Revenge porn: tutela civilistica

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Isabella Rubino[1] e Giovanni Adamo[2]

SOMMARIO: 1.Revenge porn: tutela civilistica 1.1. Premessa 2. Azione inibitoria  2.1. L’art. 10 del Codice Civile: l’abuso dell’immagine altrui. 3. Provvedimenti cautelari: fumus boni iuris e periculum in mora. 3.1. Il sequestro giudiziario. 3.2. L’urgenza di “arrestare” la diffusione delle immagini sul web. 3.3. Il sequestro giudiziario ante causam. 4. Risarcimento del danno. 4.1 Il danno patrimoniale: quantificazione e liquidazione. 4.2. Il danno non patrimoniale: art. 2059 c.c.. 4.3. Il danno morale ed il danno esistenziale: determinazione e liquidazione.

1. Premessa

Prima di entrare nel merito della questione ed esaminare gli istituti giuridici previsti dal nostro ordinamento a garanzia del diritto all’immagine ed alla riservatezza, è necessario premettere alcune considerazioni al fine di meglio inquadrare il tema del revenge porn e, in generale, della diffusione di contenuti sessualmente espliciti senza il consenso dell’interessato.

L’innovazione digitale ed il costante diffondersi di sempre più aggiornate tecnologie ha, senza dubbio, influito positivamente sulla gestione di innumerevoli aspetti della vita quotidiana delle persone e, come è noto, ha avuto effetti rilevanti in relazione alle modalità di comunicazione, di condivisione e di diffusione di contenuti di qualsiasi natura.

Parallelamente alla semplificazione dei sistemi di “connessione”, si è assistito alla “moltiplicazione” delle occasioni e degli strumenti di “intrusione” (ed a volte di violazione) della riservatezza e della vita privata[3]. Il legislatore italiano con l’art. 10 della legge 19 luglio 2019 n. 69, ha introdotto l’art. 612 – ter rubricato: “Diffusione illecita di immagini o di video sessualmente espliciti” con l’obiettivo di fronteggiare un fenomeno che sta assumendo dimensioni non indifferenti e che aveva già indotto i legislatori di altri Stati ad introdurre fattispecie incriminatrici ad hoc ed, in generale, apparati di norme a garanzia dei diritti delle vittime di tali abusi[4].

L’aspetto più preoccupante del fenomeno in discorso, si sostanzia nella difficoltà di gestione e di controllo del contenuto lesivo una volta che quest’ultimo sia approdato online, su internet, sui social network, sulle piattaforme di messaggistica istantanea. La necessità di introdurre strumenti che permettano di “frenare” il fenomeno della “inarrestabile” condivisione, rappresenta la ratio dell’introduzione di tale nuova fattispecie incriminatrice nel nostro codice penale cui, ci si auspica, si accosteranno nel tempo previsioni normative più dettagliate e capaci di fronteggiare il fenomeno anche in via preventiva in modo da garantire, in ogni caso, il diritto all’oblio di ogni soggetto coinvolto e il conseguente potere di richiedere (ed ottenere) la rimozione dei contenuti lesivi anche dal web.

Si legga anche:” L’inquadramento normativo del Revenge Porn: un illecito plurioffensivo”

2. Azione inibitoria

L’azione inibitoria, prevista nel nostro ordinamento in relazione ai fini del soddisfacimento di diverse esigenze[5], tra cui anche in relazione alla tutela del diritto all’immagine[6], è diretta all’ottenimento di una forma di tutela che si sostanzi nell’emissione da parte del Giudice, previo accertamento della condotta per cui si richiede tale intervento, di un provvedimento che preveda:

  • la cessazione della condotta lesiva presa in esame;
  • l’ordine di non reiterare la medesima condotta lesiva.

Tale forma di tutela è prevista dal Codice per la tutela del nome, dello pseudonimo[7] e dell’immagine (art. 10 c.c.) e, più genericamente, per la tutela dei diritti rientranti nell’ambito dell’identità personale[8].

In merito non può non considerarsi l’importanza rivestita anche dal diritto alla riservatezza, che rappresenta limite imprescindibile alla divulgazione di ogni informazione inerente un soggetto e, pertanto, aspetto di cui tenere imprescindibilmente conto in relazione alla tutela dell’immagine (anche nei casi in cui il diritto all’immagine ed alla riservatezza di un soggetto vengano lesi per il tramite della diffusione di contenuti sessualmente espliciti senza il suo consenso).

2.1 L’art. 10 del Codice Civile: l’abuso dell’immagine altrui

L’art. 612 – ter sancisce:”Salvo che il fatto costituisca più grave reato, chiunque, dopo averli realizzati o sottratti, invia, consegna, cede, pubblica o diffonde immagini o video a contenuto sessualmente esplicito, destinati a rimanere privati, senza il consenso delle persone rappresentate, è punito con la reclusione da uno a sei anni e con la multa da euro 5.000 a euro 15.000.

Il tema del consenso, come emerge anche dal disposto dell’art. 612 – ter, rappresenta il cuore della disciplina relativa alla tutela del diritto all’immagine ed alla riservatezza della persona. Preliminarmente si consideri quanto disposto dalla legge 633/1941 che, nonostante preveda norme relative alla tutela del diritto d’autore, agli artt. 96 e 97 qualifica il “consenso” del soggetto rappresentato in un’immagine, quale elemento imprescindibile e necessario ai fini della diffusione di quest’ultima[9].

