Riciclaggio, indagini, evasione fiscale e… “gli addetti ai lavori”.

Toma Donato 19/07/07
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Evento formativo a cura del Consiglio nazionale dei dottori commercialisti.

Roma 11 luglio 2007, Hotel Cavalieri Hilton:

I dottori commercialisti e la normativa antiriciclaggio”.

Riciclaggio, indagini, evasione fiscale e… “gli addetti ai lavori”.

di Giangaspare Donato Toma*.

Sommario: 1. Premessa. 2. Implicazioni fiscali del riciclaggio. 2.1. La tassazione dei proventi illeciti di derivazione tributaria. Cenni. 3. Riciclaggio ed indagini fiscali (e non solo…): i punti di contatto delle normative e l’utilizzo dei dati acquisiti. 4. Qualche riflessione sulla progressiva estensione degli obblighi antiriciclaggio alle categorie professionali.

 

 

1. Premessa.

 

All’intento dei legislatori di colmare, con studiate accortezze, lacune dell’ordinamento giuridico che prestano il fianco a comportamenti illeciti fa riscontro, non di raro, l’ingegno poco invidiabile di chi, con criminale meditazione, aggira l’ostacolo allo scopo di raggiungere l’illecito obiettivo.

Tanto è accaduto con il riciclaggio, fenomeno complesso di matrice penalmente rilevante[1], che ha preso piede a partire dall’inizio degli anni settanta e che si è man mano sviluppato in concomitanza con l’adozione di politiche anticrimine sempre più complesse.

Il riciclaggio consiste nel processo attraverso cui emerge il volere di trasferire o sostituire, in tutto o in parte, il provento di un reato nell’economia legale – sotto forma di investimento oppure di consumo -, allo scopo di occultarne la provenienza illecita e, per così dire, reintrodurlo nel circuito economico regolare[2].

Il soggetto attivo del reato di riciclaggio agisce in presenza di una norma giuridica che mira a prevenire o reprimere la condotta criminale oltre che a sequestrare o confiscare il provento illecitamente acquisito.[3].

Va da sè che il riciclaggio risponde alla necessità criminale che i beni ed i mezzi di pagamento illecitamente acquisiti non vengano utilizzati o reinvestiti come se fossero leciti: in questo caso aumenterebbe “il rischio di essere scoperti”.

Tuttavia il provento illecito non sempre viene immesso direttamente nell’economia legale, sia pur attraverso simulati strumenti atti a dissuadere o disorientare le indagini della autorità preposte, in quanto di frequente è utilizzato per finanziare, a propria volta, diverse attività criminali, ed altre ancora (è il caso del trafficante di sostanze stupefacenti che utilizza il denaro dello spaccio per acquistare altra droga) per poi, solo al termine di tali passaggi, essere collocato nel circuito economico legale. In altre circostanze, inoltre, viene dirottato in ambiti territoriali in cui, l’assenza di una legislazione idonea a contrastare i crimini nelle loro varie manifestazioni economiche – quale, ad esempio, la collocazione di una illecita somma nel circuito finanziario -, ne favorisce inevitabilmente l’investimento ed il consumo.

Il riciclaggio, dunque, quale fenomeno di matrice economica con connotazioni penalistiche, risulta di difficile controllo,manifestandosi attraverso studiate e raffinate tecniche di occultamento ed oggi, a differenza di quanto accadeva anni addietro, in cui si sosteneva che la criminalità per poter operare necessitava di un “dominio del territorio”, non ha più bisogno di un territorio, inteso nella sua materialità, potendo comunque trovare “terreno fertile” negli strumenti informatici. Al giorno d’oggi, infatti, la parola d’ordine, in un contesto globale dei mercati dove, con dei costi limitatissimi, è possibile entrare nei circuiti globali di pagamento in cui le risorse economiche sono completamente smaterializzate, è l’informatica.

Da qui nasce l’interesse delle organizzazioni criminali ad intensificare le proprie conoscenze delle leggi economiche, finanziarie e tributarie, degli strumenti e delle tecniche informatiche atte al trasferimento virtuale dei capitali, in particolare oltre frontiera.

Le organizzazioni criminali hanno, inoltre, trovato terreno fertile anche in un fattore che ha caratterizzato in maniera evidente l’assetto normativo nazionale dell’inizio degli anni ottanta e che ha “fatto da volano” per un’ impennata del riciclaggio: il riferimento è alla liberalizzazione dei movimenti dei capitali, mossa dalla necessità di attuare la direttiva del Consiglio delle Comunità europee n. 88/361/CEE del 24 giugno 1988 ed emanata in ossequio dell’art. 67 del Trattato di Roma, nello spirito della libera circolazione dei capitali, una delle importanti libertà comunitarie (in base alla quale veniva ribaltato il criterio in virtù del quale era vietata ogni operazione transfrontaliera ad eccezione di quelle espressamente previste ed autorizzate delle autorità a ciò preposte)[4].

La globalizzazione e la liberalizzazione, dunque, hanno costituito e costituiscono facce della stessa medaglia; apparentemente prive di punti di contatto ma, in realtà, unite saldamente, non di raro, dall’intento criminale di organizzazioni dedite al riciclaggio.

Tali organizzazioni, oramai, seguono logiche imprenditoriali finalizzate alla massimizzazione del profitto con l’intento di allontanare i capitali dalle realtà di produzione, destabilizzano costantemente le regole concorrenziali in quanto immettono nei circuiti finanziari risorse che, provenendo da reati, implicano un costo minimale o del tutto inesistente, ponendo le imprese che operano in condizioni di legalità in grave sofferenza economica[5], compiono investimenti di illecita provenienza che consentono loro di accrescere costantemente le proprie disponibilità dando, in questo modo, l’impressione che il riciclaggio costituisca un eccezionale strumento economico-criminale volto a moltiplicare le attività economiche e finanziarie illegali. Alla strategia fondata sulla violenza e sulla forza di intimidazione delle organizzazioni criminali sembra sostituirsi, o meglio, affiancarsi, quella della corruzione di coloro che rivestono mansioni idonee a favorire il riciclaggio.

La difficoltà di debellare un fenomeno minuziosamente modellato tramite raffinate tecniche di criminalità economica, ha invalso la tendenza ad estendere costantemente la platea di coloro, intermediari, operatori non finanziari, liberi professionisti e società di revisione, che sono tenuti ad attenersi ad obblighi inerenti l’osservanza della normativa antiriciclaggio: una sorta di ausilio collaborativo per finalità preventive.

Tale tendenza, tuttavia, unitamente ad un vistoso incremento del novero degli obblighi antiriciclaggio in capo ai medesimi soggetti, ha suscitato da più parti polemiche e perplessità, non di raro motivate dal timore di veder sopraffatti, prevalentemente in relazione allo svolgimento di determinate attività di carattere professionale, diritti universalmente riconosciuti.

La matrice economica che tipizza il riciclaggio induce ad intravedere un evidente legame tra tale fenomeno e quello dell’evasione fiscale.

Non è raro, infatti, che alcuni reati “presupposto”, quindi che originano il provento illecito oggetto di riciclaggio, siano proprio i reati tributari (o meglio potrebbero esserlo sull’assunto, come si avrà modo di approfondire in seguito, di una non univoca posizione in dottrina ed in giurisprudenza).

Qui, apparentemente, l’allarme sociale che desta il reato (tributario) presupposto appare meno importante di quanto non possa dirsi per altre tipologie di delitti, legate magari a forme di violenza o che comunque sensibilizzano di più il contesto collettivo nel cui ambito si realizzano; tuttavia le conseguenze sostanziali non sono da meno se raffrontate a quelle che scaturiscono dai reati tradizionalmente più sentiti, quali il traffico di sostanze stupefacenti, di armi ecc.. Infatti, l’impresa che opera sul mercato con una somma di denaro proveniente da reato opera con un margine di costo assai ridotto, avendo ottenuto quella risorsa senza alcun costo o con un costo minimale; non altrettanto può dirsi per l’omologa impresa che opera nel medesimo segmento di mercato ma che,viceversa, ha “dovuto sudare” le risorse finanziarie, approvvigionate legalmente dal sistema del credito. Tutto questo incide assai negativamente sul libero mercato, le regole sono destabilizzate in favore del soggetto che, imprenditorialmente, è il più forte avendo operato con canoni di efficienza criminale, essendosi “accaparrato” la risorsa vitale per operare nel mercato a condizioni assai più favorevoli.

Lo stretto legame, dunque, che può incardinarsi tra reato tributario, riciclaggio e violazione delle regole concorrenziali, fenomeni che palesano un aspetto patologico dell’economia reale, che risulta inquinata da comportamenti illeciti, porta a riflettere sul ruolo assai importante che deve tipizzare l’operato dei soggetti preposti a svolgere investigazioni in ambito giuridico-economico. Tale ruolo non deve essere riduttivamente volto ad un orizzonte rigidamente circoscritto entro limiti di operatività preconcetta ma, al contrario, deve propendere verso una visione interdisciplinare, trasversale, sensibile a percepire che a monte di un indice che faccia ritenere il mercato falsato nella concorrenza, potrebbero esserci episodi di riciclaggio. Se per un verso la “sensibilità giuridico-economia” deve tipizzare l’agire dei soggetti preposti ad attività di indagine, è ancora più vero ed evidente che tali soggetti necessitano del conforto normativo proiettato in questa direzione[6].

L’impresa, dunque, può essere all’origine del riciclaggio (nel caso, si è detto, venga commesso un reato tributario) ma anche la destinataria di tale illecita attività, costituendo lo strumento attraverso il quale il denaro, beni o altre utilità provenienti da delitto non colposo possono essere “lavati”.

In questo secondo caso, in cui è obiettivo passivo dell’illecita attività, essa probabilmente vede un incremento del proprio capitale sociale tramite l’apporto di nuovi soci o di soci già esistenti, oppure attraverso il trasferimento di quote o di interi pacchetti azionari. La componente attiva di bilancio subisce, dunque, un incremento che può indurre a costituire un significativo indizio per gli addetti ai lavori (nel cui novero, come si avrà criticamente modo di precisare oltre, è ragionevole oramai che vadano inclusi non solo coloro che istituzionalmente sono deputati a svolgere investigazioni penali finalizzate a contrastare la piaga del riciclaggio, ma anche tutti coloro che, professionisti e non, sono tenuti alla precisa osservanza della normativa antiriciclaggio e dunque anche alla segnalazione delle operazioni “incriminate” di sospetto di riciclaggio)[7].

 

 

 

2. Implicazioni fiscali del riciclaggio.

 

Se è l’impresa stessa ad originare l’attività di riciclaggio è frequente che la tecnica illecita utilizzata sia diretta, ad esempio, ad ottenere un “illecito vantaggio economico” tramite “sapienti ritocchi” sull’utile di esercizio, abbattendolo.

La chiave di lettura che si sta seguendo implica che alla base dei proventi illeciti vengano commessi reati tributari idonei o a creare fittizi componenti negativi di reddito o ad occultare poste positive, allo scopo di comprimere la base imponibile e dunque ad ottenere un risparmio di imposta ([8]) ([9]).

Si impongono a questo punto delle precisazioni che minano la posizione dottrinale e giurisprudenziale atta a considerare il reato tributario (o almeno alcuni di essi) idoneo a poter a propria volta costituire il (reato) presupposto del riciclaggio.

Gli argomenti oggetto di discussione riguardano la circostanza che l’evasione fiscale, riconducibile alla disciplina del D. Lgs. 10 marzo 2000, n. 74 (Nuova disciplina dei reati in materia di imposte sui redditi e sul valore aggiunto, a norma dell’art. 9 della legge 25 giugno 1999, n. 20)genererebbe solo un “risparmio di imposta” e non “direttamente”quel ”denaro, beni o altre utilità”che scientemente il soggetto attivo del reato di riciclaggio, rectius, il riciclatore, tende ad occultare in modo da ostacolare l’identificazione e la provenienza delittuosa.

L’oggetto del contendere concerne, inoltre, il preciso momento e le precise circostanze in cui il delitto tributario si perfeziona; ciò in quanto la vigente normativa penale tributaria non punisce il mero tentativo.

Ma proseguiamo con ordine.

Il citato D. Lgs. 10 marzo 2000, n. 74 ha rivoluzionato i caratteri della ormai superata legge di settore, la L. 7 agosto 1982, n. 516, di conversione del D.L. 10 luglio 1982, n. 429, la quale, nota come “Manette agli evasori”, anticipava la soglia di punibilità in relazione alla qualificazione di reati di pericolo a dolo specifico in essa previsti.

Durante la sua vigenza, di massima, era predominante la tendenza finalizzata ad escludere che i reati in essa contemplati potessero essere idonei a costituire il presupposto del riciclaggio. L’assunto trovava forza nella posizione secondo cui l’ambito di operatività della legge tendeva a colpire non l’effettiva evasione fiscale ma il rischio che determinati comportamenti dei contribuenti potessero agevolarla oppure ostacolare l’azione accertatrice del Fisco[10]: il solo rischio di evasione, dunque, non avrebbe potuto (con certezza) originare ricchezza da riciclare.

I reati enunciati dalla normativa rientravano nel novero dei reati definibili come “di pericolo presunto”.

Ferma la convinzione secondo cui non necessariamente un comportamento del contribuente, astrattamente in linea con il precetto normativo della L. n. 516/1982 (quali, ad esempio, la non corretta tenuta della contabilità, oppure la formale presentazione della stessa), avrebbe determinato un’evasione di imposta e quindi un (eventuale) provento illecito idoneo ad essere riciclato, la dottrina maggioritaria, in relazione, in particolare, al dolo specifico inerente le condotte enunciate dall’art. 4[11], distingueva tra il generico scopo di evasione, da una parte, e quello di ottenere un indebito rimborso di imposta, dall’altra.

Soltanto nel secondo caso, in cui attraverso la commissione di un reato di frode fiscale il contribuente otteneva concretamente un indebito rimborso, sarebbe stato possibile ipotizzare “qualcosa di ben individuato” da riciclare e sempre che, naturalmente, il riciclatore fosse stato soggetto diverso dall’autore del reato tributario ed a conoscenza che a monte della ricchezza prodotta vi fosse un illecito.

Se invece l’evasione sortiva l’effetto di un, per così dire, “semplice” risparmio d’imposta, sarebbe mancato il diretto legame tra il reato tributario e l’eventuale provento. In questo caso la dottrina non accettava che il reato tributario potesse essere incluso nell’ambito dei reati idonei a generare ricchezze da riciclare in quanto, l’eventuale utilità derivata, si sarebbe inevitabilmente confusa con il patrimonio del contribuente e avrebbe precluso all’astratto riciclatore l’opportunità di identificare, nello specifico, quella precisa ricchezza riconducibile al reato tributario che l’aveva generata[12]. In altre parole non era accettato il rischio che il riciclatore, pur a conoscenza che parte del denaro, dei beni o altre utilità potevano ricondursi all’illecito tributario, potesse sostituirla o trasferirla in assenza della certezza di “utilizzare”, tra la ricchezza evasa, proprio quella di derivazione illecita([13]).

Tuttavia tale teorica era osteggiata da coloro che intravedevano argomenti contrari di discussione ancorati, prevalentemente, a posizioni assunte da fonti internazionali e che ragionevolmente avrebbero potuto costituire significativa fonte interpretativa delle disposizioni in materia penale-tributaria in argomento.

In particolare, è stato fatto riferimento alla Convenzione Europea dei Diritti dell’Uomo, art. 1, lettera a., in cui si dà una definizione di provento, riconducendolo ad "ogni vantaggio economico derivato da reati (…)"; inoltre la successiva lettera e., precisa che ”reato presupposto significa qualsiasi reato in conseguenza del quale si formano dei proventi che possono diventare oggetto di uno dei reati definiti all’articolo 6 di questa Convenzione".

Ne sarebbe emerso che anche un generico vincolo di derivazione tra il risparmio di imposta ed il reato tributario a monte, sarebbe stato idoneo a costituire una “ricchezza riciclabile”, anche in assenza, dunque, di un più stretto e diretto legame.

Preso quale modello il reato di utilizzo di fatture per operazioni inesistenti (art. 4, lett. d., L. n. 516/1982), si cercarono elementi ancora più significativi a supporto della posizione per ultimo argomentata.

I relativi sostenitori indussero a riflettere su alcuni aspetti pratici che tipizzavano il delitto de quo: l’utilizzatore del falso documento fiscale, tramite l’operazione fraudolenta, incideva contemporaneamente sia sulla componente numeraria sia su quella economica della realtà imprenditoriale. L’imprenditore simulava nel contempo sia un’uscita di banca o di cassa, sotto il profilo numerario, acquisendo disponibilità di denaro, sia il sostenimento di un costo, sotto il profilo economico, avvantaggiandosi attraverso un illegittimo abbattimento della base imponibile ai fini delle imposte dirette, documentando in fattura, oltre tutto, un credito IVA fittizio.

E’ evidente che tali vantaggi erano tutti inevitabilmente legati alla fattispecie criminale a monte (appunto l’utilizzo della fattura falsa) e nessuna preclusione di sorta avrebbe poi impedito l’utilizzo, da parte di terzi, della disponibilità monetaria ottenuta in attività di riciclaggio[14].

Le posizioni or ora schematizzate e riguardanti il previgente panorama normativo in materia penale-tributaria, sono di ausilio per fare il punto sull’attuale quadro novellato, si è detto, dal D. Lgs. 10 marzo 2000, n. 74.

Anzitutto, come è stato fatto cenno, la nuova normativa non colpisce i comportamenti prodromici di evasione fiscale ma quelli che determinano sostanzialmente un danno erariale.

Da ciò consegue l’impunità di tutti quei contesti (solo) potenzialmente idonei a determinare un illecito vantaggio fiscale: il legislatore pone l’attenzione solo su quelli realmente in grado di incidere sulle casse dello Stato.

La riduzione delle ipotesi rilevanti induce a far riflettere su un dato: se con la superata normativa il rischio era che la disposizione incriminatrice potesse colpire fattispecie solo potenzialmente idonee a creare un danno per l’Erario ed un vantaggio per l’evasore, il D. Lgs. 10 marzo 2000, n. 74 limita il proprio raggio d’azione ai contesti in cui di fatto si realizza il vantaggio fiscale ed il danno dello Stato.

Pertanto ad una limitazione delle fattispecie rilevanti ne è conseguita una maggiore probabilità che queste, sebbene ridotte, siano più idonee a generare quella ricchezza potenzialmente riciclabile.

