, dei rivolgimenti degli Stati, dell’insorgenza del Nemico. “In tempi tranquilli si formano zone neutre ed ameni parchi a tutela della natura, dello spirito e dei monumenti. In tempi inquieti tutto questo ha fine. Si fa allora acuto il pericolo che è immanente a ogni libero pensare. Lo studioso ed il docente di diritto pubblico si vede allora, d’improvviso, inchiodato a una qualche libera parola e rubricato sotto un qualche libero pensiero, e questo  da parte di uomini che mai in vita  loro di un libero pensiero sono stati capaci, e ai quali ogni libertà dello spirito è per essenza estranea”[2]. Del resto, circa la potenza e la grandezza degli eventi storici – e della loro capacità di dissolvenza delle singole posizioni, specie nell’era della tecnica dispiegata, Carl Schmitt non lascia spazio ad illusioni quando e premette:”Nemmeno uno studioso e un dotto può scegliersi i regimi politici a piacimento”[3]. Ma arriva il momento in cui lo studioso, il Kronjurist, fa i conti con la storia, con la guerra, in ispecie con la guerra civile: e a chi gli domandasse qualcosa sulla sua vera identità di uomo – prescindendo dalla sua opera – ecco la definizione di efficace conio pronunciata dallo studioso: Epimeteo cristiano. Questa è difatti la definizione che dà Carl Schmitt di sé stesso. Epimeteo – indicato come il fratello del più noto Prometeo – significa colui che impara dopo. Diversamente investito di valenza mitica nell’antichità classica, la sua figura richiama puntualmente chi, ingannato dagli Dei e pervaso dei migliori proponimenti sparge gli affanni tra i consimili, scoprendo ex-post facto il senso del dolore ed il peso della menzogna.

 

Giurista sotto mentite spoglie?

E’ sintomatica l’attenzione che nel secondo dopoguerra parte non secondaria della cultura politologica contemporanea ha dedicato a Carl Schmitt, mentre sembra restare venato da maggior pregiudizio il pensiero giuridico stricto sensu, forse in ragione di qualche “stroncatura” da parte degli ambienti accademici.

Massimo Severo Giannini, l’illustre e ben noto studioso del diritto, negava ad esempio che Schmitt fosse un giurista. Gli addebitava di disattendere le basi del diritto privato e circoscriveva l’opera dell’autore tedesco nell’ambito della politologia: tesi che esternò anche al Convegno “La concezione giuridica di Carl Schmitt” (Roma, 19-20 maggio 1986)[4][5].Tale diversità nell’impostare una diversa fisionomia della scienza giuridica, in Italia, non è mancata di emergere del resto già con Santi Romano che, nella sua distinzione tra Teoria generale del diritto e filosofia del diritto, sembrava voler porre delle differenze ontologiche  tra impostazioni e contenuti diversi ma attinti in vista di un comune approccio al diritto.

Per certo, balza all’evidenza la necessità che un pensiero complesso come quello di Schmitt richiede un accostamento ermeneutico pluridisciplinare, restituito per intero (e senza che con ciò si debba revocare in dubbio l’essenza del giurista) dalle fonti ispiratrici che affiorano nei suoi libri e nelle sue pubblicazioni. Nella ricerca del fondamento della teoria generale del diritto – e del suo concreto manifestarsi – c’è già tutto il personaggio, in grado di fare i conti con pensatori e teorici di vasto respiro. Jean Bodin, Thomas Hobbes, Alexis de Toqueville, Donoso Cortès: segnale di una inesausta speculazione nella quale prevale, senza dubbio, un’esigenza metagiuridica, un trascendimento verso il ruolo sovrastorico della Norma e dell’Ordinamento.

Impero, Diritto e Katéchon

Per tratteggiare questa caratteristica teoretica è utile porre in rilievo che in Schmitt assume una posizione non eccentrica il concetto di Katéchon.