Il Codice Civile del 1942, all’art. 10 ha introdotto uno strumento di tutela dello stesso diritto all’immagine, ed infatti tale norma sancisce come: “Qualora l’immagine di una persona o dei genitori, del coniuge o dei figli sia stata esposta o pubblicata fuori dei casi in cui l’esposizione o la pubblicazione è dalla legge consentita, ovvero con pregiudizio al decoro o alla reputazione della persona stessa o dei detti congiunti, l’autorità giudiziaria, su richiesta dell’interessato, può disporre che cessi l’abuso, salvo il  risarcimento dei danni”.

Ai sensi della richiamata disciplina, la mancata prestazione del consenso da parte del soggetto raffigurato non rappresenta l’unico “elemento” di impedimento alla diffusione dell’immagine, proprio perché un ulteriore limite è rappresentato dal “pregiudizio al decoro o alla reputazione della persona e dei congiunti”.

Previsione normativa similare è contenuta nell’art. 96 della Legge sul diritto d’autore (L. 633/1941) che sancisce il principio ai sensi del quale il ritratto di una persona non può essere esposto, riprodotto o messo in commercio senza il consenso di questa, salvo alcune eccezioni relative al caso in cui la notorietà o il pubblico ufficio ricoperto giustifichino la riproduzione dell’immagine, necessità di giustizia o polizia, scopi scientifici, didattici o culturali,  o quando la riproduzione è collegata a fatti, avvenimenti, cerimonie di interesse pubblico o svolti in pubblico. Il secondo comma dell’art. 97 L.d.a. afferma, infine, come “il ritratto non possa essere esposto o messo in commercio, quando l’esposizione o messa in commercio rechi pregiudizio all’onore, alla reputazione od anche al decoro della persona trattata”.

Pertanto, in mancanza del consenso dell’interessato, la diffusione di immagini raffiguranti quest’ultimo è lecita e legittima soltanto qualora trovi la propria ratio nella tutela di un interesse pubblico prevalente (rispetto alla tutela del diritto all’immagine e alla riservatezza di un soggetto) quale, quello relativo alla pubblica informazione.

In merito alla forma ed alle modalità di prestazione del consenso, è necessario richiamare la  pronuncia della Corte di Cassazione n. 1748/2016 che, in merito, ha statuito come:il consenso alla pubblicazione della propria immagine costituisce un negozio unilaterale, avente ad oggetto non il diritto, personalissimo ed inalienabile, all’immagine, che in quanto tale non può costituire oggetto di negoziazione, ma soltanto l’esercizio di tale diritto. Il consenso in parola, pertanto, sebbene possa essere occasionalmente inserito in un contratto, resta tuttavia distinto ed autonomo dalla pattuizione che lo contiene, con la conseguenza che esso è sempre revocabile, quale che sia il termine eventualmente indicato per la pubblicazione consentita, ed a prescindere dalla pattuizione del compenso, che non costituisce un elemento del negozio autorizzativo in questione, stante la natura di diritto inalienabile e, quindi, non suscettibile di valutazione in termini economici rivestita dal diritto in discussione (Cass. 3014/2004)”.

Considerando la generale riferibilità degli artt. 6, 7, 8, 9 e 10 alla tutela della più generica “identità personale” del soggetto[10], la legittimazione ad agire ai fini dell’ottenimento della tutela inibitoria presa in esame sussiste non soltanto per il soggetto direttamente coinvolto ed il cui diritto all’immagine (ed alla connessa riservatezza) sia stato leso, ma anche ai congiunti ed ai familiari di quest’ultimo.

Una volta esercitata l’azione inibitoria, la ripartizione dell’onere probatorio ai fini del riconoscimento del diritto all’ottenimento del risarcimento del danno, ricade sull’attore ossia sul soggetto che ha subito il pregiudizio patrimoniale e non patrimoniale poiché tale danno non  può definirsi sussistente “in re ipsa” [11].

La Corte di Cassazione con la pronuncia n. 9385/2018, ha affermato che: “[La Corte] intende pertanto assicurare continuità al consolidato orientamento della giurisprudenza di legittimità, recentemente confermato, secondo cui “il danno non patrimoniale” da lesione di diritti fondamentali, “quale tipico danno-conseguenza, non coincide con la lesione dell’interesse (ovvero non è in re ipsa) e, pertanto, deve essere allegato e provato da chi chiede il relativo risarcimento, anche se, trattandosi di un pregiudizio proiettato nel futuro, è consentito il ricorso a valutazioni prognostiche ed a presunzioni sulla base di elementi obbiettivi che è onere del danneggiato fornire“, Cass. sez. III, ord. 18.1.2018, n. 907 (in senso analogo, Cass. sez. I, sent. 25.1.2017, n. 1931), essendo stato anche chiarito che, in materia di responsabilità civile… è configurabile il risarcimento del danno non patrimoniale, da identificarsi con qualsiasi con conseguenza pregiudizievole della lesione… di diritti della personalità costituzionalmente protetti, ivi compreso quello all’immagine, il cui pregiudizio, non costituendo un mero danno-evento, e cioè in re ipsa, deve essere oggetto di allegazione e prova, anche tramite presunzioni semplici, Cass. sez. III, sent. 13.10.2016, n. 20643.