Tuttavia il D. Lgs. 74/2000 evidenzia una significativa novità che accomuna tutti i delitti in materia di dichiarazione: questi si perfezionano solo al momento di presentazione delle dichiarazioni annuali (ai fini dell’IVA e delle imposte sui redditi) ovverosia quando le stesse avrebbero dovuto essere presentate: tutte le fasi commissive del reato sono teleologicamente orientate al momento dichiarativo, mai prima.

Solo in quel preciso contesto temporale e mai antecedentemente il reato si realizza in tutti i suoi elementi, nonostante le movimentazioni finanziarie correlate ai comportamenti prodromici (ai delitti in tema di dichiarazione) e quindi la necessità di occultare eventuali ricchezze prodotte “in nero”, di solito anticipino il perfezionamento del reato stesso.

Ciò implica, evidentemente, che l’eventuale sostituzione o il trasferimento di quella ricchezza (che ancora non è un provento di reato), allo scopo di ostacolarne l’identificazione della provenienza (non ancora delittuosa) non integra (ancora) la fattispecie del riciclaggio. Ipotesi che prenderà piede (in relazione a quella stessa ricchezza sostituita o trasferita per il fine di ostacolarne la provenienza) giustappunto dopo l’effettivo perfezionamento del reato tributario presupposto.

In argomento appare significativo un cenno all’art 2 del D. Lgs. 74/2000[15] (Dichiarazione fraudolenta mediante uso di fatture o altri documenti per operazioni inesistenti).

Il reato de quo accorpa sistematicamente fattispecie prodromiche che con il pregresso regime, si è detto, costituivano ipotesi autonome di reato.

Ritornando alla fattispecie enunciata dall’ art. 4, lett. d., della L. n. 516/1982 (utilizzo di fatture per operazioni inesistenti), nonostante il vigente regime subordini il perfezionamento della frode alla presentazione della dichiarazione con l’indicazione di elementi passivi inesistenti o appositamente modificati (non essendo idonea la mera annotazione della fattura falsa in contabilità), tuttavia quando ciò avviene si perfeziona il reato e tornano in auge tutte le considerazioni fatte in relazione all’ipotesi di frode fiscale prevista dall’abrogata legge Manette agli evasori, riguardanti la disponibilità di denaro a seguito della simulazione dell’uscita di banca o di cassa, l’illegittimo abbattimento della base imponibile ai fini delle imposte dirette attraverso il sostenimento del falso costo, il falso credito IVA, quindi la fattibilità, da parte di terzi consapevoli della frode, di impiegare il provento in attività di riciclaggio.

In particolare, la disponibilità di denaro così ottenuta può costituire oggetto di riciclaggio sia in caso di una sua restituzione occulta, ad opera di un terzo consapevole del reato presupposto, come contropartita di un corrispettivo riguardante ufficialmente sì un documento fiscale, ma falso (di fatto viene stornata l’operazione falsa), sia nel caso venga pattuito un compenso, rectius una sorta di provvigione che di prassi viene destinata all’emittente della fattura che si è prestato a favorire l’utilizzatore della stessa (in quest’ultimo caso, perfezionandosi il reato di Emissione di fatture o altri documenti per operazioni inesistenti, di cui all’art 8 del D. Lgs. 74/2000, nel momento stesso in cui viene emessa la fattura ed in assenza della preclusione legata alla presentazione della dichiarazione, nulla osta a che tale somma di denaro sin da subito sia idonea a costituire oggetto di riciclaggio sempre a condizione che sussistano, naturalmente, gli altri presupposti pretesi dall’art. 648 bis C.P.).

E’ intuitivo, tuttavia, che tutte le operazioni destinate ad occultare i flussi di denaro, allo scopo di “mettere tutto a posto” antecedentemente la presentazione della dichiarazione e quindi prima che si concretizzi il reato tributario, vengono usualmente effettuate nell’imminenza della ricezione della fattura falsa da parte dell’utilizzatore. Da qui l’ovvia maggiore difficoltà in cui incorrono, ora, gli organi investigatori che si trovano a dover ricostruire operazioni fraudolente artatamente realizzate, magari, a distanza di un notevole lasso di tempo antecedente la presentazione della dichiarazione medesima.

Il delitto delineato dall’art. 3 del D. Lgs. 74/2000 (Dichiarazione fraudolenta mediante altri artifici) è integrato, invece, dalla condotta attiva di colui che, “sulla base di una falsa rappresentazione nelle scritture contabili obbligatorie e avvalendosi di mezzi fraudolenti idonei ad ostacolarne l’accertamento”, presenta una dichiarazione mendace e sempre che vengano superate delle precise soglie di punibilità che rappresentano ormai univocamente, in dottrina e giurisprudenza, elementi costitutivi del reato.

Anche qui se il soggetto attivo del reato tributario costituisce dei fondi neri ed incarica un terzo affinché questi ne faccia perdere le poco invidiabili tracce, in relazione alla provenienza, il terzo incorrerà nel riciclaggio ove si dimostri, naturalmente, la sua conoscenza della provenienza delittuosa di tali somme. In particolare dovrà dimostrarsi che egli era conscio non solo della dichiarazione mendace presentata ma anche del superamento delle somme limite di punibilità. Tale ricostruzione non è affatto agevole in relazione alla necessità di ricostruire iter psicologici interni del presunto riciclatore, non percepibili dalla realtà esterna. Si dovrebbe ricorrere a canoni comuni di esperienza, alla realtà fattuale esterna, per quanto percepibile, nonché agli aspetti che tipizzano la personalità del soggetto.

Le problematiche non sono di poco conto se si pensa che l’autore della frode fiscale, allo scopo di non far sorgere dubbi circa l’illecita provenienza della ricchezza, potrebbe pensare di suddividere detta somma in varie “micro-partite” ed assegnare ciascuna di esse, per fini di riciclaggio, a diversi soggetti, ognuno dei quali inconsapevole dell’esistenza degli altri (piccole somme di origine illecita non dovrebbero poter derivare da una grande frode fiscale e dunque superare quelle importanti soglie di punibilità).

Le medesime considerazioni valgono in relazione alla fattispecie narrata dall’art. 4 (Dichiarazione infedele).

Quanto alla fattispecie citata dall’art. 5 del D. Lgs. 74/2000 (Omessa Dichiarazione) la dottrina è unanime nell’escludere la fattispecie come potenziale presupposto della previsione di cui agli artt. 648 bis e 648 ter c.p..

In merito ai rapporti tra reato tributario e riciclaggio è intervenuto l’Ufficio Italiano Cambi – Chiarimenti 18 maggio 2006, integrato in data 21 giugno 2006 e relativi al provvedimento 24 febbraio 2006 per i professionisti (aggiornamento del 20 novembre 2006) – che si è posizionato sull’assunto a motivazione del quale il risparmio di imposta realizzato mediante la mera evasione fiscale non concretizzerebbe denaro da riciclare ma solo una maggiore disponibilità di risorse per l’evasore contribuente che però rimangono confuse nell’integralità della sua massa patrimoniale.

Ha avuto modo di precisare come in materia di presupposti applicativi degli artt. 648 bis e 648 ter., C.P., non ritenga di poter fornire interpretazione alcuna in quanto la materia esula dalle proprie competenze. In relazione al richiamo agli artt. 2, 3 e 4 del D. Lgs. 74/2000, conferma quanto precedentemente già evidenziato nei propri chiarimenti interpretativi, precisando che l’art. 3 è in linea con l’art. 648 bis in relazione ai delitti dolosi e che la fattispecie dell’art. 4, invece, è riconducibile al dettame dell’art. 648 ter.[16].

Si ritiene di aver dimostrato che sotto il profilo anche ontologico non sussistano particolari preclusioni a considerare di massima il reato tributario come idoneo a generare il provento illecito oggetto di riciclaggio.

Tutt’al più il problema concerne la fase probatoria, nel dimostrare, cioè, che il presunto riciclatore fosse a conoscenza dell’illecita provenienza della ricchezza.

Si pensi all’ipotesi in cui il contribuente sia in procinto di meditare un’eventuale operazione di evasione fiscale e si trovi nella situazione in cui, se presentasse un’infedele dichiarazione quel giorno supererebbe le soglie di punibilità ma, se lo facesse a distanza di tempo, in concomitanza con il momento giuridico in cui sorge per lui l’obbligo di presentarla, potrebbero essere totalmente cambiate le sue condizioni economiche e quindi non intaccate dette soglie. Una previsione del genere sarebbe da ricondurre ad un processo diabolico; i fattori aleatori prevarrebbero su ogni capacità di previsione in relazione, oltre tutto, all’incertezza economica generata dal mercato in cui opera il contribuente – imprenditore e dove questi deve momento per momento affrontare il rischio di impresa. Equivarrebbe ad un processo a delle intenzioni che vanno ben oltre quelle di commettere un reato.

Tra l’altro mentre nella piccola impresa individuale normalmente il privato che realizza una frode fiscale si preoccupa egli stesso di mascherare i fondi in assenza dell’ausilio di terzi – non realizzando così la fattispecie del riciclaggio -, nel caso delle grandi società, al contrario, il meccanismo tramite il quale l’eventuale provento derivante da frode fiscale viene “celato” è più complesso: qui di solito la (o le) persone che architettano la frode non coincidono con coloro che le riciclano: il Presidente del Consiglio di amministrazione (magari anche maggiore azionista) potrebbe delegare l’Amministratore delegato anche le incombenze, tra le altre, finalizzate al riciclo o al reimpiego del denaro sporco. Tale duplicazione di incarichi, naturalmente, è idonea a realizzare riciclaggio.

Il vigente panorama legislativo, inoltre, dà margini di manovrabilità all’imprenditore che, autore del reato tributario ed intento a far sostituire o trasferire il denaro così ottenuto, si prefigga di evitare di far incorrere terzi nel riciclaggio.

Si prenda il caso dell’imprenditore che versi il contante derivante dall’illecito tributario su un conto corrente extracontabile intestato e/o nella disponibilità di lui stesso, destinando i bonifici e gli assegni afferenti corrette operazioni regolarmente sul conto aziendale.

Egli, in relazione al provento da reato fiscale, non rischierà di incorrere nell’ipotesi di riciclaggio –“Fuori dei casi di concorso nel reato (…)”, rammenta il 648 bis C.P.-; ma se le risorse sottratte all’Erario sono accantonate su un altro conto extracontabile intestato ad altri, una “persona di fiducia”, in genere, quest’ultima potrebbe rispondere, sussistendone i presupposti, di riciclaggio da evasione fiscale.

Situazioni abnormi del genere, in cui stridono normative tecniche di settore, portano a riflettere circa l’opportunità di qualche “ritocco normativo” sul punto.

Si è discusso e si discute di “autoriciclaggio”: probabilmente se sussistesse tale fattispecie la “persona di fiducia” dell’imprenditore risulterebbe, rispetto a questo, meno discriminata sotto l’aspetto sanzionatorio[17].

Non può tuttavia sottacersi, in queste sede, che un’astratta ipotesi del genere implicherebbe problematiche di tecnica legislativa; tra l’altro con l’ammettere l’autoriciclaggio nascerebbe il rischio che il soggetto attivo potrebbe essere punito due volte a seguito di un unico attuato disegno criminoso (chissà, un unico comportamento?), come se, volendo fare una correlazione con altri reati, il furto ad esempio, il ladro venisse punito due volte a seguito della malefatta compiuta.

Ma fino a che punto il professionista è “costretto ragionevolmente ad indagare”[18], allo scopo di ben ottemperare ai propri obblighi inerenti il rispetto della normativa antiriciclaggio attraverso la prevista segnalazione di operazione sospetta al fine, tra l’altro, di non incorrere in pesanti sanzioni o, peggio, di vedersi coinvolto in responsabilità penali in veste di concorso o favoreggiamento? Rischi a cui andrebbe incontro se distrattamente, inconsapevolmente o per ignoranza (si fa per dire: chi sarebbe in grado di poter “predicare” certezze in un settore dove i dubbi coinvolgono anche gli addetti ai lavori?) egli omettesse tale segnalazione sussistendone i presupposti (da più parti è stata avanzata la richiesta tesa a smussare la soglia limite oltre la quale nasce l’obbligo di segnalazione in capo al professionista, ma anche ad ancorare tali presupposti ad oggettivi punti fermi che con chiarezza indichino oltre quale limite nasce l’obbligo de quo).

In tal caso egli, a seguito di un’inchiesta penale, soggiacerebbe, magari a sua insaputa, ad attività estremamente invasive della sfera personale e professionale che, in quanto rientranti nell’ambito delle indagini di polizia giudiziaria, possono andare dalle intercettazioni telefoniche, alle indagini bancarie, alle perquisizioni, agli interrogatori, ecc..

In questo sembrano poco convincenti le rassicurazioni di coloro, addetti ai lavori parlamentari, che tranquillizzano le categorie professionali da un rischio del genere.

Di fronte a questo pericolo una pignoleria del professionista potrebbe indurlo (a ragione, forse, dato il rischio che corre) ad effettuare una segnalazione ai fini antiriciclaggio in relazione ad indizi che non è tenuto ad approfondire oltre la diligenza del professionista medio (non essendo, tra l’altro, legittimato da nessuna norma a poter svolgere indagini).

E’ evidente che vacillerebbe il rapporto di fiducia con il proprio cliente il quale potrebbe essere portato ad intuire che, in contesti in cui predomina il dubbio, il suo consulente, proprio la persona di fiducia alla quale egli si è rivolto per avere la necessaria consulenza, potrebbe effettuare un’avventata segnalazione.

Si ritiene ragionevole che il professionista valuti attentamente e con il dovuto distacco il profilo di rischio del contribuente attraverso una ponderata analisi del generale contesto in cui si trova ad operare.

A seconda del profilo di rischio individuato, soprattutto in relazione a possibili frodi fiscali, il professionista dovrà valutare se una determinata operazione sia meritevoli o meno di costituire oggetto di una segnalazione per operazioni sospette; dovrà tenere in conto la possibilità che vengano o meno superate le soglie di punibilità in relazione ai delitti in tema di Dichiarazione fraudolenta mediante altri artifici (art. 3 D. Lgs. 74/2000), di Dichiarazione infedele (art. 4); dovrà riflettere circa la possibilità che il suo cliente presenti o meno la dichiarazione fraudolenta o infedele; cercherà di comprendere se l’eventuale soggetto incaricato di riciclare il denaro è o meno al corrente dell’illiceità di questo, ecc..

 

 

2.1. La tassazione dei proventi illeciti di derivazione tributaria. Cenni.

 

Il provento oggetto di riciclaggio ha implicazioni fiscali anche in relazione alla sua tassazione.

La tassazione dei proventi illeciti è regolamentata dalla legge L. 24 dicembre 1993, n. 537 che all’art. 14, comma quattro, prevede, tra l’altro, che i proventi derivanti da attività, atti e fatti penalmente illeciti, se non già sottoposti a sequestro o confisca, devono intendersi ricompresi nelle categorie di reddito previste dall’art. 6 del Testo Unico delle imposte sui redditi (TUIR), se in esse classificabili[19].

Ne consegue che qualsiasi reddito che derivi da un’attività illecita, ai fini della sua tassazione, non è considerato appartenente ad una categoria a sè stante, peraltro non prevista dal vigente panorama normativo, ma è inquadrabile, sempre che ne sussistano i requisiti, tra quelli riconosciuti e tassativamente classificati dall’art. 6 del TUIR (redditi di impresa, di lavoro, di capitali, diversi, ecc).

Ne deriva che l’imposizione tributaria del provento non stride con l’illecità dello stesso: chi produce un reddito come conseguenza dell’impiego di un provento illecito è legalmente considerato contribuente.

La collocazione del provento in una delle categorie di reddito previste dal TUIR dipende dall’origine dei ”fatti, atti o attività” qualificabili come illeciti, dunque dal presupposto impositivo illecito.

Non dovrebbe destar dubbi che il provento derivante da usura sia collocabile nell’ambito della categoria dei redditi di capitale.

Così come il provento derivante da un’attività illecita occasionale, nell’ambito della categoria dei redditi diversi.

Con riferimento all’ attività di riciclaggio che ha quale provento denaro, beni o altre utilitàdi derivazione[20] da reato tributario, si ritiene dover effettuare una distinzione:

– se il provento, ai sensi dell’art. 67, lett. i del D.p.r. 22 dicembre 1986, n. 917 (T.U.I.R.), ha origine dallo svolgimento di un’attività commerciale non esercitata abitualmente, questo è ragionevolmente inquadrabile nel novero dei redditi diversi;

– viceversa, se esso è riconducibile alla previsione indicata dall’art. 55 del TUIR, derivando, di massima, dall’esercizio per professione abituale, ancorché non esclusiva, di una delle attività indicate nell’art. 2195 c.c. e delle attività indicate alle lettere b) e c) del comma 2 dell’art. 32 che eccedono i limiti ivi stabiliti, anche se non organizzate in forma di impresa, è collocabile nell’ambito dei redditi di impresa (enunciati, come anche i redditi diversi, nell’art. 6 del TUIR).

Relativamente a quest’ultimo aspetto, possono soccorrere in ausilio delle riflessioni che prendono spunto da consolidate posizioni giurisprudenziali: non è imprenditore commerciale chi compie un’isolata operazione di acquisto e di successiva rivendita di merci; allo stesso modo, non è imprenditore colui che effettua una pluralità di atti economici coordinati ad un unico scopo, quando circostanze oggettive palesino in modo inequivoco il carattere non abituale ed occasionale dell’attività.

Tuttavia, anche il compimento di un “unico affare” può costituire impresa quando, per la sua rilevanza economica, esso implichi il compimento di operazioni molteplici e complesse e l’utilizzo di un apparato produttivo idoneo ad escludere il carattere occasionale e non coordinato dei singoli atti economici.

 

 

3. Riciclaggio ed indagini fiscali (e non solo…): i punti di contatto delle normative e l’utilizzo dei dati acquisiti.

 

Nella premessa del presente lavoro è stato fatto cenno che la direttiva del Consiglio delle Comunità europee n. 88/361/CEE del 24 giugno 1988, emanata in ossequio dell’art. 67 del Trattato di Roma, ha dato un notevole impulso al processo di liberalizzazione attraverso la costante eliminazione della restrizione dei movimenti dei capitali e del monopolio dei cambi([21]) ([22]).

