Revoca del presidente del Consiglio comunale commento a Consiglio di Stato, sez. V, Sentenza 6 giugno 2002, n. 3187

Redazione 29/07/03
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di Paolo Flesca
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Nonostante i numerosi interventi legislativi volti a disciplinare l’ordinamento degli enti locali che si sono succeduti negli ultimi anni[1], residuano, ancora, problemi aperti che, nel silenzio del legislatore, sono destinati ad essere risolti dalla giurisprudenza sotto la spinta, da un lato, della pratica e, dall’altro, della dottrina amministrativista che si occupa di tali questioni[2].
La possibilità per il Consiglio comunale di revocare il proprio Presidente e gli eventuali limiti di tale potere, oggetto della decisione in rassegna, costituiscono una di tali questioni aperte e, pertanto, offrono lo spunto per qualche breve riflessione.
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Il sistema delle autonomie locali designato dal legislatore si configura, sin dalla l. n. 81 del 1993[3], come un “sistema di poteri divisi” in cui il sindaco (insieme alla giunta) riveste il ruolo di organo di governo, con competenza generale residuale, mentre il Consiglio comunale quello di organo di indirizzo e di controllo, con competenze specifiche[4].
La figura del Presidente del Consiglio comunale nasce proprio per evitare che il Sindaco, oggetto del controllo, fosse il soggetto preposto a regolare il funzionamento del Consiglio, organo controllore[5].
Tale figura viene introdotta nel nostro ordinamento, limitatamente ai comuni con più di 15.000 abitanti, con la l. n. 81 del 1993, quale “organo” eventuale, essendo rimessa ai singoli statuti la scelta se istituirlo o affidare i compiti previsti dall’art. 14 della stessa legge al c.d. consigliere anziano. Con la l. 265 del 1999 l’istituzione del Presidente del Consiglio diventa obbligatoria per i comuni con più di 15.000 abitanti e facoltativa per i comuni più piccoli[6].
L’”effervescenza politica” italiana[7], che a livello locale raggiunge picchi parossistici, ha fatto emergere molto presto il problema della revocabilità del Presidente del Consiglio.
Presidenti divenuti non più omogenei alla maggioranza consiliare potevano creare intralci all’azione di governo del sindaco e della sua giunta e, pertanto, in molti statuti comunali, sono stati introdotti istituti quali la revoca e la mozione di sfiducia per consentire la sostituzione dei Presidenti non più graditi alla maggioranza dell’assemblea che li aveva eletti.
Come dimostrato dalla pratica, peraltro, la possibilità di sostituire il Presidente del Consiglio può non rispondere esclusivamente agli interessi di una parte politica ma rendersi necessaria a seguito di comportamenti del Presidente stesso non conformi alla funzione esercitata che rendano effettivamente impossibile, o comunque difficile, il governo locale e il suo controllo.
La dottrina, pertanto, si è interrogata sulla legittimità e i limiti di tali istituti che, come rivelato, si sono diffusi in molti statuti comunali generando la reazione dei Co.Re.Co. che si sono dimostrati sempre refrattari a riconoscerne la legittimità.
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Per provare a chiarire i contorni della vicenda in oggetto occorre, preliminarmente, indicare la funzione e i compiti del Presidente del Consiglio perché, come vedremo, “la disciplina della cessazione della carica presidenziale non è (…) estranea all’esercizio della funzione”[8].
L’art. 39 del d. leg. 267 del 2000 (Testo Unico Enti Locali) stabilisce che al Presidente del consiglio sono attribuiti (tra gli altri) “i poteri di convocazione e direzione dei lavori e delle attività del consiglio” e il compito di assicurare “adeguata e preventiva informazione ai gruppi consiliari ed ai singoli consiglieri sulle questioni sottoposte al consiglio”.
Il Presidente ha il compito di garantire il corretto svolgimento dei lavori del Consiglio ponendosi in una posizione di primus inter pares[9] fra i consiglieri comunali (dalle cui fila viene eletto) al fine di dirigere e coordinare il lavoro degli altri componenti del collegio. Il suo, pertanto, è un ruolo “istituzionale” dovendosi svolgere in completa autonomia, non solo dai partiti politici e dai gruppi consiliari ma anche e soprattutto, dal sindaco e dalla giunta.
Il Consiglio comunale, infatti, ha la funzione di indirizzo e di controllo (art. 42 T.U.E.L.) dell’operato del Sindaco e della Giunta dalla quale si differenzia, come evidenziato dalla sentenza in epigrafe, in quanto “sono presenti maggioranza e minoranza e nel cui seno (quindi) si deve equilibrare l’esercizio di due distinti diritti: quello della maggioranza all’attuazione dell’indirizzo politico (…) e quello della minoranza a rappresentare e svolgere la propria opposizione”[10].
Tale equilibrio può essere garantito solo attraverso la predisposizione e il rispetto di regole la cui funzione non è agevolare questa o quella parte politica ma garantire il corretto funzionamento dell’organo. Regole, pertanto, essenzialmente procedimentali che dovrebbero essere politicamente “neutre”, o se si preferisce “bipatisan”, in quanto condivise da tutte le parti politiche e (tendenzialmente) immuni ai cambiamenti di maggioranza[11].