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3. Provvedimenti cautelari: fumus boni iuris e periculum in mora

In merito ai presupposti per la concessione, da parte del giudice, del provvedimento cautelare, quali fumus boni iuris (giudizio di ragionevole verosimiglianza circa la sussistenza del diritto fatto valere) e periculum in mora (rischio che, con il decorso del tempo, la decisione di merito o l’attività esecutiva risultino vanificate)[12], è necessario citare l’ordinanza 10.08.2016 dal Tribunale di Napoli Nord[13] che costituisce una delle prime decisioni in relazione alla rimozione di contenuti online (nel caso di specie, dalla piattaforma Facebook).

Nel caso di specie, il Tribunale decise di emettere un provvedimento d’urgenza ex art. 700 c.p.c. per la rimozione di immagini certamente non lesive dell’onore e della rispettabilità della persona ma lesive del diritto all’immagine poiché pubblicate online senza il consenso di uno dei soggetti raffigurati. Da notarsi, quindi, la differenza intercorrente tra il consenso prestato ad apparire in foto ed il consenso necessario perché la diffusione di quest’ultima sia legittima[14]. Sul punto, la pronuncia n. 1748/2016 della Corte di Cassazione che ha confermato come sia sempre revocabile  il consenso prestato per la diffusione della propria immagine[15].

In particolare, il Tribunale ha ritenuto sussistente il requisito del fumus boni iuris a causa della mancanza del consenso alla diffusione di tali immagini, ai sensi dell’art. 10 c.c. e degli artt. 96 e 97 L.d.a., mentre il periculum in mora sarebbe consistito nel rischio di aggravare la già subita lesione del diritto all’immagine della ricorrente, nell’attesa di una decisione di merito[16].

3.1 Il sequestro giudiziario

Il sequestro è un provvedimento cautelare tipico che si sostanzia nella sottrazione di un determinato bene giuridico dalla disponibilità di un soggetto, prima che intervenga una decisione di merito in relazione a quel bene. Il sequestro giudiziario è previsto dal Codice di procedura civile all’art. 670 che al prima comma lett. b) prevede la possibilità per il giudice di autorizzare un sequestro giudiziario di ogni cosa da cui possono pervenire elementi di prova ovvero qualora sia controverso il diritto alla esibizione o alla comunicazione.

Orbene, nel caso di diffusione di diffusione illecita di immagini o video sessualmente espliciti,  potrebbe emergere la necessità di “preservare” i contenuti espliciti diffusi, prima dell’intervento di una decisione di merito che accerti la totale assenza del consenso del soggetto raffigurato in tali contenuti e, pertanto, la configurazione della fattispecie di reato prevista dall’art. 612 ter del Codice penale e definito, appunto, come “pornografia non consensuale”[17].

Innumerevoli ad oggi, i provvedimenti cautelari che vedono i giudici decidere per il sequestro degli strumenti attraverso cui le fattispecie di reato di revenge porn è verosimile che siano state poste in essere.

3.2 L’ urgenza di “arrestare” la diffusione delle immagini sul web

Di fondamentale importanza (poiché emessa circa 50 anni prima rispetto all’introduzione di una normativa specifica in relazione alla illecita diffusione di contenuti pornografici) è la pronuncia della Corte Costituzionale n. 122 del 1970 chiamata a decidere in merito alla legittimità costituzionale dell’art. 10 del Codice civile e degli artt. 96 e 97 della l. 633/1941, in rapporto all’art. 700 c.p.c., all’art. 21 della Costituzione. In particolare, la questione di legittimità si fondava sull’assunto ai sensi del quale l’art. 21 della Costituzione prevede il sequestro della stampa soltanto al verificarsi dei delitti per cui la legge lo prevede. La Costituzione, secondo tale tesi, porrebbe una riserva rinforzata di legge in relazione alle condizioni necessarie per la sequestrabilità che sarebbero: 1) la determinazione di una fattispecie criminosa come delitto; 2) la previsione per cui solo e soltanto la legge sulla stampa può determinare la tipologia di delitti rilevanti.

Sul punto, la Corte Costituzionale ha affermato innanzitutto come: “[…] il fatto che la Costituzione ammetta il sequestro preventivo solo “nel caso di delitti per i quali la legge sulla stampa espressamente lo autorizzi” o “nel caso di violazione di norme che la legge stessa prescriva per l’indicazione dei responsabili” non può non escludere la legittimità di tale misura in ogni altro caso. […] la pubblicazione dell’immagine altrui, in quanto costituisca mezzo di manifestazione del pensiero, cade nell’ambito del diritto tutelato dal primo comma dell’art. 21 della Costituzione e soggiace ai limiti entro i quali tale garanzia costituzionale opera. Ma, ove tali limiti siano stati superati, il sequestro preventivo – naturalmente, allo stato della legislazione – é ammissibile solo quando la pubblicazione dell’immagine attraverso la stampa integri la fattispecie prevista dall’art. 528 del codice penale (pubblicazioni oscene), perché solo in tal caso concorrono le due condizioni prescritte dalla norma costituzionale di raffronto: si tratta, infatti, di un delitto e per esso espressamente la legge vigente (R.D.L. 31 maggio 1946, n. 561, art. 2, primo comma) autorizza il provvedimento.