La “rivoluzione giuridica” che è andata delineandosi, ha ribaltato il precedente criterio di base, caratterizzato da limitazioni e controlli, finalizzata, ora, ad un regime tendente a realizzare una generalizzata autorizzazione alle relazioni economiche con l’estero, circoscritta, tuttavia, da limitate deroghe[23].

In linea con lo spirito comunitario il legislatore nazionale ha novellato la normativa valutaria attraverso la L. 26 settembre 1986, n. 599 (che aveva portato delle evidenti novità, in tema sanzionatorio, in relazione alla precedente legge di settore, la L. 30 aprile 1976, n. 159), con la quale delegava il Governo ad emanare disposizioni in tal senso.

Il D.P.R. 29 settembre 1987, n. 454, nel frattempo emanato, attuava le direttive previste dalla legge delega; il suo contenuto dispositivo veniva fatto affluire nel D.P.R. 31 marzo 1988, n. 148 che sistematicamente univa a sè le frammentate disposizioni valutarie di indole legislativa oltre che le disposizioni di carattere penale: nasceva, in un clima in cui predominava il principio della libertà delle relazioni economiche e finanziarie con l’estero, il Testo Unico delle norme di legge in materia valutaria.

Il Testo Unico venne poi depenalizzato con la L. 21 ottobre 1988, n. 455 ed il processo di liberalizzazione definito tramite l’entrata in vigore del D.M. 27 aprile 1990[24] il quale, unitamente al D.P.R. 31 marzo 1988, n. 148, recepiva pienamente la direttiva del Consiglio delle Comunità europee n. 88/361/CEE del 24 giugno 1988[25].

In questo nuovo clima, in cui lo spostamento dei capitali in ambito trasfrontaliero era sempre più facile e dove veniva meno lo strumento di verifica con cui, in base alla precedente legislazione, erano minuziosamente sottoposte a controllo le operazioni con l’estero, fu avvertita da più parti l’esigenza di emanare disposizioni idonee a “monitorare”, controllare i movimenti di capitale in relazione al rischio che il loro “agile spostamento” oltre frontiera, in assenza dei precedenti controlli, potesse sia inquinare i mercati finanziari a seguito della circolazione di capitali di matrice illecita, sia facilitare l’occultamento di redditi finalizzato all’evasione fiscale.

Sotto il primo profilo, le menzionate esigenze, in quegli anni, trovarono ben presto una concreta risposta nelle varie misure adottate a livello comunitario (tra le più note: la Convenzione di Vienna sul traffico degli stupefacenti e la Dichiarazione dei principi di Basilea, del dicembre 1988; la nascita del FAFT – Financial Action Task Force – presso il “G/7” e relative “Raccomandazioni” del febbraio 1990, la Convenzione del Consiglio d’Europa sul riciclaggio del novembre del 1990, l’importante Direttiva n. 308/91/CEE del 10 giugno 1991 in tema di prevenzione del riciclaggio) e nazionale (in specie il D.L. 3 maggio 1991, n. 143, convertito, con modificazioni, dalla L. 5 luglio 1991, n. 197 che ha buttato le fondamenta della disciplina amministrativa di base antiriciclaggio).

Sotto il secondo profilo, l’adozione del principio a mente del quale un’efficiente lotta all’evasone fiscale non può precludere alle Autorità una minuziosa conoscenza dei capitali nella disponibilità dei singoli contribuenti, ha indotto il legislatore nazionale a stabilire un insieme di complessi controlli sui movimenti da e per l’estero di capitali, il cosiddetto “monitoraggio fiscale”, introdotto dal D.L. 28 giugno 1990, n. 167, convertito con modificazioni dalla legge 4 agosto 1990, n. 227.

La normativa de qua, nonostante sia stata più volta messa in discussione (prevalentemente, a dirla tutta, da coloro che si sono visti irrogare sanzioni per la sua violazione) in quanto ritenuta in odore di illegittimità per contrasto con il principio comunitario della libera circolazione dei capitali, trova, la propria legittimazione proprio nella più volte menzionata Direttiva del Consiglio n. 88/361/CEE del 24 giugno 1988 (che ha sancito, per quanto riguarda l’Unione Europea, proprio il principio della Libertà delle relazioni economiche con l’estero) la quale, tra l’altro stabilisce che “(…) Le disposizioni della presente direttiva non pregiudicano il diritto degli stati membri di adottare le misure indispensabili per impedire le infrazioni alle leggi e ai regolamenti interni, specialmente in materia fiscale”.

In particolare l’art. 3 (Trasferimento al seguito di denaro, titoli e valori mobiliari) del D.L. 28 giugno 1990, n. 167, che nella sua originaria versione ha rischiato di far condannare l’Italia in sede comunitaria in quanto palesava divieti eccessivamente stringenti rispetto al dato soprannazionale, ha subito significative modifiche anche attraverso l’emanazione delle disposizioni contenute nel D. Lgs. 30 aprile 1997, n. 125 attualmente vigenti, che agli “incriminati divieti” hanno sostituito obblighi dichirativi.

La stessa Corte di Giustizia, in linea con il dettame comunitario, si è più volte pronunciata sul punto adducendo che la normativa domestica, subordinando il trasferimento di capitali ad una preventiva dichiarazione, non contrasta con i principi comunitari (rectius, con la Direttiva di settore) se lo scopo è quello di consentire all’Amministrazione il controllo della liceità delle relative operazioni nel rispetto della normativa di matrice penale e quello di usare le relative informazioni per altre finalità pubblicistiche (tra queste quelle di carattere tributario).

Il sistema di controlli previsti dalla legge si tipizza per una serie di obblighi dichiarativi nei riguardi di coloro che intendono trasferire e mantenere capitali all’estero e da obblighi di comunicazione all’Amministrazione finanziaria, di registrazione e di rilevazione gravanti in capo agli intermediari, sia che questi operino quali esecutori delle movimentazioni, sia che siano meramente i depositari di tali capitali.

In sintesi l’art. 3 prevede: – la liberalizzazione di tutti i trasferimenti al seguito (o mediante plico postale o equivalente) da e per l’estero di denaro, titoli e valori mobiliari; – l’introduzione di un sistema di dichiarazione obbligatoria da inoltrare all’Ufficio italiano cambi (per il tramite di taluni Uffici specificatamente individuati) per trasferimenti di importo o controvalore superiore ad un determinato limite (attualmente 12.500 euro), per scopi di statistica valutaria, antiriciclaggio e fiscali[26].

Inoltre i dati trasmessi sono utilizzati dall’Ufficio italiano cambi per fini d’istituto e di contrasto al riciclaggio, vengono qui conservati per dieci anni, elaborati in forma nominativa e trasmessi, in deroga all’obbligo del segreto d’ufficio, all’Amministrazione finanziaria che li utilizza per i propri fini istituzionali e, su richiesta, alle autorità richiedenti ed individuate dall’art. 11 del D.L. 3 maggio 1991, n. 143, convertito, con modificazioni, dalla L. 5 luglio 1991, n. 197, per scopi preventivi e di contrasto al riciclaggio (art. 3-ter, comma 3, del D.L. n. 167/1990).

In tema di segnalazione di operazioni sospette, inoltre, ai sensi dell’art. 3 del D.L. n. 143/91, l’Ufficio italiano cambi, ricevute le segnalazioni ed effettuata l’analisi di natura finanziaria, trasmette le stesse al Nucleo speciale di Polizia valutaria della Guardia di Finanza ed alla Direzione investigativa antimafia per gli approfondimenti investigativi di rispettiva competenza.

Dall’art. 3 del D.L. n. 143/1991 emerge che il menzionato reparto specialistico della Guardia di Finanza ha competenza esclusiva in relazione ad attività finalizzata ad accertamenti ed approfondimenti investigativi a seguito delle segnalazioni di operazioni sospette, nonché in merito ai controlli “nei riguardi di ogni altro soggetto”, ad esclusione degli intermediari abilitati (art. 5, comma 10, D.L. n. 143/1991).

Dal generale quadro normativo così delineato, si ricava che il Nucleo speciale di Polizia valutaria della Guardia di finanza riceve dall’Ufficio italiano cambi dati e notizie sia ai sensi dell’art. 3-ter, comma 3, del D.L. n. 167/1990 – in tema di monitoraggio fiscale – che per effetto dell’art. 3 del D.L. n. 143/91 – in relazione alle segnalazioni di operazioni sospette in materia di antiriciclaggio.

Nell’adempimento delle incombenze legate al sinergico dettame delle menzionate normative, gli appartenenti al citato reparto godono delle stesse prerogative riconosciute dall’art. 25 del D.P.R. n. 148/1988 ai funzionari dell’Ufficio italiano cambi nello svolgimento di attività ispettiva in ambito valutario (art. 26, comma 1)[27] oltre che dei poteri attribuiti ai militari del Corpo dalla L. 7 gennaio 1929, n. 4 e dalle altre leggi tributarie (art. 26, comma 2), dunque dall’art. 52 del D.P.R. 26 ottobre, 1972, n. 633 in tema di accertamento dell’Imposta sul valore aggiunto e dagli artt. 32 e 33 del D.P.R. 29 settembre 1973, n. 600 in materia di accertamento delle imposte sui redditi[28].

Tra gli altri poteri previsti dal D.P.R. n. 148/1988 si annoverano quelli riguardanti la contestazione delle violazioni di carattere amministrativo riscontrate (art. 29, commi 1, 2 e 3), che avviene mediante: – la redazione del processo verbale dei fatti accertati, dei sequestri eseguiti e delle dichiarazioni rese dai soggetti interessati, i quali sono invitati a firmare il processo verbale ed hanno diritto di averne copia; – l’eventuale redazione di un separato atto che, oltre a contenere l’indicazione dei singoli illeciti contestati e degli adempimenti per la definizione del contesto, viene immediatamente consegnato alla parte, ovvero, quando ciò non sia possibile, deve essere notificato secondo quanto previsto dall’art. 14 della legge 24 novembre 1981, n. 689 ed entro i termini tassativamente fissati dallo stesso articolo, pena l’estinzione della violazione.

Ed ancora, i poteri concernenti la possibilità di richiedere l’esibizione di libri contabili, documenti e corrispondenza ed estrarne copia (art. 28, comma 1)[29].

Tra l’altro, in virtù della previsione dell’art. 3 del D.L. n. 143/1991, il Nucleo speciale può delegare gli incarichi attribuitigli da detta legge agli ufficiali di Polizia tributaria dei nuclei di Polizia tributaria che, per l’occasione, acquisiscono i medesimi poteri appena menzionati[30].

Gli elementi acquisiti possono essere utilizzati entro il termine prescrizionale quinquennale dalla commissione delle violazioni valutarie di carattere amministrativo.

La Guardia di Finanza, tra l’altro, accerta infrazioni alla normativa valutaria oltre che a seguito di specifica e finalizzata attività di controllo ed ispettiva presso aziende ed istituti di credito, anche in altri contesti operativi, in particolare durante l’esecuzione di normali operazioni di indagini fiscali, in genere, oppure a seguito di apertura di una verifica fiscale. In questo caso i militari sono tenuti a redigere l’atto di constatazione dell’infrazione valutaria, consegnandolo al soggetto interessato[31].

Ma l’insieme dei dati, informazioni, notizie che la Guardia di finanza ottiene attraverso l’ esercizio del coacervo di poteri fin ora enunciati, legittima il Corpo ad un loro utilizzo per finalità tributarie? O meglio: le informazioni che acquisisce a seguito di attività di indagine iniziate per finalità che esulano dalla tutela degli interessi erariali (dunque, tanto per rimanere in tema, per scopi valutari, in genere o antiriciclaggio, in particolare) possono (devono) essere “sfruttate” per scopi fiscali, in un’ottica di economia procedimentale e di efficienza della Pubblica amministrazione?[32]

Si ritiene opportuno effettuare un distinguo, a seconda che gli elementi di interesse vengano acquisiti per finalità inerenti il controlli sui movimenti da e per l’estero di capitali di cui al D.L. 28 giugno 1990, n. 167, convertito con modificazioni dalla legge 4 agosto 1990, n. 227 (il cosiddetto “monitoraggio fiscale”, si è detto) oppure per scopi riguardanti il D.L. 3 maggio 1991, n.143, convertito, con modificazioni, dall’art. 1, L. 5 luglio 1991, n. 197 (in materia di antiriciclaggio).

Nel primo caso, riferendoci al “monitoraggio fiscale”, è da ribadire che il D.L. n. 167 del 1990 ha subìto delle significative modifiche ad opera del D.Lg. 30 aprile 1997, n. 125. Infatti, l’art. 3 ter, comma 1 del D.L. n. 167, introdotto dall’art. 1 del D. L.g. n. 125, evidenzia che ”in deroga all’obbligo del segreto d’ufficio, i dati ricevuti dall’UIC sono trasmessi (…) all’Amministrazione finanziaria che li utilizza per i propri fini istituzionali (…)’‘. Pertanto non pare possano sussistere ragionevoli dubbi circa l’utilizzabilità a fini fiscali dei dati relativi ai trasferimenti di valori superiori alla soglia di 12.500 euro.

Tali dati vengono utilizzati dalla Guardia di Finanza ai fini di controlli incrociati atti a verificare che i capitali movimentati risultino indicati nella dichiarazione dei redditi dei soggetti interessati[33].

Infatti l’art. 4, comma 1 e 2 del D.L. n. 167 del 1990 regolamenta l’obbligo di “Dichiarazione annuale per gli investimenti e le attività”, con la precisazione che, le persone fisiche, le società di persone ed equiparate e gli enti non commerciali sono tenuti a indicare nella dichiarazione dei redditi:

– l’ammontare dei trasferimenti da, verso e sull’estero che nel corso dell’anno hanno interessato gli investimenti all’estero e le attività di natura finanziaria, sempre che l’importo complessivo sia superiore a 12.500 euro;

– gli investimenti all’estero e le attività estere di natura finanziaria, oltre i 12.500 euro.

L’attività di controlli incrociati, cui si è fatto cenno, è idonea a far scattare, limitatamente ai trasferimenti verso l’estero, il regime della tassazione presuntiva previsto dall’art. 6 della L. n. 167/1990 (novellato dall’art. 11 del D. Lg. 21 novembre 1997, n. 461).

Passando ora alla seconda ipotesi, che riguarda la fattibilità giuridica dell’utilizzo, ai fini tributari, di dati ed elementi acquisiti a seguito dell’esercizio di mansioni volte a prevenire il riciclaggio (D.L. 3 maggio 1991, n.143), valgono le seguenti considerazioni.

Qui, gli scarsissimi risultati cui si è giunti in tema di processi incardinati a seguito delle sia pur innumerevoli segnalazioni per operazioni sospette, inducono ad una riflessione e cioè che, probabilmente, come da più parti è stato avvertito, qualcosa non vada nel sistema.

Non ci si può capacitare come sia possibile che a fronte di oltre 16.000 segnalazioni pervenute nel 2005 all’UIC, risultino avviati solo poco più di 100 processi penali[34].

E’ intuitivo che molte di queste segnalazioni abbiano costituito spunto di approfondimento da parte della Direzione investigativa antimafia e/o del Nucleo speciale di Polizia valutaria e che quindi ci sia stato un vaglio delle autorità preposte a tali indagini. Tuttavia, in un contesto economico-finanziario in cui le risorse pubbliche (e non solo) scarseggiano e dove mai così tanto, come negli ultimi anni, si è parlato del rispetto delle tre “E”, riconducibili ai principi di efficienza, efficacia ed economicità dell’impiego delle risorse, viene da chiedersi se non sia ragionevole (quanto poi alle considerazioni giuridiche, si dirà in seguito) che allo sforzo sostenuto dall’apparato pubblico venga “resa giustizia”, magari tramite l’utilizzo, ai fini tributari, del materiale probatorio acquisito per scopi antiriciclaggio?

Ma ci sono i margini giuridici, il conforto della legge, perché ciò avvenga?

E’ importante una preventiva valutazione, in tal senso, allo scopo di evitare “che il cane si morda la coda”: un utilizzo avventato, ultroneo degli elementi probatori di rilevanza fiscale, acquisiti irritualmente, nel dispregio della normativa e al di là di ciò che essa consenta, può vanificare lo sforzo, spesso molto oneroso, profuso dal Fisco.

Negli ultimi anni, infatti, la giurisprudenza della Suprema Corte si è orientata prevalentemente per una inutilizzabilità nel processo tributario di elementi probatori irritualmente acquisiti[35]; la posizione è supportata non solo dal generale principio di legalità esistente nell’ ordinamento, ma anche dalla violazione del diritto di difesa del contribuente che inevitabilmente renderebbe inutilizzabile la prova assunta in modo illegittimo[36].

Non può tuttavia sottacersi l’avverso assunto giurisprudenziale, sia pur minoritario, a mente del quale “in materia tributaria non vige il principio, presente invece nel codice di procedura penale, secondo cui è inutilizzabile la prova acquisita irritualmente” e quindi, in assenza di una chiara sanzione processuale in ambito tributario, volta a rendere inutilizzabile il materiale non correttamente assunto, ben può il Fisco utilizzarlo a fini accertativi.

La posizione si inserisce in un filone giurisprudenziale elaborato recentemente che ha il proprio nucleo nell’argomento secondo cui gli interessi coinvolti nell’esercizio della giurisdizione penale sono del tutto peculiari[37].

Detto questo, i fautori dell’orientamento favorevole all’utilizzo ai fini tributari di elementi acquisiti per motivi riconducibili al contrasto del riciclaggio, intravedono la forza della propria posizione principalmente nell’art. 36 del D.P.R. 29 settembre 1973, n. 600, novellato dall’art. 19 della L. 30 dicembre 1991, n. 413, nonché dall’art. 37 comma 31 del D.L. 4 luglio 2006, n. 223, convertito, con modificazioni, nella legge 4 agosto 2006, n. 248. L’assieme normativo sarebbe ispirato a propendere per un “travaso” di elementi probatori dall’iniziale contesto preventivo – amministrativo antiriciclaggio, a quello successivo amministrativo – tributario.