Il Presidente del Consiglio comunale è il soggetto principale a cui spetta il compito di applicare e far rispettare tali regole in quanto “presidente di tutto il collegio (…) e suo rappresentante”.[12]
La sua funzione, dunque, risulta neutrale in quanto, non solo “non necessita di alcuna maggioranza strettamente politica”[13] ma soprattutto perché, “non è strumentale all’attuazione di alcun indirizzo politico, bensì al corretto funzionamento dell’istituzione”[14].
Come già rilevato, la disciplina della cessazione della carica può avere riflessi sull’esercizio della funzione: la neutralità presidenziale subirebbe un serio vulnus se costantemente minacciata dalla possibilità di revoca consiliare fondata su motivazioni esclusivamente politiche e, dunque, per definizione, di parte[15].
Per le considerazioni appena svolte la dottrina è, pressoché unanime[16] nel ritenere inammissibile l’istituto della mozione di sfiducia che si caratterizza quale “atto amministrativo ad alto contenuto politico”[17] e implica l’esistenza (e la successiva rottura) di un rapporto fiduciario tra il soggetto eletto per ricoprire una data carica e gli elettori del soggetto stesso, rapporto che nel caso de quo risulta inesistente.
Due argomenti rafforzano la conclusione che la figura del Presidente del Consiglio comunale abbia natura istituzionale e non politico-fiduciaria e conseguentemente che sia inammissibile la mozione di sfiducia.
In primo luogo, l’art 39 T.U.E.L. prevede che, salvo diversa disposizione dello statuto, nei comuni con popolazione superiore ai 15.000 abitanti, le funzioni vicarie di Presidente del Consiglio sono esercitate dal consigliere anziano[18]. In base a tale norma, quindi, nel caso di impedimento, vacanza o assenza del Presidente del Consiglio le sue funzioni possono essere esercitate dal consigliere anziano che (ex art. 40 T.U.E.L.) è il consigliere che ha ottenuto il maggior numero individuale di voti (con esclusione del sindaco neoeletto e dei candidati alla carica di sindaco). Come evidenziato dalla dottrina, il consigliere anziano, pur potendo essere un membro della maggioranza, non è escluso che sia un esponente dell’opposizione[19]. Le funzioni (vicarie) di Presidente del Consiglio possono, dunque, essere esercitate da un soggetto che non è espressione della maggioranza senza che questa circostanza leda l’autonomia, l’indipendenza[20] o, anche, la semplice funzionalità del Consiglio comunale in quanto, appunto, tali funzioni, sono istituzionali e non politiche[21].
In secondo luogo, il legislatore (art. 52 T.U.E.L.) quando ha voluto ammettere la mozione di sfiducia ne ha espressamente disciplinato le conseguenze, i limiti e le procedure, quindi (ragionando a contrario) si può sostenere che, rispetto a tale istituto, la legge ubi voluit dixit[22] (et ubi non voluit non dixit).
Più complesso risulta stabilire la possibilità e i limiti del potere di revoca[23].
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Per valutare la conformità della revoca del Presidente del Consiglio comunale ai principi (generali) inderogabili dell’ordinamento che costituiscono il limite all’autonomia normativa e statutaria degli enti locali (art. 1, comma 3, T.U.E.L.) occorre stabilire la natura giuridica dell’atto di revoca stesso.
Innanzitutto, occorre affermare la natura amministrativa e non politica di tale atto.
La deliberazione che revoca il Presidente, infatti, proviene da un organo, il Consiglio comunale, che ha “natura amministrativa più che politica”[24] e pertanto deve ritenersi un provvedimento amministrativo con tutte le conseguenze disciplinari che ciò comporta[25].
Ammettendo, per il momento in via ipotetica, la astratta legittimità del potere del Consiglio comunale di revocare il proprio Presidente, deve necessariamente ritenersi, dunque, che l’esercizio di tale potere sia sottoposto alle regole sul “giusto procedimento” e al successivo (ed eventuale) controllo giurisdizionale di legittimità del giudice amministrativo[26].
Nel diritto amministrativo, la revoca è un provvedimento di secondo grado ad esito eliminatorio[27].
Si tratta, infatti, di un provvedimento volto a caducare (rectius a far cessare gli effetti di)[28] un precedente provvedimento amministrativo, emanato dalla stessa amministrazione, per ragioni di opportuntà[29].
Parte della dottrina distingue la revoca in senso stretto, che avrebbe ad oggetto un provvedimento ab inizio inopportuno, da quella che definisce (impropriamente) abrogazione, che sarebbe il ritiro di un provvedimento divenuto inopportuno per fatti o circostanze sopravvenute[30].
Tale distinzione appare inutile[31] sia da un punto di vita generale che avendo riguardo specificatamente alla vicenda di cui ci stiamo occupando.