Stando all’orientamento giurisprudenziale ormai maggioritario, in seguito all’evoluzione tecnologica ed allo sviluppo di innumerevoli tecnologie e strumenti di comunicazione innovativi, espressioni quali “diffusione a mezzo stampa o qualsiasi altro mezzo di pubblicità” possono, senza dubbio, essere considerate comprensive anche dei nuovi mezzi di comunicazione quali internet, giornali online e social media. Come affermato anche dalla Corte di Cassazione[18] le norme riportanti tali espressioni devono essere intese quali norme aperte, a tal proposito si veda la più recente interpretazione dell’art. 595 comma 3 e la connessa possibilità di intendere come “aggravata” anche la fattispecie criminosa della diffamazione posta in essere a mezzo internet[19]. In tal senso la Cassazione penale, nelle pronunce n. 24431/2015 e n. 8328/2015, ha qualificato la diffusione di contenuti diffamatori tramite Facebook come condotta idonea a raggiungere un numero indeterminato o comunque quantitativamente apprezzabile di soggetti[20].

3.3 Il sequestro giudiziario ante causam

Il provvedimento cautelare del sequestro, può essere fatto oggetto di ricorso anche precedentemente all’instaurazione del giudizio di merito, al fine di garantire l’utilità del successivo provvedimento decisorio.

Nel caso del soggetto – vittima della diffusione di contenuti lesivi nei suoi riguardi, è chiaro che l’esigenza di tutelare potrebbe sorgere prima dell’instaurazione del procedimento di merito. Le ragioni sottese all’instaurazione di un giudizio, ossia la tutela della propria immagine, del proprio nome, della propria rispettabilità ed onorabilità, potrebbe essere lese proprio dalla ininterrotta e continuata diffusione degli stessi contenuti lesivi.

Da ultimo, si osservi anche il particolare atteggiarsi del presupposto del periculum in mora nell’ambito del sequestro giudiziario. Infatti, l’art. 670 c.p.c. impone una “valutazione di opportunità” rispetto all’esigenza di “custodire temporaneamente” le “cose” “da cui si pretende di desumere elementi di prova [o] quando è controverso il diritto alla esibizione o alla comunicazione”.

4. Risarcimento del danno

Chi subisce la diffusione di contenuti sessualmente espliciti, potrebbe subire entrambe le tipologie di danno:

  • un danno patrimoniale, consistente nel pregiudizio economico derivante dell’illecito subìto;
  • un danno non patrimoniale inerente interessi non patrimoniali della persona offesa e risarcibile ai sensi dell’art. 2059 del Codice Civile. La Corte Costituzionale, nella pronuncia n.184/2006, ha definito il danno non patrimoniale “come danno morale subiettivo che si sostanza nel transeunte turbamento psicologico del soggetto offeso”.

4.1 Il danno patrimoniale: quantificazione e liquidazione

Il titolo IX del Codice Civile, riservato alla trattazione “Dei fatti illeciti”, prevede all’art. 2056 le modalità di valutazione dei danni ed infatti, afferma: “Il risarcimento dovuto al danneggiato si deve determinare secondo le disposizioni degli artt. 1223, 1226 e 1227. Il lucro cessante è valutato dal giudice con equo apprezzamento delle circostanze del caso”. Questa norma, sostanzialmente, definisce concretamente cosa, per il nostro ordinamento, può essere fatto oggetto di risarcimento.

La funzione del risarcimento del danno è quella di “sopperire” alla perdita economica subita dal danneggiato a causa dell’illecito commesso dal terzo[21]. Il cd. equivalente pecuniario, definito dalla Cassazione quale “valutazione della differenza tra il valore del bene nello stato in cui si sarebbe trovato in assenza dell’atto illecito e il valore del bene leso”, rappresenta la tradizionale e tipica forma di risarcimento di danno patrimoniale.

La modalità di risarcimento rispondente alla più moderna considerazione del danno patrimoniale quale danno consistente non soltanto in una deminutio patrimonii, è la forma del risarcimento “in forma specifica”, diretta a reintegrare il soggetto leso della posizione qua ante pregiudicata dal fatto illecito subito[22] e che per il danneggiante, pertanto, non si configurerà in una semplice obbligazione pecuniaria.

Per quanto riguarda la determinazione del quantum da risarcire, imprescindibile è il riferimento all’art. 1223 C.c., norma fondamentale poiché definisce le “voci” componenti il danno da risarcire: il danno emergente ed il lucro cessante.

Il primo può essere definito “posta attiva” del patrimonio del leso (nel senso che sottrae beni o utilità già parte del patrimonio[23]), bene su cui è stata maturata una legittima aspettativa e che possiede il requisito dell’attualità [24], un esempio possono essere le spese necessarie per la tutela della persona in seguito alla pubblicazione ed alla conseguente diffusione di contenuti sessualmente espliciti nei confronti di quest’ultima.

Il secondo, invece, rappresenta la lesione patrimoniale non ancora subita dal soggetto danneggiato ma consistente nell’incremento patrimoniale che non potrà ottenere a causa della lesione subita quale, ad esempio, lo stipendio che non riceverà a causa della perdita del proprio impiego (chiaramente da intendersi come evento dipendente dal fatto illecito subito). In considerazione della natura di valore potenzialmente acquisibile (ma, di fatto, non ancora acquisito), di tale tipologia di danno, e della conseguente difficoltà relativa alla quantificazione di quest’ultimo, la Corte Costituzionale nella pronuncia n. 347/1980, ha chiarito come la prova del lucro cessante potrà essere rappresentata dalla ricostruzione della successione normale degli eventi secondo un giudizio meramente ipotetico.