In particolare l’art. 36 prevede che "I soggetti pubblici incaricati istituzionalmente di svolgere attività ispettive o di vigilanza nonché gli organi giurisdizionali, requirenti e giudicanti, penali, civili e amministrativi e, previa autorizzazione, gli organi di polizia giudiziaria che, a causa dell’esercizio delle loro funzioni, vengono a conoscenza di fatti che possono configurarsi come violazioni tributarie devono comunicarli direttamente ovvero, ove previste, secondo le modalità stabilite da leggi o norme regolamentari per l’inoltro della denuncia penale, al comando della Guardia di finanza competente in relazione al luogo di rilevazione degli stessi, fornendo l’eventuale documentazione atta a comprovarli".

Su questa linea si è posta la Guardia di Finanza che, con Circolare 176000 in data 1 agosto 2001, Manuale operativo in materia di riciclaggio, usura e circolazione di capitali, ha precisato che la Polizia valutaria, in quanto ”soggetto pubblico incaricato istituzionalmente di svolgere attività ispettive e di vigilanza”, debba comunicare al reparto della Guardia di Finanza competente, in ragione del luogo dove vengono rilevate le violazioni tributarie, le notizie e gli elementi che acquisisce durante la propria attività d’istituto.

L’ostacolo che deriva dal divieto posto dall’art. 3-bis del D.L. n. 143/1991, in merito alla riservatezza del “materiale” probatorio acquisito a seguito dell’esercizio dei poteri in ambito antiriciclaggio, sul quale hanno fatto leva coloro che non accettano l’utilizzo di tali dati ed elementi se non esclusivamente per le finalità ammesse dalla legge che ne legittima la loro acquisizione, sarebbe superato dalla considerazione che se di “riservatezza” debba parlarsi, questa vada intesa limitatamente all’identità del soggetto segnalante e non anche in relazione al contenuto della segnalazione che ben potrà essere “elaborata” e “sfruttata” efficientemente ed efficacemente per finalità tributarie.

Pertanto, le disposizioni applicative diramate dalla Circolare in questione precisano che se a seguito dello svolgimento di attività di approfondimento di operazioni sospette, tramite l’esercizio dei poteri di Polizia valutaria, il reparto del Corpo dovesse riscontrare spunti rilevanti sotto il profilo tributario, tale reparto è tenuto a redigere un appunto informativo, comprensivo della relativa documentazione, ed inoltrarlo, a propria volta, al reparto competente in relazione alla residenza del contribuente. Quest’ultimo, dopo aver proceduto all’analisi di quanto ricevuto, dovrà valutare se “attivare un accertamento tributario nei confronti del soggetto sottoposto al controllo antiriciclaggio”([38]) ([39]) ([40]).

Sempre percorrendo il solco dottrinale propenso verso un utilizzo dei dati per scopi fiscali, è stato sostenuto che, “(…) se è vero, come previsto dall’art. 3, comma 10, della L. 197/1991, che tutte le informazioni in possesso dell’UIC e degli altri organi di vigilanza e di controllo sono coperte dal segreto d’ufficio anche nei confronti delle pubbliche Amministrazioni, è altrettanto vero che l’art. 2, comma 1, della stessa legge prevede che i dati registrati nell’archivio unico possono essere utilizzati ai fini fiscali”[41].

Tuttavia è raro che una segnalazione di operazione sospetta contenga già di suo elementi sufficientemente significativi tali da supportare, in punto di motivazione, un (eventuale) avviso di accertamento. E’ invece più frequente che dalla segnalazione emergano spunti, indizi che stimolino un’attività di indagine fiscale.

Le prospettive che scaturirebbero da una soluzione positiva, in tal senso, sarebbero foriere di scenari ad ampio spettro.

I dati ed elementi acquisiti, oltre a dare un significativo spunto per orientare la lotta all’evasione in ambito nazionale, potrebbero costituire elemento di valutazione per l’attivazione ufficiale di richieste di assistenza fiscale nell’ambito della cooperazione amministrativa internazionale [42].

E’ stato ritenuto che verrebbero comunicati anche i più sensibili dati di natura bancaria e, nella pratica, "l’eventuale documentazione di interesse" che la Polizia valutaria potrebbe inviare agli altri reparti delle Fiamme Gialle, si sostanzierebbe proprio nella documentazione bancaria (rectius, finanziaria) acquisita avvalendosi dei più incisivi poteri di Polizia valutaria (laddove, evidentemente, viene superato l’articolato regime delle autorizzazioni amministrative che legittima il Fisco, per fini istituzionali, all’acquisizione di questi dati)[43].

La posizione dottrinale appena evidenziata, va tuttavia vagliata con oculatezza e posta in raffronto con ineludibili postulati della normativa tributaria.

Ci si riferisce all’impedimento tassativamente stabilito dal comma 1, punti 6-bis) e 7) dell’art. 32 del D.P.R. n. 600/73 e dal comma 2, punti 6-bis) e 7) dell’art. 51 del D.P.R. n. 633/72, rispettivamente in materia di accertamento delle imposte sui redditi e sul valore aggiunto, a mente dei quali i dati bancari (finanziari) sono acquisibili da parte del Fisco unicamente a seguito della prevista autorizzazione del Direttore centrale – o regionale – dell’Agenzia delle Entrate o del Comandante regionale della Guardia di Finanza.

L’autorizzazione de qua ha natura amministrativa e, alla luce, tra l’altro, di quanto evidenziato dalla legge 27 luglio 2000, n. 212 (nota come Statuto dei diritti del contribuente che, “in attuazione degli articoli 3, 23, 53 e 97 della Costituzione”, racchiude i principi generali dell’ordinamento tributario – art. 1, comma 1 della L. n. 212/2000 – ), “gli atti dell’Amministrazione finanziaria sono motivati secondo quanto prescritto dall’art. 3 della legge 7 agosto 1990, n. 241, concernente la motivazione dei provvedimenti amministrativi, indicando i presupposti di fatto e le ragioni giuridiche che hanno determinato la decisione dell’amministrazione (…omissis…)”.

Ne emerge che se la legge del settore tributario antepone l’autorizzazione de qua all’utilizzo per scopi fiscali dei dati bancari (finanziari), ne consegue che un’acquisizione dei medesimi tramite l’esercizio di altri poteri (quindi in assenza dell’autorizzazione), che non siano espressamente quelli di polizia tributaria, ne preclude un loro diretto utilizzo a tale fine.

Il legislatore, infatti, attraverso l’autorizzazione rilasciata dal Direttore centrale – o regionale – dell’Agenzia delle Entrate o del Comandante regionale della Guardia di Finanza, vuole consentire al contribuente di seguire il ragionamento logico giuridico, oltre che conoscere i presupposti di fatto, che hanno indotto gli operatori del Fisco a richiedere quel provvedimento, eventualmente successivamente rilasciato.

In assenza, al contribuente verrebbe preclusa la possibilità di controllare che l’agire del Fisco sia o meno in linea con il dettame normativo.

Ma allora tutti i dati che la Guardia di Finanza ed il Fisco acquisiscono “aggirando la procedura amministrativa tributaria” (sia consentito il termine), è come se tamquam non esset?

No. Si ritiene che intanto possano essere utilizzati in quanto tale loro impiego non sia violativo delle specifiche procedure di settore, nel rispetto delle garanzie ora cristallizzate nello Statuto dei diritti del contribuente.

Il materiale di natura bancaria (finanziaria), acquisito tramite l’utilizzo dei poteri di Polizia valutaria, comunque può avere un peso e non di poco conto in ambito fiscale: verrà utilizzato quale indizio di violazioni tributaria per motivare, ad esempio, futuri atti di indagine; in tale chiave di lettura potrà esso stesso costituire supporto motivazionale dell’autorizzazione del Direttore centrale – o regionale – dell’Agenzia delle Entrate o del Comandante regionale della Guardia di Finanza, unitamente ad altri elementi che ne supportino i presupposti motivazionali in fatto ed in diritto.

Va da sé, peraltro, che l’utilizzo dei dati, acquisiti – in origine – attraverso l’esercizio dei poteri di Polizia valutaria (e non di Polizia tributaria), comunque preclude al Fisco di impiegarli applicando la presunzione legale ”iuris tantum” ai fini dell’accertamento delle imposte dirette, prevista dal comma 1, punto 2 dell’art. 32 del D.P.R. n. 600/73.

Tale incisiva tecnica di indagine, in virtù della quale è invertito l’onere probatorio che ordinariamente grava sul Fisco, potrà essere utilizzata a condizione che i dati di interesse vengano acquisiti attraverso la procedura prevista dal decreto 600/73.

Si è del parere che la medesima considerazione (inapplicabilità della citata presunzione relativa) valga anche in relazione a quanto previsto dall’art. 2, comma 14-ter, del D.L. 203/2005, convertito dalla legge 248/2005 che ha disposto, limitatamente ai periodi di imposta antecedenti il 1^ gennaio 2006, che i soggetti destinatari delle richieste di accertamenti bancari dell’Amministrazione finanziaria – di cui all’art. 32, comma 1, n. 7) del D.P.R. n. 600/73 e all’ art. 51, comma 2, n. 7) del D.P.R. n. 633/72 – utilizzino, ai fini delle risposte relative ai dati, notizie e documenti riguardanti operazioni non transitate in conto, le rilevazioni effettuate ai fini della normativa antiriciclaggio, di cui all’art. 2 della L. 5 luglio 1991, n. 197.

Dall’insieme delle normative menzionate si comprende come il legislatore tenda a creare punti di contatto tra le disposizioni fiscali e quelle antiriciclaggio; dimostra inoltre di non perdere l’occasione per fornire agli operatori gli strumenti atti ad interagire e dialogare sinergicamente allo scopo della repressione degli illeciti di rispettiva competenza.

Ulteriore conferma è data da interventi legislativi (art. 7, comma undicesimo, del D.P.R. n. 605 del 29 settembre 1973, come modificato dal D.L. 4 luglio 2006, n. 223, convertito con la L. 4 agosto 2006, n. 248 e parzialmente modificato dal D.L. 3 ottobre 2006, n. 262) tramite i quali è stato dato “ordinario” libero accesso all’Anagrafe dei rapporti con gli intermediari finanziari, efficace strumento di indagine tributaria concepito giustappunto da legge di settore[44], anche a coloro[45] che, pur non svolgendo mansioni investigative in ambito specificamente tributario, operano ai fini dell’espletamento sia degli accertamenti finalizzati alla ricerca e all’acquisizione delle fonti di prova (e delle prove) nel corso di un procedimento penale, sia degli accertamenti di carattere patrimoniale per le finalità di prevenzione previste da specifiche disposizioni di legge e per l’applicazione delle misure preventive[46].

Dal contesto normativo emerge che l’Anagrafe dei rapporti con gli intermediari finanziari, che ha la funzione di consentire l’immediata individuazione degli operatori finanziari con i quali “il soggetto posto sotto osservazione dall’Autorità investigativa” intrattiene rapporti, potrà fornire un validissimo ausilio non solo sul piano delle investigazioni tributarie ma anche in merito alle attività volte al contrasto di illeciti in ambito economico – finanziario, quali quelli riconducibili al fenomeno del riciclaggio.

In particolare sarà accessibile, oltre che da parte degli operatori Fisco (i quali, ai fini d’istituto, operando in un contesto amministrativo, comunque dovranno munirsi della motivata autorizzazione proveniente del Direttore centrale – o regionale – dell’Agenzia delle Entrate o dal Comandante Regionale della Guardia di Finanza di cui al comma 2 dell’art. 51 del D.P.R. n. 633/1972 ed al comma 1 dell’art. 32 del D.P.R. n. 600/73) anche dall’Autorità giudiziaria, dagli Ufficiali di Polizia giudiziaria, dall’Ufficio Italiano Cambi, dal Ministro dell’interno, dal Capo della Polizia – Direttore Generale della Pubblica Sicurezza, dai Questori, dal Direttore della Direzione Investigativa Antimafia e dal Comandante del Nucleo speciale di Polizia valutaria della Guardia di Finanza, sulla base dei rispettivi poteri istruttori[47].

L’impressione è che si sia cercato di creare una sorta di “griglia virtuale” di disposizioni, a vario titolo connesse e legate, allo scopo di controllare, monitorare i movimenti di capitali che potrebbero essere il frutto di illeciti di varia natura e che, a propria volta, potrebbero generarne altri[48].

Balza in mente, a questo punto, anche la normativa sulla la cosiddetta tracciabilità “delle spese e dei compensi professionali” introdotta dalle recenti leggi finanziarie (la legge 30 dicembre 2004, n. 311 – Finanziaria 2005 – e la legge 27 dicembre 2006, n. 296 – Finanziaria 2007 -), con la quale si è voluto cristallizzare, rectius, fotografare in maniera inequivocabile le “mosse dei professionisti e degli artisti”, attraverso strumenti tracciabili, ossia meccanismi che lascino traccia delle riscossioni effettuate[49].

Si, è vero che la normativa de qua è finalizzata per la tutela degli interessi fiscali dello Stato, ma non è da escludere che in avvenire possa essere rimodulata, magari anche con un ampliamento dei soggetti inclusi nel suo campo d’azione, onde consentirne un ”ordinario” utilizzo a fini antiriciclaggio.

 

 

4. Qualche riflessione sulla progressiva estensione degli obblighi antiriciclaggio alle categorie professionali.

 

Alcune stime ricondurrebbero il fenomeno del riciclaggio ad una piaga che toccherebbe circa l’8% del prodotto interno lordo del nostro Paese.

A seguito dell’approfondimento di operazioni sospette, realizzate negli 2004 – 2005 dalla Guardia di Finanza, sono emersi i seguenti risultati[50]:

1.       violazioni amministrative alla normativa antiriciclaggio: 1587 casi, con il coinvolgimento di 1776 soggetti e l’irrogazione di sanzioni amministrative pecuniarie corrispondenti a 485,3 milioni di euro;

2.       violazioni penali alle norme antiriciclaggio: 268 casi con il coinvolgimento di 390 soggetti e l’irrogazione di sanzioni pecuniarie per 254,3 milioni di euro;

3.       riciclaggio accertato di capitali illeciti (art. 648-bis c.p.): 66 casi per complessivi 32,5 milioni di euro;

4.       impiego accertato di capitali illeciti (art. 648-ter c.p.): 7 casi per complessivi 1,6 milioni di euro.

Il numero del procedimenti penali definiti con condanne, inoltre, risulta del tutto esiguo.

Il dato numerico, che si è voluto appositamente riportare, si riferisce ad un lasso di tempo durante il quale ancora non era entrato in vigore il D.M. n. 141 del 3 febbraio 2006, di recepimento della seconda direttiva antiriciclaggio CE[51], e relative istruzioni dell’U.I.C. del 24 febbraio 2006, attraverso cui è stata ampliata la platea dei soggetti sottoposti all’osservanza degli obblighi antiriciclaggio in relazione ad alcune categorie professionali[52].

La tendenza è stata confermata tramite il D.M. 10 aprile 2007, n. 60 che, integrando il regolamento antiriciclaggio riguardante i professionisti, estende tali obblighi anche ai soggetti non iscritti ad albi, ordini, collegi e registri i quali svolgono professionalmente le stesse attività dei revisori contabili, periti e consulenti in materia di amministrazione, tributaria e di contabilità[53].

Nei primi otto mesi di vigenza del D.M. per ultimo citato (periodo che va, all’incirca, da aprile a dicembre 2006), a fronte di un totale di 9.884 segnalazioni pervenute all’Ufficio Italiano Cambi, 8.003 sono riconducibili agli Enti creditizi e 238 agli operatori non finanziari e professionisti (tra questi: 172 notai, 26 dottori commercialisti, 13 ragionieri, 9 società di revisione, 5 agenzie di mediazione immobiliare, 4 consulenti del lavoro, 3 avvocati, 2 revisori contabili, 2 artigiani dediti alla fabbricazione di oggetti preziosi e 2 soggetti che operano nel settore della fabbricazione, mediazione e commercio di oggetti preziosi)[54].

Naturalmente i dati fanno riflettere.

Alle critiche che nacquero a suo tempo a causa dell’imposizione agli intermediari finanziari dell’obbligo di “segnalazione delle operazioni sospette”[55], si aggiungono quelle che avanzano quasi tutte le categorie professionale per il sempre più importante ruolo attivo che il legislatore intravede nei professionisti nella lotta al riciclaggio.

Critiche che trovano svariati supporti motivazionali.

Anzitutto il rischio che tale coinvolgimento possa intaccare il segreto professionale, con particolare riguardo all’obbligo di segnalazione di operazione sospetta.

D’altronde l’impercettibile incremento delle segnalazioni pervenute all’U.I.C. dopo il consolidamento dell’ “esercito” di coloro che sono stati chiamati a combattere il riciclaggio, rectius i professionisti, non è escluso, è stato detto, che sia dovuto al timore di una scarsa riservatezza di tali segnalazioni ed al potenziale rischio di un affievolimento del rapporto di fiducia con il cliente.

E’ stato osservato che “tutto ciò finirà per trasformare i dottori commercialisti, ragionieri, consulenti del lavoro, avvocati e notai in vere e proprie spie dei propri clienti ingenerando di fatto un nocumento degli stessi soggetti che, da un lato pagano il professionista e dall’altro manifestano verso lo stesso la loro fiducia effettuando specifiche rivelazioni”[56], ed anche che “trasformare gli avvocati in spioni” non avrà come conseguenza di produrre effetti utili sotto il profilo della correttezza dei comportamenti delle imprese, ma piuttosto farà sì che le imprese semplicemente si astengano dal chiedere assistenza legale[57].

In particolare, in merito alla professione forense, è stato ritenuto che l’avvocato ha un’importante funzione nella prevenzione del crimine, che si esplica attraverso la consulenza al proprio cliente; tale funzione verrebbe gravemente compromessa laddove il cliente omettesse di riferire alcune circostanze per il timore che il proprio avvocato segnali alle autorità l’operazione sospetta[58].

Tuttavia l’art. 2, comma 3, del D. Lgs. n. 56/2004, ha previsto una clausola che limita l’obbligo di segnalazione alle sole attività che vengono esercitate stragiudizialmente, dunque al di fuori di un procedimento giudiziale.

La normativa separa nettamente tra avvocato consulente ed avvocato patrocinatore del proprio cliente, tra avvocato che si prepara a difendere il cliente in giudizio o che rende una consulenza con riferimento ad una possibile situazione contenziosa e avvocato che presta una consulenza senza nessuna connessione diretta con un profilo di “rischi di causa”.