L’origine dell’ispirazione, che a sua volta ha alimentato tanta letteratura religiosa (da Eusebio di Cesarea a Martin Lutero), scaturisce da un passaggio della Seconda Lettera di San Paolo ai Tessalonicesi. Nel rivolgersi a quella comunità cristiana, San Paolo fa espresso riferimento al Katéchon come a ciò o colui che “trattiene” l’erompere pieno ed assoluto del male nella Storia e quindi  “ritarda” la venuta dell’Anticristo. Tale visione è per Schmitt da mettersi in collegamento con l’Imperium e con la funzione – esplicitata nella storia – di “ritardatore” della piena espressione del “mysterium iniquitatis”. Nello studioso tedesco, la riflessione sul tema comporta qualcosa di più: l’interpretazione del katéchon nella sua dimensione istituzionale (organica rispetto alla missione  epocale di contenimento dell’epilogo anticristico) ma anche nella sua immanente veste di una “funzione” alla quale, anche per frammenti ed episodi, diversi sono i soggetti chiamati a concorrere, compresi gli ordinamenti sovranazionali del Vecchio Continente.[6]

Intorno al concetto di Katéchon si sono mossi diversi autori, provenienti da aree di studio solo in minima parte collimanti con quella d’origine di C. Schmitt. Un chiaro dissenso rispetto all’interpretazione schmittiana o – meglio – sul giudizio di valore rapportabile al Katéchon può ad esempio leggersi nell’opera di S. Quinzio –  commentatore ricco ed originale dei testi biblici – che si congeda da ogni  versione “positiva” ed istituzionalistica del concetto paolino, rintracciandovi invece l’aspetto negativo – e quindi anticristico – della procrastinazione dell’evento apocalittico, complice o responsabile l’Ordine sacro, cioè la Chiesa.[7]  In un’ottica in cui si fa prevalente la dimensione dell’Ordine e della Norma, tornando alle evocazioni esplicite di “Ex Captivitate salus”, si colloca la presenza e l’opera di Bodin e Hobbes. La sapienza distillata dai teologi nell’ambito della Potestas spiritualis della Chiesa si trasferisce – secondo lo schema interpretativo tratteggiato da Schmitt – nei palazzi del Sovrano attraverso i fondatori dello Jus publicum europeum.

 

Cosa si salva e cosa si perde

Il trasferimento alla corte del Principe non è altro che il tentativo di salvezza di un sapere depurato dai gorghi della guerra civile e delle dispute teologiche (con riferimento agli scontri religiosi del ‘500 e ‘600), pur tra i pericoli gravi che quegli stessi studiosi correvano nei tempi in cui elaboravano il loro pensiero e le rispettive opere.

Con un parallelo che richiama uno sfondo di carattere esistenziale, Schmitt evoca in Ex captivitate salus il pericolo e le disgrazie in agguato per il moderno giurista. La tecnica contemporanea che tende a sopraffare il sapere del giurista è la metafora della guerra civile, dell’immane strage compiuta dall’assolutezza e dalla categoricità dei teologi nei confronti degli spiriti  indipendenti e disperati di un’epoca in trasformazione. Schmitt rammenta la frase di Alberico da Gentile, “Silete theologi, in munere alieno” (un’esortazione diretta, volta a imporre a non occuparsi delle questioni di diritto, così come esso si stava affrancando nel lento passaggio tra medioevo e età moderna). Il giurista post-1945, così facendo, razionalizza la sua disgrazia presente, a sua volta già costretto a tacere per non soccombere di fronte allo stato moderno ed  alla potenza dei mezzi, dei numeri, delle invenzioni, silenziosamente coartato nella ricerca della sopravvivenza in un’era di neutralizzazione della tecnica e di spoliticizzazione generale.

Eccezione e decisione

Ma perché Carl Schmitt, pur prendendo le distanze – ipocritamente? Tardivamente? Surrettiziamente? – dallo stato totalitario tedesco a cavallo tra gli anni trenta e quaranta, egli resta pur sempre l’hostis delle potenze alleate? Perché viene processato e proscritto?

Alla caduta del Reich, tanti sono i sospetti suscitati dalla sua formula de lo stato di eccezione[8]. Su quest’ultimo Schmitt ben sapeva che si infrangevano gli schemi dei giuristi positivisti di fine ottocento, e che il tema rimaneva lo scoglio incompreso anche dopo il diluvio del 1945. Sull’eccezione, cioè sull’evento o la situazione in fuga rispetto alle ordinarie previsioni costituzionali ed ordinamentali, la parte più “composta” ed ortodossa del  pensiero giuridico ha insomma stentato a fare i conti. Di questo Carl Schmitt era consapevole, sino ad evocare – per rendere pregnante  la sua riflessione – il fantasma della guerra civile. In un tale contesto, contraddistinto dalla fenditura irrimediabile che divide le fazioni in lizza, lo studioso svela e declina i limiti dell’assetto dei poteri, minacciati mortalmente dalla dicotomia amico/nemico.