La pronuncia n. 500/1999 della Corte di Cassazione a Sezioni Unite ha “avviato” il riconoscimento della risarcibilità anche della cd. perdita di chance ossia non solo del danno ingiusto causato ai diritti soggettivi ma anche le aspettative di natura patrimoniale riconducibili alla situazione  soggettiva di interesse legittimo. Per danno da perdita di chance, pertanto, si intende un danno derivante dalla perdita della possibilità di ottenere un futuro risultato utile e un’effettiva occasione favorevole di conseguire un vantaggio economico, qualificabile e quantificabile[25]. Il danno da perdita di chance è risarcibile, come affermato dalla Corte di Cassazione nella pronuncia n. 4400/2004, “qualora il danneggiato dimostri (anche in via presuntiva, ma pur sempre sulla base di circostanze di fatto certe) la sussistenza di un elemento causale tra il fatto illecito e la probabilità ragionevole di verificazione futura del danno”.

4.2 Il danno non patrimoniale: art. 2059

L’illecita diffusione di contenuti sessualmente espliciti senza il consenso dell’interessato, determina  senz’altro l’insorgenza, in capo a quest’ultimo, del diritto al risarcimento del danno non patrimoniale ai sensi dell’art. 2059 c.c.. Con tale norma il nostro ordinamento riconosce tutela ai diritti personali costituzionalmente tutelati e non riconducibili ai danni patrimoniali poiché sancisce il principio di tipicità delle fattispecie costituenti la categoria del “danno non patrimoniale”.

Il principio di tipicità è sancito anche dall’art. 185 del codice penale, il quale afferma: “Ogni reato obbliga alle restituzioni, a norma delle leggi civili. Ogni reato che abbia cagionato un danno patrimoniale o non patrimoniale, obbliga al risarcimento il colpevole e le persone che, a norma delle leggi civili, debbono rispondere per il fatto di lui”.

La Corte Costituzionale con la pronuncia n. 233/2003 ha chiarito: “Non vi è dubbio che l’art.2059 C.C. stabilendo che il danno non patrimoniale deve essere risarcito solo nei casi determinati dalla legge, circoscriveva originariamente la risarcibilità all’ipotesi contemplata dall’art.185 C.P., del danno non patrimoniale derivante da reato, e le conferiva un carattere sanzionatorio, reso manifesto, tra l’altro, dalla stessa relazione al codice civile. Coerentemente a ciò, si riteneva, poi, che il riferimento al reato contenuto nell’art.185 C.P., dovesse essere inteso nel senso della ricorrenza in concreto di una fattispecie criminosa in tutti i suoi elementi costitutivi anche di carattere soggettivo. Con la conseguente inoperatività, in tale ambito, della presunzione di legge destinata a supplire la prova, in ipotesi mancante, della colpa dell’autore della fattispecie”.

Pertanto, rispetto all’originaria questione inerente la riconducibilità nell’alveo della tutela fornita dall’art. 2059 dei soli casi in cui si riesca ad accertare la responsabilità dell’autore dell’illecito in base alla sola ricostruzione oggettiva del fatto e non servendosi di presunzioni di legge, la Corte Costituzionale ha chiarito come “L’art.2059 debba essere interpretato nel senso che il danno non patrimoniale, in quanto riferito alla astratta fattispecie di reato, è risarcibile anche nell’ipotesi in cui, in sede civile, la colpa dell’autore del fatto risulti da una presunzione di legge”.

In relazione all’argomento della determinazione del quantum di danno da risarcire, mentre nel campo del danno patrimoniale l’aspetto economico dell’interesse violato permette di misurare l’entità del danno attraverso valori monetari, la quantificazione “in denaro” dell’interesse violato pone innumerevoli problematiche. Il criterio più adatto alla monetizzazione della lesione di un interesse tutelato dall’ordinamento e, pertanto, consistente nella lesione di un interesse oggetto di un danno non patrimoniale è il criterio equitativo. Il giudice dovrà motivare ed esplicitare quali sono stati i criteri fondanti il proprio percorso logico e giuridico di decisione relativo alla quantificazione del danno[26].

Un ulteriore fondamentale aspetto da considerare, in relazione al tema del danno non patrimoniale, è quello relativo alla qualificazione di tale categoria quale categoria unitaria, all’interno della quale far rientrare le varie voci di danno quali (ad esempio) danno morale e danno esistenziale. A tal proposito, necessario è il richiamo alle pronunce n. 8827/2003 e n. 8828/2003 della Corte di Cassazione, in seguito alle quali le “voci” di danno sopra richiamate sarebbero divenute necessarie solamente alla determinazione del quantum del danno da risarcire a titolo di “danno non patrimoniale”. In particolare, nella prima delle menzionate sentenze, la Corte afferma che: “Si deve quindi ritenere ormai acquisito all’ordinamento positivo il riconoscimento della lata estensione della nozione di “danno non patrimoniale”, inteso come danno da lesione di valori inerenti alla persona, e non più solo come “danno morale soggettivo”. Non sembra tuttavia proficuo ritagliare all’interno di tale generale categoria specifiche figure di danno, etichettandole in vario modo: ciò che rileva, ai fini dell’ammissione a risarcimento, in riferimento all’articolo 2059, è l’ingiusta lesione di un interesse inerente alla persona, dal quale conseguano pregiudizi non suscettivi di valutazione economica”.