In generale è inutile non solo perché “in entrambi i casi va esclusa la retroattività degli effetti” ma soprattutto perché le valutazioni di opportunità sono, per loro natura, “mutevoli e cangianti” e non si riferiscono tanto all’atto ma agli effetti dell’atto che variano al variare del “contesto storico”[32].
Accogliere una simile distinzione, peraltro, svuoterebbe di ogni autonomia l’istituto della abrogazione che si risolverebbe un una revoca per sopravvenienza e, in ultima analisi, costituirebbe “una (inutile) complicazione di vocabolario”[33].
Rispetto all’atto di nomina del Presidente del Consiglio, la distinzione prospettata tra revoca e abrogazione risulta non avere alcuna conseguenza applicativa[34] attesa “l’indifferenza del nomen iuris usato rispetto alla effettiva qualificazione giuridica e la tendenza giurisprudenziale ad unificare entrambe le figure nell’istituto generale della revoca”[35].
Definito in generale l’istituto della revoca, occorre verificarne la compatibilità rispetto alla nomina del Presidente del Consiglio comunale.
Il dato da cui occorre partire è il silenzio della legge.
Tale silenzio nella maggior parte delle decisioni dei Co.Re.Co.[36] è stato interpretato come un limite alla potestà statutaria dei comuni e, conseguentemente, come un limite, insuperabile, alla legittimità dell’istituto della revoca del Presidente del Consiglio comunale.
La giurisprudenza amministrativa, peraltro, non ha mai dato rilievo al silenzio legislativo concentrandosi sui limiti del potere di revoca.
In realtà costituiscono limite alla potestà statutaria i principi generali dell’ordinamento e, per quanto la ricognizione di tali principi risulti essere sempre operazione ermeneutica complessa, non sembra sia possibile rinvenire dal complesso delle norme che regolano la materia una preclusione generale all’istituto della revoca presidenziale.
Quello che si può dare per acquisito è che la legge stabilisce in modo puntuale (e inderogabile) la forma di governo degli enti locali.
Tale circostanza comporta, a nostro avviso, che, pur potendo gli statuti comunali contenere disposizioni praeter legem ispirate al principio di ragionevolezza[37], tali disposizioni da un lato non possono alterare gli equilibri della forma di governo e dall’altro non possono essere surrogate, nel silenzio dello statuto, da atti di rango inferiore[38].
Il potere di revoca da parte del Consiglio comunale deve trarre origine da una espressa (e puntuale) disciplina statutaria e, quindi, non può essere ricostruito direttamente dalla legge o da principi generali quali l’autotutela[39], proprio perché tale potere, anche a prescindere dal suo esercizio, può incidere sugli equilibri della forma di governo stabilita inderogabilmente dalla legge.
Il sistema designato dal legislatore per i Comuni, infatti, prevede un esecutivo forte (sistema c.d. presidenziale) a cui fa da contrappeso il controllo del Consiglio comunale. Massima espressione del Consiglio e garanzia di funzionamento dello stesso è il suo Presidente. Se non vi fossero adeguate garanzie di durata e di stabilità per il Presidente si indebolirebbe il Consiglio alterando il bilanciamento di poteri previsto dalla legge[40]. Pertanto, la disciplina della revoca presidenziale deve essere puntuale e predeterminata e non “creata” di volta in volta a seconda delle evenienze e delle convenienze di parte.
Dalle argomentazioni sin qui svolte, dunque, si può concludere che, in astratto, è legittima la previsione statutaria dell’istituto della revoca presidenziale purché, in concreto, l’esercizio di tale potestà non alteri (o non si presti ad alterare) il funzionamento degli organi previsti dal legislatore statale nel disciplinare la forma di governo degli enti locali.
La revoca Presidenziale è, pertanto, un atto discrezionale, ma la discrezionalità del Consiglio comunale, rispetto a tale istituto, non può ritenersi del tutto“piena”[41].
La funzione del Presidente del Consiglio comunale è, infatti, come più volte rilevato, neutrale e istituzionale e, pertanto, la revoca “non può essere causata, (e, dunque, motivata) che dal cattivo esercizio della funzione in quanto ne sia viziata la neutralità”[42] o l’efficienza[43].
Il potere di revocare il Presidente del Consiglio deve essere esercitato con motivazioni istituzionali che ne costituiscono “la funzione tipica secondo la logica del sistema”[44]. Motivazioni politiche, pertanto, non legittimano il Consiglio comunale a revocare il proprio Presidente.
Normalmente, però, una accorta maggioranza consiliare, per rimuovere il Presidente del Consiglio, non si richiamerà, in sede di motivazioni, a meri contrasti politici ma porrà a fondamento formale della revoca violazioni, omissioni o semplici errori del Presidente stesso nell’esercizio del suo mandato.
Per rendere effettivo il sindacato giurisdizionale e soprattutto per evitare sia l’elusione dei principi generali del sistema delle autonomie locali che l’esercizio del potere discrezionale in questione per fini diversi da quelli per il quale è attribuito, dunque, è necessario che i fatti posti a fondamento della revoca siano attentamente verificati dal giudice amministrativo.