Chi costruisce l’egemonia politica, chi tiene in piedi il sistema giuridico e quindi l’ordine dei discorsi pubblici? Per Schmitt è colui che decide sullo stato di eccezione, colui dal quale scaturisce la decisione dirimente, colui che fornisce la legittimità ulteriore e definitiva allo sviluppo finale dei rapporti di forza. Nel decisionismo di Schmitt risiede pertanto l’origine del sistema dei poteri nell’ordinamento concreto, anche quello costituzionalmente prefissato. In tema di Costituzione la repubblica di Weimar costituisce per lo studioso di Plettenberg un laboratorio ideale. Dopo la disfatta bellica del 1918 in Germania avevano preso corpo i sanguinosi tentativi, effimeri e falliti, di instaurare le Repubbliche dei Soviet negli stati del collassato Reich guglielmino, liquidato dal diktat dell’Intesa. Ne era scaturito un fragile equilibrio tra lo schieramento liberal-borghese e quello socialdemocratico, apparentemente sedato dalla nuova Costituzione. L’evoluzione del quadro politico tedesco degli anni trenta aveva condotto all’ascesa di A. Hitler alla carica di Cancelliere. Con la successiva legge dei pieni poteri, da questi ottenuta nel 1933 ricorrendo alla maggioranza dei parlamentari del Reichstag – tra i quali figuravano un consistente numero di eletti in partiti diversi dalla NSDAP, Schmitt si convince – come ribadirà più tardi a Norimberga – che in quella circostanza nasce una costituzione provvisoria. Con tale Legge, infatti, al Cancelliere del Reich veniva riconosciuta la prerogativa di emanare disposizioni e provvedimenti in deroga alla Costituzione liberale. In tale prospettiva, Carl Schmitt ha buon gioco nel risolvere le sue osservazioni nella conclusione che una costituzione non si basa su una norma ma la sua vigenza e – prima ancora – la sua natura è la concreta emanazione di una decisone politica, per cui deve evitarsi ogni confusione di principio tra norma costituzionale,  volontà costituente e soggetto detentore del potere di imporre tale volontà[9]. Ma la decisione, che riporta costantemente al tema del concreto esercizio della sovranità, non può prescindere dall’idea del conflitto, dalla dicotomìa amico/nemico, dall’idea e dalla realtà della guerra civile, così spaventosamente amplificata dal progresso tecnologico e dalla più complessa e titanica realtà dei “grandi spazi”.  Ci si qualifica – mutatis mutandis – per esclusione, per distinzione dall’Altro, dal Nemico, dalla negazione della negazione, in un processo storico dove la decisione definitiva, quella che risolve il conflitto, divarica le epoche, le regole e gli uomini.

Seduzione e “horror vacui”

Jacob Taubes, intellettuale ebreo – come tale esplicitamente referenziatosi – ha classificato Schmitt come “apocalittico della Controrivoluzione”[i][10]. Attratto dalle profondità del pensiero dello studioso di Plettemberg, Taubes ha marcato e rimarcato la sua distanza dalla “fascinazione” nazionalsocialista (evocandone il potere suggestivo esercitato anche su Martin Heidegger). La posizione di  Taubes  appare originalmente segnata, in negativo, dalla direttrice antiebraica della politica hitleriana: egli si dispensa dall’obbligo di un giudizio sul Terzo Reich (inteso come risultato di una scelta etica tra opposti valori) in quanto divenuto il Nemico a-priori  – senza possibilità d’appello – di quello stesso stato totalitario. Per quel che attiene a Schmitt, resta in Taubes inespressa la spiegazione, se davvero colta, sul perché il nazionalsocialismo sedusse un intellettuale pur così profondo ed attento alle lezioni della storia. Ciò, considerando la carica di Presidente dell’Ordine dei Giuristi Nazionalsocialisti rivestita da Carl Schmitt sino al 1936 (anno in cui verrà tuttavia apertamente osteggiato da importanti settori del NSDAP), così come il mantenimento della cattedra di docente di diritto Pubblico all’Università di Berlino sino al 1945. Ma se Taubes non solleva il velo sul perché, certo offre una descrizione sintetica del come possa essersi congiunta la “malattia totalitaria” con la siderale dialettica giuridica dello studioso: richiamandosi all’inclinazione del Giurista in quanto tale, Taubes ne rilancia la figura di ordinatore dei meccanismi e delle competenze, per il quale inammissibile è la contrazione dello Stato a favore del partito, la regressio ad unum della Norma rispetto al puro movimento emotivo o mitico, laddove la concentrazione totalitaria e verticale dei poteri deve restare – e qui si staglia la funzione del diritto – una modalità espressiva dell’ordinamento e non la sua nichilistica sconfessione, senza che si ammetta alcun vacuum. 