La conseguenza della scissione del concetto di “danno non patrimoniale” dal concetto di “danno morale” è che ai fini della risarcibilità di quest’ultimo, sarà necessaria ed imprescindibile la prova della lesione e della sussistenza di un danno di tale natura (che invece, in un primo momento, era considerato come sussistente in re ipsa).

4.3 Il danno morale ed il danno esistenziale: determinazione e liquidazione

Passando ora alla trattazione delle singole fattispecie di danno configurabili nel caso di diffusione di contenuti sessualmente espliciti a danno di un soggetto non consenziente, necessaria appare la preventiva definizione del concetto di danno morale.

Il danno morale è definito dall’art.1 lett. b) del d.p.r. 30.10.2009 n.81, secondo cui “Il danno morale è il pregiudizio non patrimoniale costituito dalla sofferenza soggettiva cagionata dal fatto lesivo in sé considerato”.

La Corte di Cassazione, con la pronuncia n. 8177/1994, ha chiarito come il danno morale trovi il suo fondamento in un ingiusto anche se non duraturo turbamento dello stato d’animo in diretta conseguenza dell’offesa subita e può consistere nella riduzione e nello squilibrio delle capacità intellettive del leso.

Tale tipologia di danno non patrimoniale, pone innumerevoli problemi sul piano della determinazione del quantum e della successiva e conseguente liquidazione del danno, a causa della difficile considerazione e prova della sua effettiva entità. Sostanzialmente, si potranno valutare gli effetti ma mai comprenderne l’effettiva entità della lesione. Il fatto illecito, infatti, può incidere sull’equilibrio psico-fisico della persona in diversi modi, con la conseguenza che sarà molto difficile valutarne l’impatto lesivo. Fino ad oggi, né la dottrina né la giurisprudenza hanno fornito elementi oggettivi utili ai fini della valutazione dell’entità del danno e, pertanto, il giudice determina il quantum da risarcire ricorrendo, ovviamente, al criterio equitativo e servendosi di alcuni parametri di riferimento [27] (gravità del fatto, sofferenza provocata, ecc.). È onere del soggetto leso, invece, fornire in giudizio elementi che possano coadiuvare la comprensione del giudicante e la effettiva incidenza del fatto illecito sul proprio benessere.

Coadiuvano la valutazione del giudice elementi fattuali quali il disvalore sociale dell’illecito e gli effetti di quest’ultimo sulla vita del soggetto leso dipendentemente dall’età, dalla partecipazione di quest’ultimo alla vita sociale, alle condizioni di salute[28]. Sostanzialmente, vengono analizzate le circostanze di fatto in cui si inserisce il danno subito.

Le degenerazioni del danno morale (si consideri quale esempio lo stato di salute di un soggetto che, a causa della diffusione di contenuti destinati alla permanenza nella propria sfera intima ed allo stato di ansia e tensione generato da tale evento, degenera irreparabilmente), vengono ricondotte nell’alveo del danno biologico[29] con la conseguenza che il giudice personalizzerà il giudizio relativo alla liquidazione del danno valutando le ulteriori sofferenze subite dalla vittima a causa di tali ulteriori eventi[30].

La fattispecie del danno morale derivante dal reato previsto dall’art. 612 – ter (rubricato “Diffusione di immagini o video sessualmente espliciti”) costituisce una ragione di contrasto al maggioritario orientamento giurisprudenziale che vede la liquidazione del danno morale avvenire attraverso il frazionamento del quantum riconosciuto a titolo di risarcimento del danno biologico subito dalla stessa vittima. Ed infatti, la commissione della fattispecie criminosa in discorso, non determina sempre e comunque un danno biologico, con la conseguenza che viene meno il parametro imprescindibile attraverso cui, secondo quanto sostenuto da tale indirizzo, dovrebbe avvenire la liquidazione del danno.

Anche la Corte di Cassazione, in occasione della pronuncia n. 14846/2007, ha riconosciuto “l’autonomia ontologica” del danno morale rispetto al danno biologico, in quanto fondata su un differente interesse giuridico, con la conseguenza che il danno morale andrà liquidato in base a criteri diversi ed autonomi[31] e non quale lesione di minor conto. Chiaramente, la considerazione (in sede di liquidazione) del danno morale quale autonoma voce di danno, comporterà l’insorgenza, in capo al soggetto leso, dell’onere probatorio rispetto alla sofferenza morale provata.

A riaffermare il principio di autonomia del danno morale rispetto al danno biologico,  le cd. tabelle per la liquidazione del danno non patrimoniale depositate dall’Osservatorio per la giustizia civile di Milano nel 2009 che propongono la liquidazione congiunta del danno non patrimoniale conseguente a lesione permanente dell’integrità psicofisica e del danno non patrimoniale conseguente a lesioni in termini di sofferenza soggettiva[32].

Le Tabelle del Tribunale di Milano sopra citate, hanno una funzione coadiuvante per il giudice in fase di decisione ma non sostituiscono il criterio equitativo che rimane criterio tradizionale di liquidazione del danno morale.