Tale controllo sarà reso possibile dalla circostanza che mentre i motivi di una revoca “politica” possono rimanere generici, quelli di una revoca fondata sul cattivo esercizio della funzione “devono essere integrati dal riferimento a fatti e comportamenti specifici”[45] che evidenzino, appunto, tale cattivo esercizio.
Il Giudice amministrativo nel sindacare la legittimità della revoca dovrà vagliare e valutare gli addebiti mossi al Presidente per verificarne “la corrispondenza al vero e la logicità”[46] e, quindi, l’assenza del c.d. sviamento di potere[47].
Il controllo puntale degli addebiti mossi al Presidente del Consiglio comunale non costituisce un superamento dei limiti del giudizio di legittimità, con conseguente invasione della discrezionalità amministrativa[48]; tale controllo, infatti, rivestirà il ruolo di sindacato estrinseco della discrezionalità stessa, volto a verificare la legittimità dell’atto di revoca sotto il profilo dell’eccesso di potere.
La sentenza del Consiglio di Stato in epigrafe, proprio rispetto al “grado di controllo” delle motivazioni dell’atto di revoca presenta i profili più interessanti, apparendo discostarsi dal precedente orientamento consolidato.
Tale decisione, infatti, per ciò che attiene alla natura istituzionale della figura del Presidente del Consiglio comunale e alla conseguente necessità che la sua revoca abbia a fondamento motivi istituzionali e non politici si richiama ai precedenti dello stesso giudice[49] attestandosi sulle posizioni della dottrina maggioritaria.
La novità della sentenza in rassegna consiste, invece, nella valutazione “assai timida” delle motivazioni, in concreto, dell’atto di revoca.
Dalla decisione, infatti, si evince che i giudici amministrativi, in questa circostanza, si “accontentano” di verificare che le motivazioni, formali, dell’atto di revoca non siano politiche ma relative al cattivo esercizio della funzione.
Analizzando i propri poteri di controllo i giudici affermano che il sindacato di legittimità “non può spingersi (…) oltre la manifesta illogicità ed ingiustizia e l’evidente travisamento del fatto”; sparisce ogni riferimento allo sviamento di potere e il controllo della veridicità del fatto risulta limitato dalla necessaria “evidenza” del suo travisamento.
Gli addebiti mossi nel caso di specie al Presidente del Consiglio comunale revocato non vengono puntualmente verificati e valutati ritenendosi sufficiente la circostanza che essi non siano, per così dire, esteriormente politici.
Nella valutazione della legittimità della revoca presidenziale nessuna importanza è accordata alla rilevanza degli addebiti essendo del tutto ininfluente la circostanza che la violazione da parte del Presidente dei propri obblighi istituzionali risulti grave e reiterata o al contrario lieve e isolata[50]; anche un semplice errore, ad esempio, nella conduzione dei lavori dell’aula espone il Presidente alla possibilità di revoca da parte del Consiglio comunale perché, espressamente, si afferma che il giudizio sulla opportunità o necessità di provvedere è del tutto rimesso “alla valutazione ampiamente discrezionale della maggioranza assoluta dei componenti del Consiglio comunale”[51].
Risulta, allora, chiaro che se questo nuovo orientamento dovesse essere confermato da future decisioni, le garanzie di durata e stabilità del Presidente del Consiglio sarebbero fortemente mortificate. La natura istituzionale della figura del Presidente e della revoca della sua nomina rimarrebbero confinate a mero dato formale.
Atteso che, come rilevato dalla dottrina, in concreto i provvedimenti di revoca presidenziale hanno di solito movente politico, alla maggioranza consiliare per rimuovere un Presidente non più gradito basterà porre a fondamento formale della revoca fatti e circostanze plausibili che implichino, nella valutazione insindacabile della maggioranza stessa, un cattivo esercizio della funzione.
Appare opportuno ribadire che, l’avvicinarsi della revoca ad un atto “sostanzialmente politico” comporterebbe una modifica, anche essa sostanziale, del ruolo del Presidente del Consiglio comunale; un Presidente continuamente esposto al rischio di essere revocato dalla maggioranza consiliare ben difficilmente eserciterà la sua funzione con imparzialità e indipendenza nel rispetto dei diritti, non solo della maggioranza ma anche, dell’opposizione.
In ultima analisi, se si consolidasse l’orientamento espresso dal Consiglio di Stato nella sentenza in esame anche il Consiglio comunale risulterebbe indebolito e con esso risulterebbe ridimensionata la funzione di controllo che è attribuita a quest’organo dalla legislazione vigente. Il bilanciamento di poteri tra Sindaco e Giunta da un lato e Consiglio comunale dall’altro sarebbe alterato venendosi a modificare i “rapporti di forza” tra organi di governo così come stabiliti dal legislatore statale.
La recente modifica del titolo V della Costituzione[52] non ha modificato la potestà legislativa esclusiva dello Stato per la disciplina elettorale, nonché degli organi di governo e delle funzioni fondamentali di comuni, province e città metropolitane[53].