Peraltro nell’ambito di una professione che si vorrebbe unitaria, è palesata una completa area di differenziazione, forse di discriminazione, tra avvocato mero consulente o avvocato d’affari, e avvocato togato, avvocato patrocinatore. Dunque l’attività di consulenza legale, di assistenza continuativa, di consiglio quotidiano, di revisione, di studio, di redazione dei contratti, di negoziazione, si trova, di fatto, esposta ad una sostanziale deminutio: sembrerebbe non avere dignità nell’ambito dei valori acclarati dalla normativa antiriciclaggio.

Da qui gli auspici di coloro che pensano ad un’espansione del raggio di operatività della “clausola di esclusione” (attualmente, forse, “clausola di discriminazione”) anche all’attività stragiudiziale che, evidentemente, non riguarda solo la professione forense ma anche, tra le altre, quella del commercialista. Anche il commercialista, come l’avvocato (sic!, d’affari), ha un ruolo di garanzia per il proprio cliente “soprattutto se si interpreta l’oggetto di tale garanzia anche come la possibilità di dare concreta vita a diritti che, nella complessità degli ordinamenti contemporanei, rischiano di essere sterilizzati dal proprio tecnicismo se non attivati da interpreti competenti”. Basti pensare al ruolo dell’Avvocato e del commercialista nel settore del diritto tributario e delle new tecnologies, cui il cittadino e l’imprenditore non possono, oramai, prescindere da una consulenza tecnica e specialistica per poter appieno godere dei propri diritti[59].

Se da una parte l’estensione degli obblighi antiriciclaggio anche ai professionisti non iscritti agli albi[60] è vista come “gravemente lesiva degli attuali equilibri legislativi che si fondano sul sistema ordinistico”, avendo il legislatore “(…) di fatto operato un implicito ed illegittimo riconoscimento di attività professionali in capo a soggetti privi della necessaria qualificazione giuridica e professionale”[61], d’altra parte c’è chi censura il vigente panorama normativo per aver “addossato” ai professionisti, già oberati di un’ enorme produzione normativa, “un onere sociale” che dovrebbe gravare sulle forze pubbliche impegnate ad avversare forme malavitose di criminalità organizzata[62].

C’è il rischio, infatti, che i professionisti, per non incorrere nelle pesanti sanzioni prevista della normativa antiriciclaggio, debbano diventare gli investigatori dei propri clienti. Ma così non deve essere. E’ giusto che ognuno faccia il suo.

Si è detto del reato tributario quale reato presupposto del riciclaggio; nella circostanza è stato evidenziato quanto sia difficile per un consulente, quale il commercialista, poter individuare il momento di perfezionamento di quel reato, condizione necessaria per collocare il provento della sottostante operazione nel novero dell’illiceità penale e dunque idoneo ad essere riciclato.

Ma è giusto addossare al professionista un’incombenza, una preoccupazione così tanto grande?

Invece il fenomeno del riciclaggio può essere combattuto prevalentemente attraverso un’intensificazione degli strumenti di indagine e dei poteri conferiti alle forze a ciò preposte.

Non che non debba richiedersi il prezioso ausilio collaborativo di chi, come i professionisti che operano nel settore economico-legale, più di altri hanno l’occasione di venire a conoscenza di contesti in odore di riciclaggio, ma è altrettanto auspicabile che l’intervento normativo stimoli di più, di quanto non avvenga attualmente, tale collaborazione che, di fatto, si concretizza in un costo sociale di chi, professionista e non, è obbligato al rispetto degli stringenti vincoli.

Si potrebbe pensare ad agevolazioni fiscali in relazione ai maggiori oneri finalizzati ad organizzare lo studio in vista degli obblighi in argomento.

E perché no?

 

 

 


 


 

* Le opinioni espresse dall’autore, tenente colonnello della Guardia di Finanza, sono frutto di uno studio personale e non implicano alcuna presa di posizione del Corpo di appartenenza.

[1] Il reato di riciclaggio è riconducibile all’art. 648 bis del codice penale secondo cui realizza tale fattispecie chiunque, “Fuori dei casi di concorso nel reato (…) sostituisce o trasferisce denaro, beni o altre utilità provenienti da delitto non colposo, ovvero compie in relazione ad essi altre operazioni, in modo da ostacolare l’identificazione della loro provenienza delittuosa (…)”. E’ previsto, inoltre, un inasprimento della pena nel caso il fatto venga commesso nell’esercizio di un’attività professionale e non rileva che il soggetto attivo del reato presupposto, da cui il denaro, i beni o le altre utilità provengano, sia non imputabile o non punibile, alla stessa stregua di come non rileva l’assenza di una condizione di procedibilità.

L’attuale impostazione dell’art. 648 bis amplia il novero dei reati presupposto astrattamente riconducibili al riciclaggio. Infatti la legge 19 marzo 1990, n. 55, riscrivendo l’art. 648 bis ed intitolandolo, nella vigente versione, “Riciclaggio” (la precedente era rubricata “Sostituzione di denaro e valori frutto di rapina aggravata o sequestro di persona a scopo di estorsione”), abolisce il tassativo (e quindi riduttivo) numero chiuso dei reati presupposto, estende il suo orizzonte di applicazione a tutti i delitti non colposi, rivelandosi più efficace a prevenire e reprimere l’utilizzo di proventi illeciti da reati molto redditizi, quali il contrabbando, i reati societari, la truffa, la frode fiscale, la bancarotta, il traffico d’armi, in precedenza intaccato penalmente nelle limitate ipotesi della ricettazione e del favoreggiamento reale. Vengono colpiti, ora, oltre alla “sostituzione” (precedente versione) anche il “trasferimento” del provento.

Il reato di riciclaggio presuppone il dolo generico del soggetto attivo; dunque deve essere dimostrato che costui è a conoscenza che il denaro, i beni o altre utilità sono riconducibili ad un reato non colposo e che ha agito con volontà e coscienza al fine della sostituzione o del trasferimento dell’illecito provento.

E’ stato ritenuto che la ratio della norma incriminatrice consiste nell’intendimento di reprimere i comportamenti e di contrastare i processi “attraverso i quali si nasconde l’origine illegale di un introito, mascherandolo in modo da farlo apparire legittimo” (Pecorella, voce Denaro – sostituzione di – D. Pen. v. III, Torino, 1989, 366) o, in altri termini “il complesso delle operazioni necessarie per attribuire un’origine simulatamene lecita a valori patrimoniali di provenienza criminosa” (Zanchetti, Il riciclaggio di denaro proveniente da reato, Milano, 1997, pag. 179).

La fattispecie in esame ha subìto, durante gli ultimi anni, un’ evidente trasformazione a seguito sia di impegni internazionali assunti dall’Italia, sia delle mutate prospettive di politica criminale che hanno preso coscienza dell’importanza “strategica” del reato nel panorama del crimine organizzato contemporaneo.

E’ stato ritenuto che la norma incriminatrice, oltre a voler impedire che gli autori di fatti di reato possano far fruttare i capitali illegalmente acquisiti, rimettendoli in circolazione, finisce con il perseguire un ulteriore obiettivo, e cioè quello di scoraggiare la stessa commissione di reati principali, ponendo barriere alla possibilità di sfruttarne i proventi (Manna, Il bene giuridico tutelato nei delitti di riciclaggio e reimpiego. Dal patrimonio all’amministrazione della giustizia, sino all’ordine pubblico ed all’ordine economico, in Manna (a cura di), Riciclaggio e reati connessi all’intermediazione mobiliare, Torino 2000, pag. 53).

Altra ipotesi penalmente rilevante ed introdotta dall’art. 24 della Legge n. 55/1990, è quella descritta dall’art. 648 ter, finalizzata ad impedire che proventi illeciti possano essere immessi nei normali circuiti economici e finanziari; il reato è commesso da “Chiunque, fuori dei casi di concorso del reato e dei casi previsti dagli articoli 648 e 648 bis, impiega in attività economiche o finanziarie denaro, beni o altre utilità provenienti da delitto (…)”.E’ previsto un aumento della pena “(…) quando il fatto è commesso nell’esercizio di un’attività professionale”.

[2] Il processo tramite il quale il riciclaggio si realizza, si articola, di massima, in tre fasi. La prima riguarda l’accumulazione di capitali illeciti, quale risultato delle attività criminali. La seconda consiste nella trasformazione dei capitali illeciti in leciti attraverso il loro mascheramento, ottenuto con l’interposizione di schermature idonee ad allontanare il provento dalle sue origini illecite, non solo sotto il profilo giuridico, ma anche geografico. Un esempio, particolarmente sofisticato, è rappresentato dalle interposizioni societarie, procedure a seguito delle quali si accede alla costituzione ed al finanziamento di società a capitale sociale tra loro interconnesso. Tali imprese, che di fatto, di per sé, sono idonee a “confondere” l’origine del capitale, risultano, a propria volta, compartecipi di ulteriori realtà societarie, normalmente anonime, “capofila” di altre strutture della stessa specie. Ne consegue che l’originaria illiceità del denaro e la stessa titolarità di questo, sono confuse già nella prima “proprietà”, per poi disperdersi nelle altre. In tali contesti normalmente la società madre, che origina la cosiddetta “cascata societaria”, è situata all’estero, impedendo ogni riscontro sulla liceità del primo finanziamento e, di conseguenza, degli altri. La terza fase si realizza attraverso l’investimento di capitali “lavati in attività lecite: si tratta del collocamento, la fase più delicata poiché comporta l’emersione della ricchezza in capo ad un determinato soggetto. Classici esempi sono rappresentati dall’acquisto di beni mobili ed immobili, dalla concessione di prestiti, finanziamenti, sovvenzioni, da acquisto di azioni e titoli in genere. Nel caso tale ultima fase dovesse sortire l’effetto prefisso, è possibile passare a quella dell’integrazione, vale a dire dell’assunzione – della nuova ricchezza – di un’apparente legittimità nel sistema. Tali fasi possono nascere ed esaurirsi in un solo Paese ma possono anche intersecarsi ed interessare territori di più Paesi (Cocuzza, Segreto bancario, criminalità organizzata, riciclaggio, evasione fiscale in Italia, Padova, 2007).

Gli studiosi, inoltre, ne hanno tratteggiato le tappe cronologiche: anni settanta, caratterizzati dal cosiddetto riciclaggio monetario in cui veniva impiegato, allo scopo, un quantitativo enorme di denaro contante; anni ottanta, caratterizzati per dal riciclaggio bancario, favorito dall’abolizione delle misure restrittive alla circolazione dei capitali che il legislatore comunitario esige per la realizzazione del Mercato unico; anni novanta che si tipizzano per quello che è stato coniato come il riciclaggio finanziario in quanto canalizzato prevalentemente attraverso società finanziarie. L’attuale momento storico si contraddistingue per il cosiddetto riciclaggio extrafinanziario, ossia quello a cui la criminalità, a causa dei sempre maggiori controlli sul sistema bancario-finanziario, è ricorsa per approvvigionarsi nuovi canali. In tale contesto sono riconducibili tutti quei soggetti non direttamente afferenti il settore dell’intermediazione finanziaria – case d’asta, casinò, professionisti legali e contabili, ecc. – (Danovi, La normativa antiriciclaggio ed i professionisti, Milano, 2006, pagg. 16 e17).

[3] La difficoltà in cui si trova l’investigatore, legata a comprendere quale sia, tra i tanti proventi, quello illecito immesso nel circuito economico legale, può essere emblematicamente riassunta in una semplice ma chiara riflessione: “Si immagini il mare che sembra tutto uguale, ma all’interno ci sono le correnti e solo stando dentro ci si accorge se l’acqua è più o meno fredda: il riciclaggio è un po’ così, nel senso che i soldi sporchi sono uguali agli altri e dall’esterno non si possono riconoscere”, U.Di Nuzzo – A. Carano, Gli adempimenti giuridico-contabili per i professionisti nella prevenzione del riciclaggio, in Il Fiscovideo.

[4] In quegli anni la consapevolezza del grave rischio di un inquinamento dei mercati, a causa della provenienza illecita del denaro, scosse l’intera Comunità sociale internazionale. Vennero, da allora, posti il luce una serie di provvedimenti che possono, di massima, riassumersi: – nella Convenzione di Vienna sul traffico di stupefacenti del 1988; – nella Dichiarazione di Basilea del 1988; – nella nascita del GAFI nel 1989; – nelle “40 raccomandazioni GAFI”- del 1990; – nella Prima Direttiva 308/1991/CEE del 10 giugno 1991 della Comunità Europea sul riciclaggio; – nella Seconda Direttiva 2001/97/CE del 4 dicembre 2001 dell’Unione Europea sul riciclaggio; – nella riedizione delle “40 Raccomandazioni GAFI” del 1996 e nella pubblicazione delle “9 Raccomandazioni GAFI” sul contrasto all’utilizzo di fondi in attività terroristiche del 2001, integrate nel 2004; – nella Terza Direttiva 2005/60/CE del 26 ottobre 2005 dell’Unione Europea sul riciclaggio.

La Prima Direttiva, adottata nel 1991, aveva posto in risalto il ruolo degli enti creditizi e finanziari quale potenziale strumento, in mano delle organizzazioni criminali, di possibile utilizzo per scopi di riciclaggio: essa imponeva a tali enti importanti obblighi: – identificazione della clientela; – accertamento dell’effettiva identità delle persone per conto delle quali i clienti agiscono; – conservazione dei dati (in modo tale da assicurare alle autorità investigative la “tracciabilità” dei flussi finanziari); – individuazione e segnalazione delle operazioni finanziarie che per loro natura siano sospette di essere connesse con il riciclaggio; – astensione dall’esecuzione delle operazioni finanziarie sospette prima di averne effettuato la segnalazione; – riservatezza sull’avvenuta segnalazione; – instaurazione di procedure interne per istruire il personale dipendente. La normativa italiana ha recepito la Prima Direttiva attraverso la Legge Antiriciclaggio n. 197 del 5 luglio 1991 che, di massima, ne riproduce i contenuti.

La Seconda Direttiva, adottata nel 1997, estende il campo di azione preventiva sia in termini soggettivi sia oggettivi. Infatti, il novero dei soggetti cui essa impone l’osservanza degli obblighi viene esteso, ora, anche alle case da gioco, agli agenti immobiliari, agli uffici di cambio valute, ai revisori, ai contabili esterni, ai consulenti tributari, ai notai ed agli altri liberi professionisti legali. Invero, sotto il profilo oggettivo, essa estende l’ambito del reato presupposto, che viene a comprendere, oltre ai reati connessi al traffico di stupefacenti, anche reati particolarmente gravi, emblematicamente definiti “serious crimes”, nel cui ambito sono stati ricompresi la frode, la corruzione, i reati commessi da associazioni criminali. Il recepimento nazionale è avvenuto assai tardivamente. Infatti, fino al 28 febbraio 2004, data della pubblicazione in Gazzetta ufficiale del D. Lgs. 20 febbraio 2004, n. 56, il legislatore italiano si era limitato ad un recepimento “formale” dei postulati comunitari tramite un allegato alla Legge n. 14 del 3 febbraio 2003 (c.d. Legge Comunitaria 2002), cui il Governo avrebbe dovuto dare attuazione entro il termine fissato dalla legge medesima. Il recepimento è stato completato attraverso: – il Regolamento Antiriciclaggio, dunque il Decreto del Ministero dell’Economia e Finanze n. 141 del 3 febbraio 2006 (entrato in vigore il 22 aprile 2006); – il Provvedimento del 24 febbraio 2006 dell’Ufficio Italiano Cambi e connessi chiarimenti del 18 maggio 2006, contenenti istruzioni applicative, delucidazioni e varie tecniche operative utili per l’assolvimento degli obblighi antiriciclaggio per i professionisti e le società di revisione, – il Decreto del Ministero dell’Economia e Finanze n. 60 del 10 aprile 2007, correttivo del D.M. n. 141 del 3 febbraio 2006, attraverso il quale si può dire completata la produzione normativa che ultima il recepimento della direttiva in esame.

La consapevolezza che l’utilizzo del sistema finanziario e creditizio a scopo di riciclaggio tende ad assumere una connotazione non riduttivamente legata a crimini finalizzati ad una mera ripulitura dei capitali, ma anche quale strumento di finanziamento che dà linfatico apporto al terrorismo internazionale, ha indotto il Parlamento Europeo ed il Consiglio a varare, nel 2005, la Terza Direttiva, sensibile a percepire, giustappunto, il fatto che nonostante i gruppi terroristici siano ispirati a diversa motivazione, condividono tuttavia metodi, risorse materiali e risorse umane : “questo è il motivo per cui le azioni di prevenzione e repressione tendono oggi a trattare unitariamente riciclaggio e terrorismo”, C. Licini, Normativa antiriciclaggio e attività notarile, Milano, 2006, pag. 193.

La delega per il recepimento Terza Direttiva è contenuta nella legge 25 gennaio 2006, n. 29, art. 22. Lo schema di decreto legislativo, pubblicato sul sito del Dipartimento del Tesoro (in www.dt.tesoro.it), è proiettato a racchiudere sistematicamente la complessiva e complessa materia in un unico corpo tanto da far assumere alle disposizioni attualmente in vigore il sapore di disposizioni transitorie.

[5] Il Gruppo di Azione Finanziaria Internazionale, nato nel 1989 (internazionalmente conosciuto con l’acronimo inglese FATFFinancial Action Task Force) con l’incarico iniziale di quantificare le risorse finanziarie coinvolte nel fenomeno riciclaggio, non ha avuto un mandato facile in relazione alla difficoltà di avanzare delle stime su dati economici riferibili ad organizzazioni criminali sommerse.

In argomento, un recente studio del Fondo Monetario Internazionale ha portato alla sbalorditiva conclusione che in alcuni Paesi l’industria del crimine sarebbe in grado, da sola, di smuovere alcune componenti macroeconomiche del bilancio dello Stato (sembrerebbe che il 2 per cento del Pil mondiale sia agitato dal fenomeno).

Tale studio, inoltre, ha segnalato quali sono gli effetti negativi riconducibili al riciclaggio (Quirk, Macroeconomic implications of money laundering, IMF, WP/96/66, 1996): la contaminazione di iniziative legali da parte di disponibilità di provenienza illecita e la possibile perdita di reputazione dei sistemi finanziari e bancari; le difficoltà nella ripartizione del carico fiscale e nella messa a punto delle politiche di spesa pubblica per l’impossibiltà di stimare l’effettivo ammontare e la distribuzione della ricchezza circolante; i rischi per la stabilità delle istituzioni finanziarie; la possibilità di variazioni della domanda di capitali non coerenti con quelle dei fondamentali economici; l’allocazione di capitali nei vari Paesi in relazione alla loro politica criminale piuttosto che ai loro fondamentali economici; la volatilità dei tassi di cambio e di interesse a causa di improvvisi trasferimenti di capitali dall’estero e verso l’estero.