 

La lezione del proscritto

Di fatto, Schmitt asserisce che a Norimberga –  dove verrà dichiarato “non colpevole” –  l’accusa ha istruito gli atti senza distinguere un diagnostico da un profeta, lo studioso dal propagandista, l’intuizione dall’acclamazione. Nei suoi confronti permarrà in seguito un’ostile e patente petizione di principio (forse un revival delle aborrite contese teologiche?).

In ”Ex captivitate salus”, quando il pensatore di Plettenberg  affronta il tema dell’emigrazione interna e quindi si difende dall’accusa di essere il propugnatore dell’ideologia del Reich – così come proposta secondo i dettami del regime nazionalsocialista – egli chiama a sé, come fonte testimoniale, i Saturnalia di Macrobio. Non si può scrivere contro chi ci può proscrivere, è la petizione che lancia agli accusatori; le sottili e colte distinzioni sull’ontologia politica che lo studioso affida alle sue opere non possono prevalere sulla forza del Leviatano. Il Tiranno ed il giurista del Trono divergono nei modi di reggere lo Stato e divengono l’incarnazione del modello amico/nemico, laddove il regime fa a meno dello studioso quando questi, nella sua libertà di pensiero, intralcia le “sintesi” ed i “grandi spazi” propri dell’epoca moderna[11].

Nel libro in disamina, Schmitt richiama – suggestivamente – il racconto “Benito Cereno” di Melville. La storia è quella di un ammutinamento di schiavi a bordo di un galeone, nel corso del quale il Comandante B. Cereno è fatto ostaggio e viene costretto a fingere il mantenimento del potere di fronte all’equipaggio di una seconda nave da assaltare e saccheggiare. L’inganno è così efficace e realistico che Benito Cereno rischia alla fine di diventare complice degli ammutinati e solo un estremo tentativo di gettare la maschera gli permetterà di sopravvivere e di rendere chiara alle ignare vittime la reale inversione dei ruoli a bordo del galeone e la veste di “oppositore” che, sotto traccia, sopravviveva nell’animo del Comandante.

Non manca chi ha biasimato il “Benito Cereno del diritto pubblico europeo”, per questa che appare una tardiva giustificazione delle adiacenze con il Tiranno. L’incomprensione, la condanna, l’ostracismo è in fondo il passaggio alluso ed indicato da Schmitt per il Giurista, per  ogni “vero” giurista in tempi di empietà e violenza. E se tali conseguenze connotano la sua capacità di “pensare un pensiero” di riscontrata grandezza, è lecito, prudente o dissennato, lasciarlo al solo giudizio dei vincitori? E’ segno di libertà reclamare una versione “neutrale” di quello stesso pensiero, virandone qua e là i contenuti per esorcizzarne le contingenze e le indebite consonanze?

Diversi anni più tardi le sue vicende giudiziarie, approssimandosi il commiato dalla sua vicenda terrena, Carl Schmitt cercherà la rivincita. Ribadirà –  di nuovo, ed aforisticamente – che  “i vinti scrivono la storia”: i vinti, cioè coloro ai quali non è mancata – diversamente dai vincitori – l’esperienza del crollo e della sconfessione senza appello e che sono rimasti segnati dall’amaro connubio tra originario trionfo e successiva disfatta.

L’odierna fase del diritto pubblico internazionale, immersa nella giustificazione/confutazione teorica del concetto di sovranità e di Nemico (“il male assoluto”), è pregiudicata finanche dalla messa in dubbio – talora indiscriminata e confusa – dell’idea di cittadinanza così come caratterizzata dal sistema dei diritti e delle multiculturalità.

Tra le pieghe della “contaminazione” post-moderna disseminatasi “per li rami” nell’ambito del corrente linguaggio etico, politico e giuridico, non pochi sono i dilemmi che affiorano dalla rilettura di Carl Schmitt e che risuonano con rinnovata attualità. Almeno per chi vuole udirle, le parole del vinto, le parole del Giurista, raccontano una storia che alcun Tribunale ha potuto del tutto chiudere.