Forse, però, proprio la modifica del titolo V della Costituzione, intervenuta prima della sentenza, non è stata priva di riflessi per la decisione adottata dal Consiglio di Stato.
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A seguito della legge Cost. n.3 del 2001 il nuovo art. 114 Cost. dispone che “la Repubblica è costituita dai Comuni, dalle Province, dalle Città metropolitane, dalle Regioni e dallo Stato. I Comuni, le Province, le Città metropolitane e le Regioni sono enti autonomi con propri statuti, poteri e funzioni secondo i principi fissati dalla Costituzione”.
Rispetto al vecchio regime si è compiuta una vera e propria “rivoluzione copernicana”[54], considerando che il vecchio art. 114 recitava semplicemente che “la Repubblica si riparte in Regioni, Province e Comuni” e il successivo art. 128 Cost., ora abrogato, disponeva che “le Province e i Comuni sono enti autonomi nell’ambito dei principi fissati da leggi generali della Repubblica, che ne determinano le funzioni”.
Agli enti locali viene riconosciuta una pari dignità istituzionale rispetto a quella dallo Stato, pur nella diversità delle funzioni e contestualmente l’autonomia statutaria degli stessi viene assurta al rango di principio costituzionale.
Cade il limite del rispetto dei principi fissati dalle leggi generali della Repubblica per l’esercizio del potere statutario anche se residua la competenza esclusiva della legislazione statale nella disciplina elettorale, nonché degli organi di governo e delle funzioni fondamentali di comuni, province e città metropolitane[55].
Tali innovazioni pongono in primo luogo un serio problema di coordinamento con l’anteriore T.U. degli enti locali (D.lgs 267/2000) ed in particolare con il già citato articolo 1, commi 3 e 4, che dispone che “la legislazione in materia di ordinamento degli enti locali e di disciplina dell’esercizio delle funzioni ad essi conferite enuncia espressamente i principi che costituiscono limite inderogabile per la loro autonomia normativa. L’entrata in vigore di nuove leggi che enunciano tali principi abroga le norme statutarie con essi incompatibili. Gli enti locali adeguano gli statuti entro 120 giorni dalla data di entrata in vigore delle leggi suddette. Ai sensi dell’articolo 128 della Costituzione le leggi della Repubblica non possono introdurre deroghe al presente testo unico se non mediante espressa modificazione delle sue disposizioni”.
Come attenta dottrina ha rilevato, infatti, se si può affermare la compatibilità del testo unico con il nuovo assetto costituzionale, tale compatibilità necessita di qualche puntualizzazione[56].
L’ordinamento locale risulta oggi essere il prodotto di una molteplicità di fonti il cui ambito andrebbe specificato nel senso di consentire i più ampi margini di auto organizzazione da parte degli enti territoriali stessi.
Il legislatore statale ha mantenuto potestà legislativa rispetto alla disciplina elettorale, degli organi di governo e delle funzioni fondamentali degli enti locali ma sembra necessario affermare che la legge statale non sia “più prevista come una legge generale, ma (come) una legge caratterizzata da una maggiore essenzialità circa” le materie di propria competenza “con una rivalutazione sostanziale, oltre che formale” degli statuti degli enti locali stessi[57] attraverso una legislazione più di principio che di dettaglio[58].
In altre parole, se è vero che il legislatore statale mantiene in determinate e specifiche materie competenza legislativa esclusiva è anche vero che, da un lato, l’esercizio di tale potere dovrebbe garantire il più possibile l’autodeterminazione organizzativa degli enti locali e, dall’altro, comunque, l’autonomia normativa generale degli enti locali stessi risulta oggi limitata esclusivamente dai principi fissati direttamente dalla Costituzione e non più dalla legge statale.
Dalla riforma costituzionale si evince, però, una ulteriore caratterizzazione degli enti locali, che se non espressa in alcuna norma, appare lo stesso tanto ben definita da aver probabilmente condizionato la decisione del Consiglio di Stato qui commentata.
In altra parte della presente analisi, seguendo autorevole dottrina, abbiamo posto in luce come gli enti locali avessero natura più amministrativa che politica[59].
In base a considerazioni giuridiche e “sociali”, però, v’è da chiedersi se la legge costituzionale n. 3 del 2001 non costituisca il punto di arrivo di un percorso che ha trasformato sempre più gli enti locali in “enti politici”(rectius, enti dotati di autonomia politica)[60].
Dal punto di vista “sociale” è di tutta evidenza che i c.d. amministratori locali abbiano assunto un ruolo politico sempre più attivo e rilevante anche per questioni di interesse nazionale.
Le c.d. elezioni amministrative, soprattutto a seguito dell’introduzione del sistema “maggioritario”, costituiscono un momento di fortissima polarizzazione politica con riflessi affatto secondari sugli equilibri politici e istituzionali nazionali.