[6] Conferma pratica dell’assunto emerge dal prezioso ausilio fornito dal Corpo della Guardia di Finanza, tradizionalmente impegnato a svolgere investigazioni economico-finanziarie. Così, ad esempio, nell’ambito dell’impiego del Corpo ai fini di collaborazione con l’Autorità Garante della Concorrenza e del Mercato, di cui alla legge 10 ottobre 1990 n. 287 (c.d. “ Legge Antitrust”), alle generiche richieste, ad opera dell’Autorità, di “collaborazione con altri organi dello Stato”, ed al “diritto di corrispondere con tutte le Pubbliche Amministrazioni”, ha fatto seguito il concreto impiego della Guardia di Finanza nello specifico settore (solo) attraverso la legge 6 febbraio 1996 n. 52 dove, all’art. 54, così come modificato dall’art. 29 della legge 21 dicembre 1999, n. 256 (legge comunitaria 1999), si esaltano, ai fini del raggiungimento degli scopi voluti dall’Autorità, le facoltà ed i poteri attribuiti al Corpo in materia tributaria, previsti dai D.P.R. n. 633 del 1972, e n. 600 del 1973. Poteri e facoltà che sono stati ulteriormente riecheggiati nel D.P.R. 30 aprile 1998, n. 217, Regolamento recante norme in materia di procedure istruttorie di competenza dell’Autorità Garante della concorrenza e del Mercato, alla luce del combinato disposto dell’art. 8, quarto comma e 10, settimo comma, in cui, rispettivamente, viene sancito che “ai sensi dell’Art. 54, comma 4, della legge 6 febbraio 1996, n. 52, l’Autorità può avvalersi della Collaborazione della Guardia di Finanza”, e che per tale fine “(…) i militari della Guardia di Finanza, agiscono con i poteri e le facoltà previsti dai decreti del Presidente della Repubblica 26 ottobre 1972, n. 633, e 29 settembre 1973, n. 600 e successive modificazioni e dalle altre norme tributarie”.

 Il Corpo ora si trova, dunque, a collaborare con l’Autorità antitrust potendo, al momento opportuno, utilizzare i poteri e le connesse tecniche di indagini tributarie, di cui dispone da tempo e che per questo risultano sufficientemente familiari ed idonee a far percepire che, a fronte di determinati comportamenti ”anomali” di coloro che operano nel mercato, potrebbero celarsi contesti in odore di illiceità. Ne consegue che tramite il processo inverso, che va dalla percezione dell’indice sintomatico della destabilizzazione delle regole del mercato alla scoperta del reato tributario, che ne è a monte, è dato di ottenere elementi indizianti atti a ricostruire eventuali episodi intermedi di riciclaggio. Questo al di là dell’applicazione della normativa specificatamente di settore, volta fin troppo direttamente a prevenire ed a debellare il fenomeno in quanto, non di raro, priva di una propensione trasversale che riesca a cogliere significativi dettagli delle più disparate manifestazioni.

[7] Più complesso è stato ritenuto l’iter tramite il quale poter risalire alle (eventuali) ragioni, astrattamente criminali, che sono alla base di una riduzione immotivata del capitale, in assenza di un ragionevole riscontro con i dati gestionali della realtà aziendale.

A fronte di una non motivata variazione numeraria passiva delle poste di stato patrimoniale, non è da escludere la possibilità che in questo abbiano significativamente inciso attività usuraie che, destabilizzando la capacità dell’ azienda a fronteggiare i consequenziali elevati interessi passivi e dietro la minaccia di organizzazioni malavitose, abbiano costretto l’imprenditore a cedere parte del patrimonio aziendale

[8] L’abbassamento fittizio dell’utile o l’incremento fittizio della perdita, ottenuti tramite reati tributari, sono finalizzati sia ad evadere le imposte ma anche, e non raramente, a creare delle riserve occulte utilizzabili per fini illeciti che vanno dal pagamento di tangenti, all’appropiazione indebita da parte degli amministratori, al finanziamento di attività illecite.

[9] I reati tributari potenzialmente idonei a costituire il presupposto del riciclaggio, possono andare dall’utilizzazione di fatture per operazioni inesistenti, all’esposizione di perdite inesistenti, alle sottofatturazioni attive ed alle soprafatturazioni da parte di fornitori, attività che (solo) apparentemente possono apparire rispettose della legge. Il particolare tecnicismo che tipizza tali ipotesi delittuose induce gli organi investigativi ad adottare contromisure altrettanto sofisticate in tema di indagini. Sovviene in ausilio il cosiddetto controllo sostanziale di coerenza esterna (in argomento si veda la Circolare n. 1/1988 del Comando Generale della Guardia di Finanza, in I Quattro Codici della Riforma tributaria big, Cd-rom, IPSOA), a mente del quale vengono analizzate sia le scritture poste in essere dal contribuente, sia documenti non ufficiali acquisiti durante le ricerche effettuate in fase di accesso fiscale (sempre che ne sussistano i presupposti legittimanti all’esercizio di tale potere), nonché i “controlli incrociati” che riguardano tanto l’effettività delle operazioni registrate nelle scritture contabili quanto la reale consistenza dei flussi finanziari emergenti dai conti bancari. Tramite i controlli incrociati è possibile rinvenire: – relazioni con società di comodo estere all’uopo create per giustificare flussi di denaro verso l’estero; – legami con personaggi legati alla criminalità, organizzata e non, dediti allo svolgimento dell’attività di ripulitura e di reimpiego di denaro “sporco”; – conti correnti che afferiscono l’attività di impresa su cui possono essere affluiti redditi non dichiarati, nella disponibilità dei soci e/o di dipendenti della società sottoposta a controllo fiscale. Tali controlli sono idonei a creare un flusso informativo tra dati contabili e riscontri esterni, da cui possono emergere non solo illiceità di matrice tributaria, ma anche altre attività dirette alla costituzione di fondi neri o concrete operazioni finalizzate al riciclaggio (In questo senso e per un approfondimento, si veda O. Cocuzza, Segreto bancario, criminalità organizzata, riciclaggio, evasione fiscale in Italia, Padova, 2007, pag. 458 e ss.).

[10] E’ stato ritenuto che tale posizione escluderebbe dal novero dei reati presupposto del riciclaggio anche le ipotesi di cui al Capo II del D. Lgs. 10 marzo 2000, n. 74 in materia di "documenti e pagamento delle imposte" (artt. 8-11) – (U. Di Nuzzo e A. Carano, Gli adempimenti giuridico-contabili per i professionisti nella prevenzione del riciclaggio, in Il Fiscovideo).

[11] Si riporta il contenuto dell’art. 4 del D.L. 10 luglio 1982, n. 429 (G.U. n. 190 del 13 luglio 1982), da cui emerge che lo scopo del legislatore era quello di colpire non l’effettiva evasione fiscale ma comportamenti prodromici di questa o finalizzati ad ostacolare l’agire accertativo dell’Amministrazione finanziaria:

[1. É punito con la reclusione da sei mesi a cinque anni e con la multa da cinque a dieci milioni di lire chiunque, al fine di evadere le imposte sui redditi o l’imposta sul valore aggiunto o di conseguire un indebito rimborso ovvero di consentire l’evasione o indebito rimborso a terzi:

       a) allega alla dichiarazione annuale dei redditi, dell’ imposta sul valore aggiunto o di sostituto di imposta o esibisce agli uffici finanziari o agli ufficiali ed agenti della polizia tributaria o, comunque, rilascia o utilizza documenti contraffatti o alterati;

       b) distrugge od occulta in tutto o in parte le scritture contabili o i documenti di cui è obbligatoria la conservazione in modo da non consentire la ricostruzione del volume di affari o dei redditi;

       c) negli elenchi nominativi allegati alla dichiarazione annuale o nella dichiarazione annuale presentata in qualità di sostituto di imposta indica nomi immaginari o comunque diversi da quelli veri in modo che ne risulti impedita l’identificazione dei soggetti cui si riferiscono;

       d) emette o utilizza fatture o altri documenti per operazioni in tutto o in parte inesistenti o recanti l’indicazione dei corrispettivi o dell’imposta sul valore aggiunto in misura superiore a quella reale; ovvero emette o utilizza fatture o altri documenti recanti l’indicazione di nomi diversi da quelli veri in modo che ne risulti impedita l’identificazione dei soggetti cui si riferiscono;

       e) nei certificati rilasciati ai soggetti ai quali ha corrisposto compensi o altre somme soggetti a ritenute alla fonte a titolo di acconto indica somme, al lordo delle ritenute, diverse da quelle effettivamente corrisposte e chi fa uso di essi;

       f) indica nella dichiarazione dei redditi ovvero nel bilancio o rendiconto ad essa allegato, al di fuori dei casi previsti dall’articolo 1, ricavi, proventi od altri componenti positivi di reddito, ovvero spese od altri componenti negativi di reddito in misura diversa da quella effettiva utilizzando documenti attestanti fatti materiali non corrispondenti al vero ovvero ponendo in essere altri comportamenti fraudolenti idonei ad ostacolare l’accertamento di fatti materiali.

    2. Se i fatti previsti nelle lettere a), c), d), e) ed f) del comma 1 sono di lieve entità si applica la pena della reclusione fino a sei mesi o della multa fino a lire cinque milioni. I fatti non si considerano in ogni caso di lieve entità quando i relativi importi complessivi sono superiori a lire cinquanta milioni.]

(Il titolo I del presente decreto è stato abrogato dall’art. 25, comma 1, lett. d), D. Lgs. 10 marzo 2000, n. 74, recante ”Nuova disciplina dei reati in materia di imposte sui redditi e sul valore aggiunto, a norma dell’articolo 9 della legge 25 giugno 1999, n. 205", in vigore dal 15 aprile 2000).

[12] Concordemente Trib. Milano, ord. 19 febbraio 1999, in I Quattro codici della Riforma Tributaria big, Cd-rom, IPSOA, secondo cui il "reato presupposto può essere costituito soltanto dai delitti che provocano un arricchimento evidente e tangibile nella disponibilità dell’autore (…)"; inoltre "la frode fiscale non costituisce un presupposto valido per la successiva attività di riciclaggio a causa dell’impossibilità concreta di individuare la natura e la consistenza dei proventi illeciti”.

[13] In argomento, per un approfondimento, si veda U. Di Nuzzo e A. Carano, Gli adempimenti giuridico-contabili per i professionisti nella prevenzione del riciclaggio, cit..

Cfr., inoltre, Hinna-Danesi, Proventi da frode fiscale e riciclaggio, in Il Fisco n. 40/1995, pag. 9758 e ss.; Assumma, Riciclaggio di capitali illeciti e reati tributari, in Rassegna Tributaria n. 11/1995, pag. 1779; Nuzzolo, Riciclaggio ed evasione fiscale: connessioni normative e sinergie nell’azione di contrasto, in ”Notiziario della Scuola di Polizia tributaria della Guardia di Finanza”, Studi, pagg. 683 e ss..

In giurisprudenza si veda Cass., Sez. II, 13 dicembre 1988, n. 12251, in Il Fiscovideo.

[14] In questo senso U. Di Nuzzo e A. Carano, Gli adempimenti giuridico-contabili per i professionisti nella prevenzione del riciclaggio, cit..

Tra i fautori di tale corrente dottrinale si veda Di Martino, Commento agli artt. 648-bis e 648-ter del codice penale, in Legislazione penale n. 1/1994; Izzo, La frode fiscale quale possibile delitto-presupposto del riciclaggio, in Il Fisco n. 21/1996, pag. 5291; Ferrajoli, Riciclaggio e delitti fiscali, in Il Fisco n. 8/1994, pag. 1971; Toschi, Le disposizioni relative al riciclaggio, in AA.VV., Mafia e criminalità organizzata, Torino, 1995; D’Ambrosio, Commento agli artt. 648-bis e 648-ter del codice penale, in Codice penale commentato, Torino, 1996; Santacroce, La ratifica della Convenzione di Strasburgo e i delitti fiscali (L. n.328/1993), in Il Fisco n. 1/1994, pag. 48.

[15] Si riporta il contenuto dell’art. 2, comma 1, del D. Lgs. 10 marzo 2000, n. 74 (Gazz. Uff. n. 76 del 31 marzo 2000):

[2.Dichiarazione fraudolenta mediante uso di fatture o altri documenti per operazioni inesistenti:

1. E’ punito con la reclusione da un anno e sei mesi a sei anni chiunque, al fine di evadere le imposte sui redditi o sul valore aggiunto, avvalendosi di fatture o altri documenti per operazioni inesistenti, indica in una delle dichiarazioni annuali relative a dette imposte elementi passivi fittizi.

    2. Il fatto si considera commesso avvalendosi di fatture o altri documenti per operazioni inesistenti quando tali fatture o documenti sono registrati nelle scritture contabili obbligatorie, o sono detenuti a fine di prova nei confronti dell’amministrazione finanziaria.

    3. Se l’ammontare degli elementi passivi fittizi è inferiore aeuro 154.937,07, si applica la reclusione da sei mesi a due anni.].

Tale fattispecie si tipizza per la particolare insidiosità fiscale in quanto la dichiarazione, oltre ad essere infedele, presenta elementi di falsità idonei ad ostacolare l’attività di accertamento dell’Amministrazione finanziaria o, comunque, ad avvalorare la non veritiera prospettazione dei dati in essa indicata. La conferma emerge dalla circostanza che, al pari del delitto di emissione di fatture o altri documenti per operazioni inesistenti, previsto dall’art. 8, si realizza indipendentemente dal superamento di qualsivoglia soglia minima di punibilità; è inoltre soggetto ad un regime sanzionatorio di importante efficacia deterrente (in questo senso, U. Di Nuzzo e A. Carano, Gli adempimenti giuridico-contabili per i professionisti nella prevenzione del riciclaggio, cit.).

 

[16] L’UIC, nei suoi precedenti chiarimenti, ha richiamato il delitto di cui all’art. 2 del D. Lgs 74/2000 (Dichiarazione fraudolenta mediante uso di fatture o altri documenti per operazioni inesistenti) precisando come i delitti di cui agli artt. 3 e 4 assumano rilievo penale solo al di sopra di prefissate soglie di punibilità. Su questo punto si è incentrata, in particolare, la richiesta degli ordini professionali che ha evidenziato come tale valutazione sia possibile soltanto a seguito di un’attività di tipo ispettivo e comunque rimessa alla competenza degli organi investigativi, prima, e dell’Autorità giudiziaria, inquirente e giudicante, poi.

[17] In argomento G. Falcone, Il riciclaggio da evasione fiscale, http://www.giovannifalcone.it/riciclaggio_evasione_fiscale.htm.

[18] In termine “indagare”, che è stato utilizzato, è molto forte ed in effetti non collima con lo spirito della normativa antiriciclaggio che (pare) non imporre al professionista una sua trasformazione, all’abbisogna, in investigatore del proprio cliente.

Egli dovrà utilizzare le informazioni in suo possesso, che non possono essere se non esclusivamente quelle acquisite a seguito dell’esercizio dell’attività professionale, allo scopo, evidentemente, di ottenere una conoscenza del proprio cliente in relazione alle capacità economiche ed attività da questo svolte.

Dal tenore del contesto normativo di riferimento emerge che il professionista, pur non dovendo diventare un investigatore, si è detto, dovrà sviluppare una propensione nuova che va al di là delle sue tradizionali mansioni professionali. Di volta in volta sarà costretto a valutare criticamente e con continuità i rapporti intrattenuti con il cliente, rilevando le eventuali incongruenze in relazione all’attività svolta ed al tenore di vita di quest’ultimo.

[19] Si riporta il contenuto dall’art. 14, comma 4, della legge L. 24 dicembre 1993, n. 537:

[4.Nelle categorie di reddito di cui all’articolo 6, comma 1, del Testo unico delle imposte sui redditi, approvato con decreto del Presidente della Repubblica 22 dicembre 1986, n. 917, devono intendersi ricompresi, se in esse classificabili, i proventi derivanti da fatti, atti o attività qualificabili come illecito civile, penale o amministrativo se non già sottoposti a sequestro o confisca penale. I relativi redditi sono determinati secondo le disposizioni riguardanti ciascuna categoria].

[20] Il generico riferimento che l’art. 648 bis c.p. fa alla provenienza della ricchezza (Chiunque,“Fuori dei casi di concorso nel reato (…) sostituisce o trasferisce denaro, beni o altre utilità provenienti da delitto non colposo),implica che alla dizione"provenienza" possa attribuirsi il significato ermeneutico più ampio: quindi non solo quando il denaro, i beni o le utilità costituiscono il "profitto" del reato, ma anche quando ne costituiscono il "prodotto" o il "prezzo".

 

[21] In argomento si veda A. Santa Maria, Norme comunitarie e disposizioni valutarie italiane, in Giur. Comm., 1984, pagg. 494 e ss.. L’autore, in particolare, approfondisce i rapporti tra diritto valutario interno e diritto comunitario.

[22] Il completamento dell’iter di liberalizzazione è stato attuato attraverso il Trattato di Maastricht, in vigore dal 1993, che attraverso una visione in sintonia con lo spirito del nuovo panorama che si stava delineando, ha disciplinato i movimenti di capitali e quelli dei pagamenti inserendoli nel medesimo contesto, “(…) prima distinti sul piano concettuale e quindi disciplinati in settori diversi. Infatti, fino ad allora, per movimenti di capitali si intendevano le operazioni finanziarie che si traducevano in un investimento o in un’allocazione di risorse senza collegamento alcuno con una prestazione o con uno scambio di beni e servizi; i movimenti di pagamenti comprendevano, invece, solo le controprestazioni di beni e servizi ed erano disciplinati nella parte del Trattato relativa alla bilancia dei pagamenti” (C. Spagnolo, in Il Fiscovideo). In argomento si veda G. Tesauro, Diritto Comunitario, Cedam, 2003, pagg. 552 e ss..