Il danno esistenziale, definito dalla Corte di Cassazione quale terzium genus di danno non patrimoniale (insieme al danno biologico ed al danno morale) invece, può essere definito quale effetto pregiudizievole dell’illecito che provoca effetti sul “fare areddituale” del soggetto ed altera le abitudini di vita e l’assetto relazionale propri alla vittima, sconvolge la vita e la quotidianità privandolo di occasioni per l’espressione e la realizzazione della propria personalità[33] (in tal senso, si è espressa anche la Corte di Cassazione in occasione delle sentenze n. 6572/2006  e n. 9861/2007).

Si noti che il danno dinamico-relazionale (riconosciuto quale presupposto per la configurazione del cd. danno esistenziale), è destinato a rappresentare l’eventuale conseguenza della lesione di un qualsiasi interesse costituzionalmente protetto.

Tuttavia, la fattispecie di danno esistenziale non deve confondersi con le minime alterazioni della vita quotidiana dipendenti dal fatto illecito subito che certamente possono incidere sulla tranquillità, il benessere e l’equilibrio della persona ma che, certamente, non possono essere in alcun modo qualificati quali danno esistenziale che, pertanto, per configurarsi è necessario che superi una soglia minima di tollerabilità e che provochi un pregiudizio consistente al soggetto leso. In tal senso, le Sezioni Unite della Corte di Cassazione nel 2008 hanno chiarito che “al di fuori dei casi determinati dalla legge ordinaria, solo la lesione di un diritto inviolabile della persona concretamente individuato è fonte di responsabilità risarcitoria non patrimoniale”.

Ai fini della determinazione del quantum da risarcire, il giudice dovrà valutare il concreto atteggiarsi della lesione non patrimoniale sia relativamente all’incidenza di quest’ultimo sul piano della sofferenza morale, sia sul piano dinamico-relazionale[34].

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Note

[1]             Dottoressa in giurisprudenza- Junior Assistant Studio Legale Adamo.

[2]             Avvocato in Bologna – Cultore della materia di Istituzioni di Diritto Privato presso l’Università di Bologna-Managing Partner Studio Legale Adamo (www.studiolegaleadamo.it).

[3]             G.M. Caletti, Revenge porn e tutela penale – Prime riflessioni sulla criminalizzazione specifica della pornografia non consensuale alla luce delle esperienze angloamericane, Diritto penale contemporaneo, 2018

[4]             Ad esempio, la Repubblica delle Filippine nel 2009 ha introdotto il cd. Anti – Photo and Video Voyeurism Act, gli Stati Uniti in cui già più di 40 stati hanno introdotto discipline specifiche in tal senso, il Regno Unito che ha provveduto introdurle nel 2015 e la Francia nel 2016.

[5]             Art. 2601 c.c.: “Azione delle associazioni professionali” –  art. 37 d.lgs. n. 206/2005 Cod. Cons. in materia di condizioni generali di contratto abusive.

[6]             Art. 10 c.c.: “Qualora l’immagine di una persona o dei genitori, del coniuge o dei figli sia stata esposta o pubblicata fuori dei casi in cui l’esposizione o la pubblicazione è dalla legge consentita, ovvero con pregiudizio al decoro o alla reputazione della persona stessa o dei detti congiunti, l’autorità giudiziaria, su richiesta dell’interessato , più disporre che cessi l’abuso, salvo il risarcimento danni.

[7]             Art. 7 rubricato “La persona alla quale i contesti il diritto all’uso del proprio nome o che possa risentire pregiudizio dall’uso che altri indebitamente ne faccia, può chiedere giudizialmente la cessazione del fatto lesivo, salvo il risarcimento dei danni”.

[8]    http://www.roby1968.altervista.org/doc_vari/diritto_privato/6-tecniche_di_attuazione/5/2.htm

[9]             Art. 96 l. 633/1942: “Il ritratto di una persona non può essere esposto, riprodotto o messo in commercio senza il consenso di questa, salve le disposizioni dell’articolo seguente”; Art. 97 l. 633/1941: “ll ritratto non può tuttavia essere esposto o messo in commercio, quando l’esposizione o messa in commercio rechi pregiudizio all’onore, alla reputazione od anche al decoro della persona ritrattata”.

[10]  “Il diritto all’identità personale”, https://www.laleggepertutti.it/113110_il diritto all’identita personale

[11]           T.A.R. Roma, (Lazio) sez. I, 15/10/2018, n.9984, Cass. n.7471/2012, Cass. 10527/2011,  Cass. 20558/2014, Cass. n. 13614/2011

[12]  P. Biavati, Argomenti di diritto processuale civile, Bononia University Press, 2017

[13]  A tale ordinanza è seguito, poi, il reclamo della resistente “Facebook Ireland Ltd” che si riporta di seguito: http://www.iurisprudentia.it/public/sentenze/636140668276866250_ord%20031116%20reclamo%20facebook.pdf

[14]           M. Bombelli, M. Giordano, R. Lanzo, Diritto di Facebook – Viaggio nella giurisprudenza italiana per scoprire come i nostri giudici affrontano le problematiche legate al popolarissimo social network, Editore Key, 2018