Il riconoscimento della pari dignità tra lo Stato e gli altri enti territoriali, l’ampliamento delle competenze degli stessi enti (non solo amministrative ma anche normative) e l’affermazione dapprima in ambito comunitario e poi in ambito statale del principio di sussidiarietà[61], hanno semplicemente formalizzato il ruolo politico e di governo che gli enti locali si erano già ritagliati nel sentire sociale.
Il Consiglio di Stato pur non arrivando ad affermare la natura di atto politico[62] e la conseguente insindacabilità della revoca del Presidente del Consiglio comunale sembra autolimitare il proprio sindacato nel rispetto, appunto, della natura sempre più politica degli organi di governo locale.
Il risultato ottenuto, però, per quanto comprensibile risulta non essere condivisibile.
Da un lato, infatti, se è legittimo auspicare, de iure condendo, che attraverso un riconoscimento più ampio dei poteri statutari “venga dato modo alle comunità locali di organizzarsi nel modo realmente più adeguato ai propri bisogni (…) e alle proprie capacità operative”[63], nella vigente legislazione la disciplina dei poteri e delle funzioni degli organi degli enti locali è riservata al legislatore statale le cui disposizioni non possono essere svilite od eluse da una fonte di rango inferiore (lo Statuto) o da un provvedimento concreto (la revoca).
Dall’altro se si riconosce la natura politica degli (o di alcuni) atti degli organi di governo degli enti locali[64] il sistema imporrebbe che ne venisse sancita la insindacabilità giurisdizionale e non un controllo più “formale” da parte del giudice amministrativo.

Note:
[1] L. n. 142 del 1990, l. n. 81 del 1993, l. n. 295 del 1999, d. leg. n. 267 del 2000 (T.U.E.L.).
[2] Per una disamina sugli enti locali aggiornata, comprendente le modifiche introdotte dalla l. cost. n. 3 del 2001, si veda E. Barrusso, Il diritto degli enti locali, Rimini, 2002.
[3] Sulla elezione diretta del sindaco, del presidente della provincia, del consiglio comunale e del consiglio provinciale.
[4] P. L. Matta, Il presidente del consiglio comunale. Normativa statale e normativa della regione siciliana, in Nuove Autonomie, 3, 1996, 448.
[5] E. Meandri, Il presidente del Consiglio: natura giuridica e revoca, in Nuove Autonomie, 5-6, 1999, 838 ss.
[6] Previsione confermata dall’art. 39 T.U.E.L.
[7] M. Mazzamuto, La revoca del Presidente del Consiglio comunale, in Nuove Autonomie, 4-5, 2000, 704.
[8] M. Mazzamuto, La revoca del Presidente del Consiglio comunale, cit., 704.
[9] P. L. Matta, Il presidente del consiglio comunale…, cit., 456.
[10] Cons. di Stato, sez. V, 6 giugno 2002, n. 3187; cfr. Cons. di Stato, sez. V, 25 novembre 1999, n. 1983, in Cons. di Stato, 1999, 11, 1875.
[11] A riprova di quanto affermato l’art. 6, comma 4, del T.U.E.L. impone per l’adozione e le modifiche dello Statuto (che, tra l’altro, deve stabilire le norme fondamentali dell’organizzazione dell’ente e, in particolare, specifica le attribuzioni degli organi e le forme di garanzia e di partecipatone delle minoranze e le modalità di esercizio del potere regolamentare), in prima seduta, il voto favorevole dei due terzi dei consiglieri comunali o, se tale quorum non si raggiunge, il voto favorevole della maggioranza assoluta dei consiglieri in due sedute successive.
[12] Cons. di Stato, sez. V, 6 giugno 2002, n. 3187.
[13] Co.Re.Co., sezione provinciale di Trapani, 18 novembre 1999, n. 871, in Nuove Autonomie, 5-6, 1999, 835.
[14] Cons. di Stato, sez. V, 6 giugno 2002, n. 3187; cfr., tra gli altri, G. Serio, I poteri di controllo nei confronti del Sindaco e del Presidente del Consiglio comunale, in Nuove Autonomie, n. 2-3, 2000, 241 ss., secondo cui “la carica di presidente del consiglio comunale, ancorché elettiva, non implica un rapporto di fiducia politica tra il presidente stesso e la giunta o comunque con la maggioranza, e deve pertanto ritenersi che la funzione del predetto presidente abbia natura istituzionale, nel senso che è esclusivamente preordinata ad assicurare il funzionamento delle istituzioni mediante gli appositi atti strumentali (…) che possono e debbono essere compiuti indifferentemente da chi condivide o anche da chi non condivide il programma politico della maggioranza”.
[15] M. Mazzamuto, La revoca del Presidente del Consiglio comunale, cit., 704.
[16] Contra P. L. Matta, Il presidente del consiglio comunale…, cit., 452, e P. Virga, Diritto Amministrativo, III, Milano, 1998, 105.
[17] G. Arezzo di Trifiletti, Ammissibilità della revoca del Presidente del Consiglio comunale e ruolo del consigliere anziano, in Nuova Rassegna di legislazione, dottrina e giurisprudenza, n. 2, 1999, 165.