[23] Tali deroghe, incardinate negli artt. 57 e 58 del Trattato CE, riguardano esclusivamente le disposizioni che salvaguardano le prerogative degli Stati dell’Unione nei settori riguardanti il controllo amministrativo o statistico, di ordine pubblico o di pubblica sicurezza, in materia fiscale e tributaria, di vigilanza prudenziale sulle istituzioni finanziarie. Esse concernono, altresì, restrizioni nei rapporti con i Paesi terzi relativi ad investimenti diretti, tra i quali quelli immobiliari, la prestazione di servizi finanziari o l’ammissione di valori immobiliari nei mercati finanziari, lo stabilimento.

[24] Attraverso il D.M. 27 aprile 1990 i residenti possonoeffettuare tra loro atti dispositivi in valute, detenere titoli, valute e valori mobiliari esteri, concedere a non residenti, in Italia e all’estero, linee di credito anche in valuta, esportare mezzi di pagamento, titoli di credito e valori mobiliari, regolare in valute estere le obbligazioni assunte con altri residenti evitando di avvalersi delle banche abilitate, costituire e detenere in Italia ed all’estero depositi e conti in valuta, effettuare operazioni in cambi con contropartite estere.

[25] In dottrina, per un approfondimento, tra i tanti autori si veda Reggi, Il trasferimento all’estero di denaro, titoli ed altri valori mobiliari, il Il Fiscovideo.

[26] La disciplina cambia a seconda che si tratti di trasferimenti al seguito, in ambito extra oppure intra-comunitario. Nella prima ipotesi la dichiarazione deve essere presentata esclusivamente agli uffici doganali di confine (i termini sono rigidamente condizionati dal momento del passaggio del confine, in entrata o in uscita dallo Stato). Nel caso invece di trasferimenti tra Paesi dell’Unione, la dichiarazione può essere depositata, in alternativa, presso una banca, un Ufficio doganale, un Ufficio postale, un Comando della Guardia di Finanza e l’obbligo di deposito va osservato nel rispetto delle 48 ore antecedenti ovvero anche successive all’uscita dal territorio dello Stato.

[27] Si riporta il contenuto dell’art. 25 del D.P.R. 31 marzo, 1988, n. 148 – Approvazione del testo unico delle norme di legge in materia valutaria:

[Art. 25. – Competenze dell’Ufficio italiano dei cambi nell’accertamento delle violazioni valutarie.

1. L’Ufficio italiano dei cambi vigila sull’osservanza delle norme valutarie e, al fine di prevenire e accertare violazioni delle norme stesse, provvede ad effettuare a mezzo i propri funzionari:

a)            Controlli successivi per campione su dati e sulle attestazioni fornite dagli operatori delle banche abilitate;

b)            verifiche dei dati concernenti la gestione valutaria delle banche abilitate e di quelli relativi ad operazioni delle altre imprese autorizzate;

c)            ispezioni presso aziende di credito e istituti di credito speciali, nonché presso altri soggetti, presso i quali si abbia ragione di ritenere che esista documentazione rilevante,in luoghi diversi dalle dimore private. Nei riguardi dei soggetti sottoposti alla vigilanza della Banca d’Italia, l’Ufficio italiano dei cambi può procedere ad ispezioni direttamente o per mezzo del servizio di vigilanza della Banca d’Italia.

2. (…omissis…).

3. L’ufficio italiano dei cambi, nell’esercizio delle funzioni di sua competenza, può richiedere la collaborazionedella Guardia di Finanza.(…omissis…). ].

[28] Ove dovessero emergere aspetti penalmente rilevanti gli appartenenti alla Guardia di Finanza (ufficiali ed agenti di polizia giudiziaria) sono tenuti ad operare nel rispetto delle previsioni dettate dal codice di procedura penale

[29] In questo senso S. Gallo, E’ legittimo l’accertamento tributario conseguente ad attività di polizia tributaria, in Il Fiscovideo.

[30] E’ da notare che lo Schema di decreto legislativo di attuazione della Direttiva 2005/60/CE del Parlamento Europeo e del Consiglio del 26 ottobre 2005, alla lett. b., comma 4., articolo 8, precisa che per effettuare i necessari approfondimenti in relazione alle segnalazioni di operazioni sospette e per i controlli di competenza nei confronti dei soggetti sottoposti agli obblighi antiriciclaggio, ivi compreso quello svolto in collaborazione con l’Unità di informazione finanziaria – UIF – (la Struttura nazionale incaricata di richiedere, ricevere, analizzare e comunicare alle autorità competenti le informazioni che riguardano ipotesi di riciclaggio o di finanziamento al terrorismo), “gli appartenenti al Nucleo Speciale di Polizia valutaria della Guardia di Finanza esercitano anche i poteri loro attribuiti dalla normativa valutaria” e che “Tali poteri sono estesi ai militari appartenenti ai reparti della Guardia di Finanza, ai quali il Nucleo Speciale di Polizia valutaria può demandare l’assolvimento dei compiti di cui al comma 3”.

Ne consegue che lo speciale reparto della Guardia di Finanza potrà estendere i poteri di Polizia valutaria non solo agli ufficiali di Polizia tributaria dei nuclei di Polizia tributaria (procedura attualmente in vigore), ma anche ad ogni militare, dunque anche non ufficiale di Polizia tributaria, appartenente a qualsiasi reparto, quindi non necessariamente ad un nucleo di Polizia tributaria.

[31] La Polizia valutaria rientra nel novero della polizia amministrativa e si prefigge la tutela degli interessi valutari del Paese attraverso controlli finalizzati a verificare che ciascun introito o esborso di qualsiasi mezzo di pagamento dall’estero o verso l’estero venga vagliato e filtrato, nel rispetto della normativa di settore, dagli organi Statali preposti; questi, allo scopo, si articolano in due macro categorie a seconda che operino con funzioni di Polizia amministrativa di carattere preventivo oppure di Polizia giudiziaria con scopi repressivi nei contesti in cui emergano aspetti penalmente rilevanti.

In particolare il Nucleo Speciale di Polizia valutaria, che nello specifico contesto può operare sia in relazione alle funzioni di Polizia amministrativa che di Polizia giudiziaria, è stato istituito, nell’ambito della Guardia di Finanza, attraverso l’art. 5 del D.L. 4 marzo 1976, n. 31 convertito nella L. 30 aprile 1976, 159 con il precipuo compito di prevenire, accertare e reprimere le violazioni delle norme valutarie.

Inoltre l’art. 6-bis del D.L. n. 31/1976, aggiunto dall’art.1 della L. n. 159/1976, stabilisce che "i poteri concessi alla Guardia di Finanza in materia finanziaria dalla legge 7 gennaio 1929, n. 4 e dalle leggi tributarie possono essere esercitati anche ai fini della vigilanza per la difesa valutaria". Il dato normativo testè citato, dunque, conferma pacificamente la possibilità di accesso negli esercizi pubblici e nei locali destinati ad aziende industriali o all’esercizio di attività commerciali, agricole, artistiche o professionali per procedere ad ispezioni documentali, verifiche e ricerche, in relazione alla previsione di cui agli artt. 35 della L. n. 4/1929, 52 del D.P.R. 26 ottobre 1972, n. 633, 32 e 33 del D.P.R. 29 settembre 1973, n. 600, per fini legati alla tutela degli interessi valutari dello Stato (in questo senso, S. Gallo, E’ legittimo l’accertamento tributario conseguente ad attività di polizia tributaria, cit.).

[32] E’ appena il caso di precisare che la Guardia di Finanza non ha mansioni accertative in ambito tributario; essa svolge attività investigativa di Polizia tributaria che si conclude con la redazione di un atto, rectius, un processo verbale di constatazione. A mente dell’ art. 33, comma 3, del D.P.R. n. 600/1973 gli appartenenti al Corpo della Guardia di Finanza cooperano con gli Uffici delle imposte per l’acquisizione ed il reperimento degli elementi utili ai fini dell’accertamento dei redditi e per la repressione delle violazioni delle leggi sulle imposte dirette, procedendo di propria iniziativa (o su richiesta degli Uffici finanziari) secondo le norme e con le facoltà previste dallo stesso D.P.R. n. 600/1973. Inoltre, previa autorizzazione dell’Autorità giudiziaria (che può essere concessa anche in deroga all’art. 329 del codice di procedura penale), possono utilizzare e trasmettere agli Uffici finanziari documenti, dati e notizie acquisiti direttamente o per il tramite di altre forze di polizia, nell’esercizio dei poteri di Polizia giudiziaria.

Mentre il potere di accertamento è un potere di esclusiva competenza degli Uffici finanziari, l’attività investigativa di Polizia tributaria è di natura prodromica e strumentale rispetto a quella degli Uffici, gli unici deputati alla funzione accertatrice (in dottrina cfr. Pezzotti, Il ruolo della Guardia di finanza nel perseguimento dell’equità fiscale, in Rivista della Guardia di Finanza, 1988, pag. 533; Petrarolo, Guarentigie del cittadino nell’azione investigativa della Guardia di finanza, in Tributi, 1988, pag. 28; Stevanato, Il ruolo del processo verbale di constatazione nel procedimento accertativo dei tributi, in Rass. trib., 1990, pag. 459).

Tuttavia tra poteri accertativi degli Uffici e poteri investigativi della Guardia di Finanza non c’è una distinzione così netta come la lettura della normativa lascerebbe pensare in quanto non sono rari fenomeni di “interferenza” tra l’attività istruttoria posta in essere dall’organo ispettivo e la susseguente attività accertativa di competenza dall’Amministrazione finanziaria; difatti, il processo verbale di constatazione è quell’atto mediante il quale vengono descritte e documentate le violazioni rilevate presso il contribuente al termine di una verifica fiscale e non è da escludere che lo stesso atto contenga anche sufficienti elementi per la determinazione dell’imponibile e dell’imposta evasa, consentendo così che parte della dottrina potesse parlare come di un vero e proprio atto, strumentale, di accertamento (Moschetti, I processi verbali tributari: atti di certezza pubblica o dichiarazioni di giudizio?, in Rass. trib., 1979, pag. 65 ). In dottrina, in ordine alle motivazioni per cui il concetto di strumentalità non è sinonimo di mancanza di autonomia del processo verbale di constatazione, si veda Santamaria, Attività ispettiva e tutela del contribuente, in Dir. prat. trib., 1980, pag. 459; Pepe, Profili costituzionali delle ispezioni tributarie e garanzie del contribuente, in Il Fisco, 1990, pag. 828. In giurisprudenza cfr. Comm. trib. centr., Sez. VI, 11 ottobre 1989, n. 5986, in I Quattro Codici della Riforma Tributaria, Cd-rom, IPSOA; Comm. trib. centr., Sez. VIII, 14 giugno 1989, n. 4309, in Corr. Trib. n. 34/1990, pag. 2374; Comm. trib. II grado di Avellino, 19 marzo 1987 n. 3, in Corr. Trib. n. 23/1987, pag.1579.

Non è raro, tuttavia, che l’Ufficio motivi l’avviso di accertamento tramite una (cosiddetta) motivazione per relationem, attraverso dunque un rinvio al processo verbale di constatazione redatto dalla Guardia di Finanza. In argomento si veda G. Vanz, Motivazione dell’avviso di accertamento per relationem a verbale di constatazione della polizia tributaria. Necessità di preventivo “vaglio critico” da parte dell’ufficio impositore, in Rass. Trib., 1999, pagg. 1783 ss.; Manzoni, Potere di accertamento ed obbligo del contribuente, Milano, 1993, pag. 148; Chinetti, Motivazione per relationem dell’avviso di accertamento: orientamenti giurisprudenziali, in Dir. Prat. Trib., 2000, I, pag. 936, il quale sottolinea come non si può legittimare la motivazione di un atto di accertamento tributario motivato per relationem ai verbali della Guardia di Finanza o di qualsiasi altro organo verificatore, dato che i motivi dell’atto di accertamento non possono mai trovarsi, per definizione, in un verbale di verifica. Questo in quanto il verbale di constatazione ottempera ad una diversa funzione prevista dall’art. 24 della legge 7 gennaio 1929, n. 4, a mente del quale “le violazioni delle norme contenute nelle leggi finanziarie sono constatate mediante processo verbale”. I verbali di constatazione, continua l’Autore, non possono pertanto contenere motivi di accertamento in quanto l’organo che ha constatato la violazione fiscale non ha poteri di accertamento. Per tale ragione la motivazione per relationem ai verbali dei verificatori non può che considerarsi in contrasto con l’art. 3 della legge n. 241/1990.

Per ulteriori approfondimenti si veda Schiavolin, voce Poteri istruttori dell’amministrazione finanziaria, in Dig. Disc. Priv. Sez. comm., XI, 1995, pag. 201; Liccardo, Attività investigativa e funzione accertativa, in Dir. Prat. Trib., 1990, II, pag. 641; Moschetti, Avviso di accertamento tributario e garanzie del cittadino, a cura di F. Moschetti, Padova, 1984; Stevanato, Il ruolo del processo verbale di constatazione nel procedimanto accertativo dei tributi, in Rass. Trib., 1990, I, pag.472 e, dello stesso Autore, Vizi dell’istruttoria ed illegittimità dell’avviso di accertamento, in Rass. Trib., 1990, II, pag. 87.

In giurisprudenza cfr. Cass., Sez. trib., 22 febbraio 2002, n. 2527; Cass., sez. trib., 25 maggio 2001, n. 7149; Cass., Sez. trib., 26 febbraio 2001, n. 2780; Comm. Trib. I grado di Cassino, sez. III, 20 gennaio 1993, n. 632, tutte in I Quattro Codici della Riforma Tributaria, Cd-rom, IPSOA.

Quanto alla valenza probatoria del processo verbale (pertanto anche del processo verbale di constatazione redatto da organi di investigazione tributaria), l’art. 221 c.p.c. precisa che “il processo verbale fa fede fino a querela di falso”, per cui esso non può essere contraddetto da nessuna prova senza l’impugnazione di falso documentale; a ben vedere, tuttavia, questa sua efficacia probatoria, a mente dell’art. 2700 c.c., riguarda solamente le dichiarazioni rese e gli atti avvenuti in presenza del pubblico ufficiale, la sua provenienza dal pubblico ufficiale, nonchè le operazioni che quest’ultimo ha compiuto, esulando, tuttavia, da ogni conclusione cui il pubblico ufficiale addiviene a seguito di valutazioni logico-giuridiche, o da qualsiasi sua enunciazione che comporti un apprezzamento di merito (in giurisprudenza si veda Cass., 17 dicembre 1999, n.10855 e Comm. Trib. di Pescara, sez. IV, 22 gennaio 1998, n. 783, entrambe in I Quattro Codici della Riforma Tributaria, Cd-rom, IPSOA; in dottrina cfr., tra gli altri, G. Gallo – S. Gallo, Le visite fiscali. Poteri e limiti, Padova, 1998, pag. 115; B. Aiudi, Brevi osservazioni sul processo verbale, in Boll. Trib., n. 7/87, pag. 563; A. Marcelli, in Commento alla sentenza n. 88031000 della Commissione di primo grado di Roma, 24 gennaio – 7 dicembre 1989).

[33] Tali dati possono essere acquisiti dalla Guardia di Finanza o per il tramite dell’U.I.C. oppure direttamente attraverso la ricezione della dichiarazione da parte del soggetto interessato all’atto del passaggio dal valico doganale.

[34] Dato reso pubblico dal GAFI e riportato da M. Miscali, L’impatto della nuova disciplina antiriciclaggio sulla strategia di lotta all’evasione fiscale, in Il Fiscovideo.

[35] Si veda Cass., 29 novembre 2001, n. 15209, in I Quattro codici della Riforma Tributaria big, Cd-rom, IPSOA in cui, a seguito di un accesso della Guardia di Finanza presso locali aziendali del contribuente sulla base di un’autorizzazione verbale in luogo del prescritto ordine scritto, viene ribadito che la lettura dell’art. 52, primo comma, del D.P.R. n. 633/1972 non consente alcun dubbio in ordine alla necessità di un intervento preventivo dell’Autorità che deve disporre l’accesso unitamente alla forma scritta poiché devono ritenersi "eccezionali le ipotesi in cui l’Amministrazione agisce, con rilevanza verso terzi, con atti meramente verbali". Nella fattispecie, il giudice di legittimità ha rilevato che non vi è alcuna ragione pratica che consenta il ricorso a disposizioni verbali, mentre la forma scritta è imposta proprio "dall’esigenza per il contribuente che ha diritto di assistere all’accesso di verificare che esso di svolga nell’ambito della legge” ed ha ritenuto che dalla violazione delle norme procedimentali ne consegue l’inutilizzabilità degli atti compiuti. Sul punto si vedano, inoltre, Cass., 3 dicembre 2001, n. 15230, in I Quattro codici della Riforma Tributaria big, Cd-rom, IPSOA e Id., SS.UU., 21 novembre 2002, n. 16424, ivi., in cui, tra l’altro, si afferma che il provvedimento del Procuratore della Repubblica autorizzativo della perquisizione del domicilio del contribuente – previsto dall’art. 52, secondo comma, del D.P.R. n. 633/1972 in tema di IVA, cui rinvia all’art. 33, primo comma, del D.P.R. n. 600/1973, in tema di imposte dirette – è un atto che, inserendosi in un tipico procedimento amministrativo, attraverso cui l’Amministrazione finanziaria esercita il potere impositivo notificando poi l’avviso di accertamento, partecipa direttamente della natura amministrativa del procedimento, condizionandone la legittimità. In particolare il giudice tributario può sindacare la legittimità dell’atto di autorizzazione in base ai principi generali che regolano l’attività amministrativa dello Stato. Il provvedimento autorizzatorio deve, quindi, essere congruamente motivato, anche se in modo conciso ed attraverso il richiamo alla relativa richiesta di adozione, facendo riferimento agli indizi di violazione della norma tributaria che giustificano tale richiesta. Da tale affermazione deriva il principio secondo cui “l’assenza, l’abnormità, l’insufficienza e l’incongruenza della motivazione addotta per supportarlo escludono la legittimità dell’atto in argomento e comportano il potere-dovere del giudice tributario di dichiarare l’invalidità dell’atto e dell’intero procedimento di accertamento basato su prove acquisite a seguito della relativa esecuzione”. Inoltre, in ordine all’autorizzazione alla perquisizione del domicilio del contribuente rilasciata dal Procuratore della Repubblica alla Guardia di Finanza a seguito di informativa basata su fonti confidenziali anonime denuncianti l’esistenza di violazioni di norme tributarie, è stato altresì ritenuto che “non può ritenersi suscettibile di integrare effettiva, sufficiente e congrua motivazione dell’autorizzazione il richiamo, diretto o indiretto, all’esistenza di una o più fonti confidenziali anonime denuncianti l’esistenza di violazione delle norme tributarie”. Di conseguenza, il successivo avviso di accertamento, motivato con riferimento a dati acquisiti dall’Amministrazione finanziaria a seguito di accessi nell’abitazione dei contribuenti illegittimamente autorizzati dal Procuratore della Repubblica, è stato considerato invalido e insuscettibile di produrre effetti, “non potendo attività compiute in dispregio del fondamentale diritto all’inviolabilità del domicilio essere assunte a giustificazione e a fondamento di atti impositivi a carico dei soggetti che hanno dovuto subire tali attività”.