[15]           Sent. n. 1748/2016 Cass. Civ.: “a norma dell’articolo 10 codice civile, nonché della Legge n. 633 del 1941, articoli 96 e 97, sul diritto d’autore, la divulgazione dell’immagine, senza il consenso dell’interessato – il quale può, come ogni altra forma di consenso, essere condizionato da limiti soggettivi (in relazione ai soggetti in favore dei quali è prestato) od oggettivi (in riferimento alle modalità di divulgazione) – è lecita soltanto se ed in quanto risponda alle esigenze di pubblica informazione (sia pure intesa in senso lato), non anche, pertanto, ove sia rivolta – come nel caso di specie – a fini pubblicitari (cfr. Cass. 1503/1993; 5175/1997; 8838/2007; 21995/2008). In tal senso si è espressa, peraltro, anche la Corte Europea dei Diritti dell’Uomo (CEDU) la quale, con riferimento all’articolo 8 della Convenzione per la salvaguardia dei diritti dell’uomo, ha osservato che la nozione di “vita privata” – enunciata nella norma succitata – è una nozione ampia, non soggetta a una definizione esaustiva, che comprende l’integrità fisica e morale della persona e può, quindi, includere numerosi aspetti dell’identità di un individuo, come il nome o elementi che si riferiscono al diritto all’immagine. Tale nozione ricomprende, dunque, tutte le informazioni personali che un individuo può legittimamente aspettarsi non vengano pubblicate senza il suo consenso (CEDU, 6.4.2010, n. 184/06, Saaristo e altri c. Finlandia). La pubblicazione di una o più foto, pertanto, in quanto invade la vita privata di una determinata persona, anche se si tratta di un soggetto pubblico, non può essere effettuata senza il consenso della persona medesima (cfr. CEDU, 21.2.2002, n. 42409/98, Schussel c. Austria; CEDU, 24.6.2004, n. 59320/00, Von Hannover c. Germania; CEDU, 19.9.2013, n. 8772/10, Von Hannover c. Germania). Ebbene, va osservato, al riguardo, che il consenso alla pubblicazione della propria immagine costituisce un negozio unilaterale, avente ad oggetto non il diritto, personalissimo ed inalienabile, all’immagine, che in quanto tale non può costituire oggetto di negoziazione, ma soltanto l’esercizio di tale diritto. Il consenso in parola, pertanto, sebbene possa essere occasionalmente inserito in un contratto, resta tuttavia distinto ed autonomo dalla pattuizione che lo contiene, con la conseguenza che esso è sempre revocabile, quale che sia il termine eventualmente indicato per la pubblicazione consentita, ed a prescindere dalla pattuizione del compenso, che non costituisce un elemento del negozio autorizzativo in questione, stante la natura di diritto inalienabile e, quindi, non suscettibile di valutazione in termini economici rivestita dal diritto in discussione (Cass. 3014/2004).

[16]  S. D’Angelo, Le immagini ed il diritto d’autore sul web, https://www.tesionline.it/tesi/brano/La-tutela-del-diritto-all’immagine-nel-web/33427

[17]        M. Cartisano, “Revenge porn, i reati previsti dal disegno di legge e i dubbi interpretativi”,  https://www.agendadigitale.eu/sicurezza/privacy/revenge-porn-prime-impressioni-e-problematiche-interpretative/

[18]           Cassazione penale, Sez. 5, n. 40980 del 16/11/2012.

[19]           Redazione Altalex, “La diffamazione a mezzo internet nei più recenti orientamenti giurisprudenziali”, https://www.altalex.com/documents/news/2016/06/27/diffamazione-a-mezzo-internet-nei-piu-recenti-orientamenti-giurisprudenziali#_ftnref3

[20]           https://www.altalex.com/documents/news/2017/07/21/diffamazione-via-facebook

[21]
A. Baldassarri, Il danno alla persona, Dottrina Casi Sistemi, (a cura di) P. Cendon, A. Baldassarri, Zanichelli Editore, 2006, Bologna.

[22]
A. Carnevale, G. Scarano, Il danno alla persona, Aspetti giuridici e medico-legali, Collana di medicina legale e scienze affini, 2010, CEDAM

[23]
M.G. Pirastu, Brevi considerazioni in tema di risarcimento del danno da perdita di chance, De Jure, 2011  (nota a sentenza).

[24]
F. Lai, Il danno patrimoniale da perdita di chance, Urbanistica e appalti, 2013, 10, 1059 (nota a sentenza).

[25]
F. Lai, Il danno patrimoniale da perdita di chance, Urbanistica e appalti, 2013, 10, 1059 (nota a sentenza).

[26]
V. Di Gregorio, La calcolabilità del danno non patrimoniale, G. Giappichelli Editore, 2018.

[27]
M. Rossetti, Il danno da lesione della salute, CEDAM, 2001.

[28]
V. Di Gregorio, La calcolabilità del danno non patrimoniale, G. Giappichelli Editore, 2018.

[29]
Il decreto legislativo n. 209 del 2005 definisce il danno biologico quale “ lesione temporanea o permanente dell’integrità psico – fisica della persona, suscettibile di valutazione medico – legale, che esplica un’incidenza negativa sulle attività quotidiane e sugli aspetti dinamico – relazionali della vita del danneggiato, indipendentemente da eventuali ripercussioni sulla sua capacità di produrre reddito”.

[30]
A. Penta, Il danno morale, Danno e Resp., 2017, 1, 115.

[31]
In questo senso, anche Cass. 4 marzo 2008, n.5795.

[32]
A. Penta, Il danno morale, Danno e Resp., 2017, 1, 115

[33]
G. Pascale, I danni non patrimoniali, Maggioli Editore, 2019.

[34]  G. Pascale, I danni non patrimoniali, Maggioli Editore, 2019.

Avv. Adamo Giovanni

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