[18] La previgente disciplina prevedeva l’affidamento al consigliere anziano delle funzioni di Presidente del Consiglio comunale, nel caso in cui lo statuto non istituisse tale figura (art. 1, comma 2, l. n. 81 del 1993).
[19] G. Serio, I poteri di controllo nei confronti del Sindaco…, cit., 241; cfr. Co.Re.Co., sezione provinciale di Trapani, 18 novembre 1999, n. 871, cit., 835.
[20] G. Serio, I poteri di controllo nei confronti del Sindaco…, cit., 241.
[21] Cfr. T.A.R. Puglia, Lecce, sez. II, 19 gennaio 2000, n. 437, in Nuove Autonomie, 4-5, 2000, 701; Cons. di Stato, sez. V, 6 giugno 2002, n. 3187; Cons. di Stato, sez. V, 25 novembre 1999, n. 1983, cit., 1876.
[22] G. Arezzo di Trifiletti, Ammissibilità della revoca del Presidente del Consiglio…,cit., 164 ss.
[23] Per l’istituto della revoca in generale si veda A. Corsaci, voce Revoca e abrogazione del provedimento amministrativo, in Digesto delle discipline pubblicistiche, Torino, 1997, 324 ss., E. Ferrari, voce Revoca nel diritto amministrativo, ibidem, 333 ss., R. Alessi, voce Revoca (diritto amministrativo), in Nuovissimo Digesto italiano, XV, Torino, 1957.
[24] G. Barone, Sindaco, Consiglio e mozione di sfiducia: da atto politico a prassi amministrativa, in Guida agli enti locali, n. 3, 2000, 99: l’Autore, in realtà, si occupa della mozione di sfiducia nei confronti del Sindaco ma le conclusioni che raggiunge in merito alla natura amministrativa dell’atto consiliare possono essere traslate anche all’atto di revoca.
[25] Gli atti politici sono “liberi nel fine (e) frutto di una discrezionalità talmente ampia da sottrarsi ad ogni sindacato giurisdizionale (…). La qualificazione di tali atti consiliari come atti politici li sottrarrebbe pure al rispetto delle norme procedurali sancite dalla legge 241/1990 (…) in quanto tali norme sono dettate per regolare il procedimento di formazione degli atti amministrativi e non degli atti politici”, G. Barone, Sindaco, Consiglio e…, cit., 99 (vedi supra nota n. 24).
[26] M. Mazzamuto, La revoca del Presidente del Consiglio comunale, cit., 706.
[27] R. Villata, L’atto amministrativo, in Diritto Amministrativo, a cura di L. Mazzarolli, G. Pericu, A. Romano, F. A. Roversi Monaco, F. G. Scoca, II, Bologna, 1998, 1532.
[28] “Non è il provvedimento in se ad essere oggetto della revoca, ma la sua efficacia”, V. Cerulli Irelli, Corso di diritto amministrativo, Torino, 2002, 555.
[29] R. Villata, L’atto amministrativo, cit., 1523 ss.; tale caratteristica, la presenza di vizi di merito (inopportunità), contrappone la revoca all’istituto dell’annullamento che presuppone, al contrario, la presenza di un vizio di legittimità, cfr. E. Ferrari, voce Revoca nel diritto amministrativo, cit., 333.
[30] P. Virga, Diritto Amministrativo, II, Milano, 2001, 138; cfr. E. Casetta, Manuale di diritto amministrativo, Milano, 2001, 498 ss.
[31] R. Galli e D. Galli, Corso di diritto amministrativo, II, Padova, 2001, 1115 ss.; cfr. V. Cerulli Irelli, Corso…, cit., 555.
[32] R. Galli e D. Galli, Corso di diritto amministrativo, cit., 1116; cfr. V. Cerulli Irelli, Corso…, cit., 556.
[33] R. Villata, L’atto amministrativo, cit., 1538 ss., che definisce la abrogazione (o rimozione) “il provvedimento con il quale (…) si elimina con efficacia ex nunc un provvedimento la cui permanenza sarebbe contra ius per circostanze sopravvenute”.
[34] Salvo non voler seguire il percorso argomentativo di un autore che dapprima ricerca i requisiti (politici) per svolgere le funzioni di Presidente del Consiglio comunale e, successivamente, per costringere l’istituto entro i confini della c.d. revoca in senso stretto, ne afferma la legittimità esclusivamente nel caso in cui, nel corso del mandato, si evidenzi la mancanza di tali requisiti (in tal modo giuridicizzati) implicitamente asserendo che tale carenza debba essere già presente al momento della nomina se pure non ancora manifesta, E. Meandri, Il presidente del Consiglio…, cit., 839.
[35] Co.Re.Co., sezione provinciale di Trapani, 18 novembre 1999, n. 871, cit., 836.
[36] Su tutti, Co.Re.Co., sezione provinciale di Trapani, 18 novembre 1999, n. 871, cit., 836; Co.Re.Co., sez. centrale, 23 marzo 1995, n. 4627/4498.