[36] Cfr. Corso, Esiste ancora il principio di legalità? in Corr. Trib. n. 17/2001, pag. 2227, nonché S. Stufano, Sull’utilizzabilità delle prove illecite o illegittime, ivi n. 39/2002, pag. 3534.

[37] In argomento si veda Cass., 19 giugno 2001, n. 8344, in Il Fiscovideo, nella quale il giudice di legittimità aveva ritenuto che l’acquisizione irrituale di elementi rilevanti ai fini dell’accertamento fiscale non comporta la loro inutilizzabilità in mancanza di una norma specifica che preveda questa sanzione per il comportamento anomalo dell’Amministrazione Finanziaria. In tale occasione, infatti, la Corte aveva reputato che l’inutilizzabilità delle prove illegittimamente acquisite, riguardando solo il sistema procedurale penale, così come modificato dalla riforma del 1989, non si estende all’ordinamento tributario e che l’autonomia dei due procedimenti consente l’esistenza di una situazione per cui una nullità afferente un atto del procedimento penale non ha rilievo nel procedimento tributario. Peraltro, il fatto che talune violazioni non comportino la sanzione specifica della inutilizzabilità degli elementi irritualmente acquisiti non significa che la violazione sia priva di conseguenze perché in tali casi le conseguenze sanzionatorie possono ricadere direttamente sull’autore dell’illecito sul piano disciplinare ed eventualmente sul piano della responsabilità civile e penale.

Si confronti, inoltre, Cass., 16 marzo 2001, n. 3852, in Il Fiscovideo, nel punto in cui viene sostenuto che la mancata autorizzazione dell’Autorità Giudiziaria prescritta per la trasmissione di atti, documenti e notizie acquisiti nell’ambito di un’indagine o di un processo penale agli uffici fiscali non produce conseguenze sulla legittimità del relativo accertamento. Secondo tale orientamento, l’art. 63 del D.P.R. n. 633/1972 ai fini dell’imposta sul valore aggiunto e l’art. 33 del D.P.R. n. 600 del 1973 ai fini delle imposte dirette, sono posti a tutela della riservatezza delle indagini penali e non a vantaggio dei soggetti coinvolti nel processo tributario. La mancata autorizzazione non determina l’inutilizzabilità degli elementi probatori sui quali è fondato l’accertamento tributario e, di conseguenza, non risultano invalidi gli atti di recupero dell’imponibile da parte dell’amministrazione finanziaria o la decisione del giudice tributario che conferma l’operato del Fisco

[38] Concordemente e per un approfondimento, M. Miscali, L’impatto della nuova disciplina antiriciclaggio sulla strategia di lotta all’evasione fiscale, in Il Fiscovideo.

[39] Tale valutazione rientra nell’alveo delle discrezionalità delle scelte che il Fisco effettua nella fase istruttoria. Discrezionalità che gli è preclusa nella fase accertativa, ancorata ai principi della “riserva di legge” in materia tributaria” ed a quello del “concorso alle spese pubbliche in ragione della capacità contributiva”, previsti, rispettivamente, dagli artt. 23 e 53 della Costituzione. Qui l’attività del Fisco, manifestandosi attraverso atti del tutto vincolati, poiché a contenuto impositivo, incidendo direttamente su interessi patrimoniali del destinatario, prescinde da ogni scelta discrezionale (in argomento si veda S. Stufano, La tutela del contribuente nelle indagini tributarie, Milano, 2006, pag. 9. Cfr., inoltre, Gallo, Discrezionalità nell’accertamento tributario e sindacabilità delle scelte dell’ufficio, in Riv. Dir. Fin., n. 4/1992, I, pag. 655; La Rosa, Accertamento tributario, in Boll. Trib., n. 20/1986, pag. 1544).

Si ritiene che uno dei momenti di massima discrezionalità dell’azione del Fisco si cristallizzi nel frangente in cui, in fase di indagini, venga presa la decisione di abbandonare l’attività in quanto ritenuta non più proficua; appare qui evidente il vincolo al principio di “efficienza”: il raggiungimento di un risultato non risponde a parametri di efficienza se gli sforzi economici, che ne sono all’origine, risultano spropositati. Ciò potrebbe essere sintetizzato nell’assunto secondo cui “se l’indagine fiscale è, per così dire, ritenuta improduttiva ai fini dell’eventuale emissione di un avviso di accertamento, non val la pena che si vada avanti”. Il tutto trova conferma, ad esempio, nel documento del 13 aprile 1994, predisposto dalla Commissione ministeriale per l’elaborazione degli studi di settore, istituita con D.M. n. 16592 del 21 ottobre 1993, in cui viene auspicato l’intervento di norme che legittimino il verificatore fiscale ad abbandonare il controllo qualora dovesse emergere una sua improduttività. La posizione è stata successivamente ribadita dal D.M. 26 aprile 1995, in relazione all’attività di controllo da parte degli uffici finanziari e della Guardia di Finanza per l’anno 1995. Coerentemente la Circolare ministeriale n. 283/E del 27 ottobre 1995 palesa la chiusura del controllo fiscale se, dall’esito delle indagini, non emergono elementi a supporto dell’inattendibilità del conto economico e previa idonea motivazione nel processo verbale da parte dei verificatori (in argomento si veda S. Stufano, La tutela del contribuente nelle indagini tributarie, cit., pag. 8).

[40] In argomento vale conto evidenziare che, a mente del comma 1, art. 63, D.P.R. 26 ottobre 1972, n. 633 (articolo 63 che disciplina la collaborazione della Guardia di Finanza con gli Uffici dell’Imposta sul valore aggiunto), la Guardia di Finanza “(…omissis…) previa autorizzazione dell’autorità giudiziaria, che può essere concessa anche in deroga all’art. 329 del codice di procedura penale, utilizza e trasmette agli uffici documenti, dati e notizie acquisiti, direttamente o riferiti ed ottenuti dalle altre Forze di polizia, nell’esercizio dei poteri di polizia giudiziaria”.

Analoga disposizione vige in materia di accertamento delle imposte sui redditi.

[41] B. Bartoloni – L. Galluccio – A. Mancazzo – G. Putzu, Obblighi antiriciclaggio per i professionisti, Milano, 2006, pagg. 81 e 82.

[42] Va detto, tuttavia, che in relazione alla cooperazione amministrativa internazionale in ambito tributario, in nessuna delle disposizioni comunitarie ed internazionali di riferimento si tratta del segreto bancario.

Inoltre, va precisato che la collaborazione trasfrontaliera si basa su strumenti normativi specifici, di necessaria e puntuale osservanza onde evitare il rischio di una inutilizzabilità di materiale probatorio acquisito.

Affiora dunque, soprattutto in tema di accertamenti bancari, la necessità che vengano rispettati importanti postulati generalmente riconosciuti e di matrice internazionale. Tra questi, quello di “equivalenza”, secondo cui l’acquisizione delle informazioni deve essere consentita in entrambi gli Stati allo scopo di evitare che in ambito internazionale si possano aggirare ostacoli che emergerebbero in caso di accertamenti bancari “domestici”. Ciò implica che i problemi di equivalenza si pongono sia con riferimento all’esistenza, o meno, in entrambi gli Stati, di un disposizione di legge che consenta l’accesso amministrativo alle informazioni bancarie ad opera del Fisco, sia in relazione alle modalità ed ai termini specifici con cui tale accesso può avvenire (in questo senso e per un esaustivo approfondimento della tematica, si veda A. Nuzzolo, L’opponibilità del segreto bancario nell’accertamento transnazionale dei redditi, il Il Fiscovideo).

Si prenda, a titolo puramente esemplificativo, l’ipotesi in cui vengano condotte indagini fiscali nei riguardi di un contribuente, con sede nel “Paese A”, che intrattenga rapporti commerciali anche con società del “Paese B”. Valga il caso in cui il contribuente abbia legami d’affari con istituti di credito sia del “Paese A” che del “Paese B”. L’applicazione del “principio di equivalenza” implica che il Fisco del “Paese A”, vedendosi preclusa dalla normativa nazionale la legittimazione ad effettuare un accertamento bancario (rectius finanziario, alla luce delle novelle legislative in tema di “indagini finanziarie”) in assenza, ad esempio, di sufficienti elementi che supportino le ragioni di diritto ed i presupposti di fatto del provvedimento amministrativo di autorizzazione, non può aggirare l’ostacolo di casa propria rivolgendosi al Fisco del “Paese B” dove, per astratto (ma spesso in concreto, in relazione alla disomogeneità degli ordinamenti giuridici) i presupposti a supporto di un atto istruttorio di indagine bancaria potrebbero essere meno severi rispetto a quelli pretesi dalla legge in house, dunque del “Paese A”.

[43] In questo senso, M. Miscali, L’impatto della nuova disciplina antiriciclaggio sulla strategia di lotta all’evasione fiscale, cit..

[44] In argomento si ritiene utile precisare che in relazione all’approfondimento delle segnalazioni per operazioni sospette, il D. Lgs. n. 153/97 prevedeva che l’U.I.C. utilizzasse l’Anagrafe dei conti per assolvere alle incombenze di istituto.

L’origine di tale banca dati risale all’art. 20, secondo comma, lettera b), della legge 30 dicembre 1991, n. 413. Tramite il Decreto ministeriale 4 agosto 2000, n. 269, essa risulta istituita con la costituzione di un centro operativo presso il Ministero del tesoro, del bilancio e della programmazione economica, titolare del trattamento dei dati, cui i soggetti abilitati possono richiedere, con riferimento a persone fisiche o giuridiche specificamente individuate, l’eventuale esistenza di rapporti di conto o di deposito alle medesime intestati o cointestati o relativamente ai quali esse agiscono, in nome e per conto, o ne possono disporre nell’ambito dell’Archivio unico informatico, tenuto dagli intermediari creditizi o finanziari e dalle Poste italiane S.P.A.., a sensi del D.L. 3 maggio 1991, n. 143. Ulteriori disposizioni sono state introdotte con la L. 4 agosto 2006, n. 148.

[45] Per la specifica individuazione dei soggetti legittimati ad utilizzare le informazioni dell’Anagrafe, si rinvia all’art. 4 del D.M. 4 agosto 2000, n. 269.

[46] In argomento L. Magistro, L’anagrafe dei rapporti con gli intermediari finanziari, in Corriere Tributario n. 37/2006, pagg. 2967 e ss..

[47] Circolare n. 32/E del 19/10/2006 del Ministero dell’Economia e delle Finanze, pag. 91.

[48] Al riguardo lo Schema di decreto legislativo di attuazione della Direttiva 2005/60/CE del parlamento Europeo e del Consiglio del 26 ottobre 2005, al punto f., comma 1., art. 6., stabilisce che l’Unità di informazione finanziaria (UIF), per i propri fini, “si avvale dei dati contenuti nell’anagrafe dei conti e dei depositi di cui all’art. 20, comma 4, della legge 30 dicembre 1991, n. 413 e nell’anagrafe tributaria di cui all’art. 37 del decreto legge 4 luglio 2006, n. 223”.

[49] In merito alla tracciabilità delle spese e dei compensi professionali, l’art. 35, comma 12, del D.L. 4 luglio 2006, n. 223 ha apportato delle modifiche all’art. 19 del D.P.R. 29 settembre 1973, n. 600, prevedendo per gli esercenti arti e professioni (sia persone fisiche che società o associazioni fra artisti e professionisti) l’obbligo di tenuta di uno o più conti correnti bancari o postali da utilizzare per l’attività svolta.

Attraverso le novità introdotte dalla manovra d’estate con il D.L. 223/2006, convertito, con modificazioni, dalla legge 4 agosto 2006, n. 248 (nuovo comma 4 dell’art. 19 D.P.R. 600/1973), è stato, tra l’altro, previsto l’obbligo della riscossione dei compensi mediante strumenti finanziari tracciabili e non (più) in contanti, ad eccezione, tuttavia, delle somme unitarie di importo inferiore a 100 euro, soglia che, il comma 12 bis dell’art. 35, inserito in sede di conversione del provvedimento, ha previsto si applichi unicamente a decorrere dal 1° luglio 2008 mentre, dal 12 agosto 2006 (entrata in vigore della legge di conversione – legge 248/2006, appunto, di conversione del D.L 223/2006 – ) e fino al 30 giugno 2007, il margine al di sotto del quale le menzionate operazioni possono essere effettuate in contanti, è stato fissato in mille euro. Limite determinato in 500 euro per il periodo che va dal 1° luglio 2007 al 30 giugno 2008.

Ma non è finita!

Il comma 69 della Legge Finanziaria 2007 (L. 296/2006) modifica la tempistica introdotta dall’art. 35 del D.L. 223/2006, comma 12 bis, prevedendo che il limite di 100 euro, di cui al comma 4 dell’art. 19 del D.P.R. 600/1973, si applica a decorrere dal 1° luglio 2009, anzicchè dal 1° luglio 2008.

Nel contempo rimodula le date inerenti il periodo transitorio, stabilendo che:

– il limite di 1000 euro decorre dalla data di entrata in vigore della legge di conversione del D.L 223/2006 (dunque dal 12 agosto 2006) fino al 30 giugno 2008 (invece che fino al 30 giugno 2007);

– il limite di 500 euro decorre dal 1° luglio 2008 al 30 giugno 2009 (e non più fino al 30 giugno 2008).

Viene inoltre previsto che, con apposito decreto del Ministro dell’economia e delle finanze, verranno individuate le condizioni impeditive per le quali, per alcuni soggetti, quali gli anziani, sarà consentito derogare alle anzidette soglie, consentendo loro il pagamento in contanti anche per importi superiori ai limiti fissati.

Non è da escludersi, a questo punto, l’evenienza di ulteriori ripensamenti legislativi soprattutto in prossimità del 1° luglio 2009, data dalla quale, come precisato, scatterà l’obbligo dell’osservanza del limite più stringente, ossia quello dei 100 euro

[50] Dati rilevati da O. Cocuzza, Segreto bancario, criminalità organizzata, riciclaggio, evasione fiscale in Italia, cit., pagg. 490, 491.

[51] Direttiva del Parlamento Europeo e del Consiglio del 4 dicembre 2001, n. 2001/97/CE.

[52] Il futuro recepimento da parte dell’Italia della Direttiva del Parlamento europeo e del Consiglio del 26 ottobre 2005, n. 2005/60/CE (terza Direttiva), che presenta importanti novità, porterà ad un unico testo di legge che accorperà l’attuale frammentata normativa di settore.

Dallo schema del decreto legislativo, redatto dal Dipartimento del Tesoro (da emanarsi ai sensi dell’art. 22 della legge 25 gennaio 2006, n. 29) si evince che gli attuali testi di legge rappresentano la base di partenza per il recepimento dei principi cristallizzati nella Terza Direttiva. Tra l’altro un recente disegno di legge (s. 1366) si occupa della nuova Unità di informazione finanziaria (U.I.F.), prevista proprio dalla bozza di decreto legislativo.

[53] Tra l’altro il D.M. 10 aprile 2007, n. 60 estende anche alle società di revisione iscritte nell’albo speciale l’applicazione degli indici di anomalia riguardanti le segnalazioni di operazioni sospette; inoltre esclude dagli obblighi di identificazione e registrazione coloro che svolgono attività di redazione e di trasmissione delle dichiarazioni derivanti da obblighi fiscali.

[54] Da Il Sole 24 ORE del 14 maggio 2007, pag. 34, con commento di S. Fossati.

[55] Critiche motivate da: – problematiche organizzative a livello bancario; – un incremento eccessivo dei costi degli intermediari finanziari in assenza, di fatto, di un’utilità sociale, quale l’efficace prevenzione e repressione del riciclaggio; – esposizione di impiegati e funzionari bancari a rischi personali a seguito di minacce o atti ostili (in argomento, O. Cocuzza, Segreto bancario, criminalità organizzata, riciclaggio, evasione fiscale in Italia, cit., pagg. 486, 487).

[56] L. De Angelis, Professionisti costretti alla delazione, in ItaliaOggi, giovedì 16 febbraio 2006, pag. 42.

[57] Da Financial Times dell’8 agosto 2005, in O. Cocuzza, Segreto bancario, criminalità organizzata, riciclaggio, evasione fiscale in Italia, cit., pag. 134.

[58] Fonte: Council of the Bars and Law Societies of the European Union (C.C.B.E.), in C. Cocuzza – M. Gioffrè, Antiriciclaggio e professione forense: I nuovi compiti e le responsabilità dell’avvocato, Milano, 2006, pag. 117 e ss..

[59] Con queste parole ed in questo senso (con esclusivo riferimento, però, alla classe forense) si veda, anche per un esaustivo approfondimento della tematica, C. Cocuzza – M. Gioffrè, Antiriciclaggio e professione forense: I nuovi compiti e le responsabilità dell’avvocato, cit., pag. 132.

[60] Si veda il D.M. 10 aprile 2007, n. 60.

[61] G. Stella, Antiriciclaggio, attacco agli ordini, articolo apparso su ItaliaOggi del 29 maggio 2007, pag. 48.

[62] In effetti “la lotta al riciclaggio e al terrorismo, obiettivo ampiamente condivisibile, deve essere attuata utilizzando tutti i più moderni strumenti in grado di intercettare e reprimere il processo attraverso il quale gli autori di attività criminali e terroristiche mascherano l’origine illecita dei beni investiti e dei proventi che ne derivano, ma di tali strumenti devono essere dotate soprattutto le forze da sempre impegnate all’interno dello Stato, nello svolgimento di tali specifiche e specialistiche attività”, G. Stella, Antiriciclaggio, attacco agli ordini, articolo apparso su ItaliaOggi, cit..

Toma Donato

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