Platania Roberto

[1](per un approfondimento delle vicissitudini giudiziarie, qui solo cennate, si rimanda a “Carl Schmitt. Risposte a Norimberga” a cura di H. Quaritsch – Editori Laterza, Bari 2006).

[2] (pagg. 57-58 “Ex captivitate salus” – Milano 1987)

[3] (op. cit. ivi p.23)

[4] cit. da A. Catania “Il diritto tra forza e consenso” –Edizioni Scientifiche Italiane – Napoli 1987 – p. 139).

[5] Su tale giudizio, emblematico, utile a comprendere il grado di  penetrazione – e di cattiva comprensione – delle tesi schmittiane negli ambienti giuspubblicisti italiani, si vedano le interessanti osservazioni di G. Montedoro, “Il nomos della terra letto da M. S. Giannini e M. Nigro”, in “Rivista della Scuola Superiore dell’economia e delle finanze”, nr. 3,2004 p.87 e segg.- consultabile in http://www.giustiziaamministrativa.it/documentazione/studi_contributi/montedoro_lettura.htm).

[6] Sulle suggestioni esercitate dal testo paolino su Schmitt e sui concetti di Katèchon e anomìa, elaborati nel tempo, si cfr. l’interessate panoramica che compare il “Il Katèchon (2Ts 2,6-7) e l’Anticristo. Teologia e politica di fronte al mistero dell’anomìa”AA.VV. – Morcelliana – Brescia 2009).

[7] sulle divergenze tra Schmitt e Quinzio – utili, appunto, nell’afferrare anche il pensiero dello studioso tedesco – si rinvia a R. Fulco “Il tempo della fine. L’apocalittica messianica di Sergio Quinzio” – Ed. Diabasis – Reggio Emilia – 2007). Le divaricazioni di ordine teoretico tra i due pensatori si compendiano del resto nell’itinerario spirituale di Quinzio che ha sempre privilegiato la domanda escatologica sottesa all’Annuncio  ed alla Redenzione. Nella struggente visione apocalittica dello scrittore di Alassio, l’Ordine Sacro ha con il tempo rappresentato sempre più problematicamente un ostacolo al compimento ed al perfezionamento – sia terreno che sovratemporale – della resurrectio mortuorum. Non per nulla la dimensione del Politico (e quindi la teologia politica, assai più cara a Schmitt), fu da lui considerata fuorviante, così come lo sforzo filosofico o la sublimazione letteraria, forme fuorvianti rispetto alla tragicità del “ritardo” dello svelamento salvifico. Una visione “provvidenziale” del tempo storico nella prospettiva dell’Ordine Sacro, e quindi della “funzione” ecclesiale in ragione della divinoumanità, riemerge in uno scrittore come Gianni Baget Bozzo ( cfr. “verità dimenticate” –Ancora editrice – 2005  ) a dimostrazione di un approccio diverso rispetto alle forme di manifestazione della trascendenza ed alla missione rivestita dalla Chiesa dinanzi al dispiegarsi del Deuteroagonista.

[8] Sul tema de “lo stato di eccezione” e le sue odierne declinazioni si segnala il saggio dall’analogo titolo, di G.Agamben (Bollati  Boringhieri 2003)

[9] Si vedano al riguardo le sintesi di E. Castrucci “Introduzione alla filosofia del diritto pubblico di Carl Schmitt”- Giappichelli ed.- Torino 1991.

[10] Cfr. “In divergente accordo. Scritti su Carl Schmitt”. Quodlibet 1996.

[11] Solo incidentalmente, può dirsi che il tema della Modernità e della Tecnica, intese non come gli esiti del progresso e dell’inventiva umana, ma come forze “spersonalizzate” e mobilitanti, tipizzate dalla società di massa e dal cesarismo, è affrontato da autori contemporanei di Schmitt, come Martin Heidegger e, su un piano diverso, Ernst Junger. Questi, partendo dall’esperienza  bellica 1914-18, ha attraversato i temi della cultura tedesca  tra le due guerre, preferibilmente nelle forme estetizzanti del racconto metaforico, giungendo alla delineazione di figure simbolico-esistenziali (l’Anarca). L’opacizzazione della figura del giurista impersonata da Schmitt, qua e là affiorante,  risente anche della “frequentazione” di ambiti culturali non riconducibili alla ricerca dottrinale del puto diritto ma appartenenti a diversi ambiti del pensiero e dell’esperienza.

Platania Roberto

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