[37] E. Meandri, Il presidente del Consiglio…, cit., 844.
[38] M. Mazzamuto, La revoca del Presidente del Consiglio comunale, cit., 705.
[39] M. Mazzamuto, La revoca del Presidente del Consiglio comunale, cit., 705; contra T. Romei, Il Presidente del Consiglio, in Nuova Rassegna di legislazione dottrina e giurisprudenza, n.12, 2001, 1412 ss.
[40] M. Mazzamuto, La revoca del Presidente del Consiglio comunale, cit., 705.
[41] Cons. di Stato, sez. V, 25 novembre 1999, n. 1983, cit., 1875.
[42] Cons. di Stato, sez. V, 6 giugno 2002, n. 3187.
[43] Cfr. T.A.R. Puglia, Lecce, sez. II, 19 gennaio 2000, n. 437, cit., 701.
[44] Cons. di Stato, sez. V, 25 novembre 1999, n. 1983, cit., 1877.
[45] M. Mazzamuto, La revoca del Presidente del Consiglio comunale, cit., 706.
[46] T.A.R. Puglia, Lecce, sez. II, 19 gennaio 2000, n. 437, cit., 702.
[47] Cons. di Stato, sez. V, 25 novembre 1999, n. 1983, cit., 1877.
[48] Cons. di Stato, sez. V, 25 novembre 1999, n. 1983, cit., 1877.
[49] Cons. di Stato, sez. V, 25 novembre 1999, n. 1983, cit.
[50] Contra T.A.R. Puglia, Lecce, sez. II, 19 gennaio 2000, n. 437, cit., 701 ss.
[51] Cons. di Stato, sez. V, 6 giugno 2002, n. 3187.
[52] Legge costituzionale n. 3 del 18 Ottobre 2001.
[53] Art. 117, comma 2, lettera p, Cost.
[54] L. Olivieri, Prime riflessioni sulle influenze della riforma costituzionale sull’ordinamento degli enti locali, in Giust.it.
[55] Art. 117, comma 2, lettera p, Cost.
[56] V. Gerghi, Brevi riflessioni sulla riforma del titolo V della parte II della Costituzione, in Nuova Rassegna di legislazione, dottrina e giurisprudenza, n. 5, 2002, 538.
[57] V. Gerghi, Brevi riflessioni…, cit., 539.
[58] L. Olivieri, Prime riflessioni…, cit.
[59] Vedi supra, nota 24.
[60] B. Cavallo, Provvedimenti e atti amministrativi, in Trattato di diritto amministrativo diretto da G. Santaniello, III, Padova, 1993, 4, che riporta l’opinione pacifica della dottrina che “regioni, province e comuni si possono dare, mediante atti di governo, indirizzi politici propri, anche in distonia con quello del governo centrale”; cfr. E. Barusso, Il diritto degli enti locali, cit., 89, che afferma che in particolare comuni e province sono enti dotati, tra le altre forme di autonomia, di autonomia politica da intendersi come “il riconoscimento (…) di potestà pubbliche finalizzate al perseguimento di indirizzo politico-amministrativo distinto e relativamente indipendente da quello statale”.
[61] Il principio di sussidiarietà (verticale) è “un criterio di ripartizione delle funzioni politiche e amministrative fra enti rappresentativi di diversi livelli territoriali di gestione della cosa pubblica”, F. Caringella, Corso di diritto amministrativo, I, Milano, 2001, 731.
[62] Per la nozione di atto politico si veda G. B. Garrone, voce Atto politico (disciplina amministrativa), in Digesto delle discipline pubblicistiche, Torino, 1987, 544 ss. e O. Ranelletti e A. Amorth, voce Atti del governo, in Nuovissimo Digesto italiano, Torino, 1937, 1108 ss.
[63] L. Olivieri, Prime riflessioni…, cit.
[64] Come evidenziato da attenta dottrina “può ragionevolmente ipotizzarsi che, dal punto di vista soggettivo, la norma di cui all’art. 31 T.U.C.S. vada interpretata nel senso di riconoscere ance ad organi differenti dal Governo statale, quali gli organi di governo degli enti locali, la facoltà di emanare atti politici, tante volte quante ad essi sia, costituzionalmente o legislativamente, riconosciuta una funzione analoga alla funzione di indirizzo politico statale”, A. L. M. Toscano, Sulla natura degli atti di nomina e di revoca degli assessori provinciali e comunali, in Rivista amministrativa della repubblica italiana, 2001, fasc. 9, 823; cfr. Cons. di Stato, sez. IV, 29 febbraio 1996, n. 217, in Cons. di Stato, 1996, I, 171 ss. Per quanto riguarda, in particolare, la revoca del Presidente del Consiglio comunale, ad opinione di chi scrive, risulta, comunque, inadeguata la riferibilità dello stesso alla categoria degli atti politici essendo stata, più volte, evidenziata la natura istituzionale dell’atto di nomina e conseguentemente della revoca presidenziale.

Redazione

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