La responsabilità penale diretta del consulente fiscale

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Articolo redatto congiuntamente dal Dott. Enzo Quaranta, Docente di Diritto  Tributario Università di Bari, Dott. Giuseppe Bifero, Ufficiale della Guardia di Finanza, Avv. Raffaele Carone. Ai fini della divisione del lavoro sono da attribuire il paragrafo di premessa e 3 al Dott. Quaranta, il paragrafo 1 all’Avv. Carone,  il paragrafo 2  e 4 al Dott. Bifero.

Dall’entrata in vigore del D.Lgs. n. 74/2000 in tema di riforma dei reati tributari, la giurisprudenza ha affermato che il consulente tributario può essere chiamato a rispondere, a titolo di concorso, nei reati tributari.
Infatti, già dal 2001[1], la Suprema Corte è intervenuta specificando che il consulente può essere coinvolto nella fattispecie delittuosa di cui all’art. 8, D.Lgs. n. 74/2000, in tema di emissione di fatture per operazioni inesistenti, in concorso, appunto, con chi formalmente le ha emesse.
Durante i primi anni dell’entrata in vigore del D.Lgs. 74/2000, alla luce delle predette pronunce giurisprudenziali e sul presupposto che molto spesso i reali autori del reato non avevano gli strumenti culturali per ipotizzare forme di frode fiscale e, quindi, non potevano che scaturire da suggerimenti o partecipazione diretta dei propri consulenti fiscali, le ipotesi di concorso di questi ultimi nei reati tributari erano diventate una costante.
Nel clima di repressione del fenomeno innanzi descritto, il legislatore decideva quindi di intervenire all’interno del D.Lgs. n. 158/2015, norma che ha parzialmente riformato il D.Lgs. n. 74/2000, introducendo l’art. 13-bis rubricato “circostanze del reato”, con il quale prevede una nuova ipotesi di circostanza aggravata derivante dalla responsabilità penale del professionista nelle condotte delittuose in materia di reati tributari.
Malgrado l’aumento di pena, la norma non modifica il fatto che la responsabilità del professionista non può che essere concorrente[2] a quella del reo, determinando inoltre, durante l’attività di accertamento del suo coinvolgimento, la necessità di ancorarla ad un dettagliato iter logico corroborato da prove documentali che ne dimostrino la partecipazione diretta alla commissione del reato.

Indice

1. Cenni sul concorso di persone nel diritto penale

La disciplina del concorso di persone nel reato è vasta e racchiude in sé una molteplicità di sfumature. Il concorso di persone, anzitutto, si distingue in concorso necessario, quando è la stessa norma penale a richiedere la presenza di condotte di più soggetti affinché possa essere integrata la fattispecie ed in concorso eventuale, presente nella maggior parte dei reati per i quali il concorso di più soggetti costituisce solo una eventualità, potendo gli stessi essere commessi indifferentemente da una o più persone.
Esaminando la struttura di alcuni reati quali la rissa art. 588 c.p., l’associazione a delinquere art. 416 c.p., l’associazione mafiosa art. 416 bis c.p.,  si rileva che la norma incriminatrice preveda quale suo elemento costitutivo la partecipazione di più persone cd  reati plurisoggettivi e tanto diversamente da quelli nei quali la compartecipazione di più persone rileva ai soli fini della responsabilità personale dei concorrenti.
La norma di riferimento del concorso eventuale è data dall’art. 110 c.p. il quale, nell’ispirarsi al principio della pari responsabilità dei concorrenti, stabilisce quanto segue:  “Quando più persone concorrono nel medesimo reato, ciascuna di esse soggiace alla pena per questo stabilita”.
Il c.d. modello delle pari responsabilità[3], determina la responsabilità di tutti gli autori delle condotte che “causalmente” hanno determinato l’evento – reato, senza  alcuna preventiva distinzione tra i soggetti concorrenti in ragione dei rispettivi ruoli, rimettendo al Giudicante ogni valutazione sull’effettivo contributo causale ai fini della quantificazione della pena.
Tale norma consente di punire, in maniera estensiva, in uno ai soggetti che concorrono con condotte criminose tipiche, quelli che pongono in essere azioni di per sé non penalmente rilevanti, ma dotate di quella efficacia eziologica determinante al verificarsi dell’evento, quali ad esempio l’istigazione.
In ragione di quanto innanzi esposto, esaminando il ruolo tenuto dai partecipanti,  vanno analizzati i diversi momenti dell’azione e precisamente: 1) quello ricadente sulla fase dell’esecuzione del reato, nel quale possono coesistere la figura dell’autore in senso stretto, ossia colui che compie l’azione tipica e quella del semplice partecipe,  il quale  pone un’azione di per sé non criminosa ma funzionale al verificarsi dell’evento, come ad esempio il palo nel reato di furo o di rapina; 2) quello risalente alla fase della ideazione  del reato nel quale vanno distinte la figura del mandante ossia colui che determina in altri il proposito di commettere un reato, dalla figura dell’istigatore il quale semplicemente rafforza in altri il proprio  convincimento a  commetterlo.
Per aversi un concorso di persone del reato devono sussistere quattro requisiti, ossia:          
– una pluralità di persone, – la realizzazione di un fatto costituente reato, – il contributo causale dei partecipanti alla realizzazione del fatto antigiuridico, – la consapevolezza di contribuire alla sua realizzazione.
Tali requisiti vengono qui analizzati nei loro aspetti essenziali.
La pluralità di agenti richiede che il reato debba necessariamente esser stato realizzato con la collaborazione di due o più soggetti. La collaborazione tra i soggetti può avvenire anche in assenza della materiale azione congiunta dei partecipanti, diretta alla realizzazione del medesimo evento e tanto nelle particolari ipotesi previste dal codice; si pensi all’induzione in errore (art. 48 c.p.)costringimento fisico a commettere un reato (art. 46), la coazione morale (art. 54), la determinazione in altri dello stato di incapacità allo scopo di far commettere un reato (art. 86) ovvero la determinazione al reato di persona non imputabile o non punibile (art. 111).
In ragione di quanto innanzi si evidenzia che nel novero dei concorrenti nel reato rientrano anche le persone non imputabili o non punibili ex art. 111 e 112 c.p., con piena responsabilità per quanto da essi fatto in capo al soggetto che li ha determinati e/o costretti a commetterlo.
La realizzazione di un fatto reato, sia nella forma tentata che consumata.
Per la realizzazione del fatto non è sufficiente il semplice accordo o la semplice istigazione quando ad essi non segue la materiale commissione del reato.
La presenza poi di una causa oggettiva di esclusione della pena ex art. 119 c. 2 c.p.  va estesa in favore di tutti i partecipanti ad eccezione di quelle soggettive e personali delle quali potrà giovarsi solo la persona alla quale si riferiscono.
Nelle ipotesi in cui il fatto previsto come reato si realizzi in maniera frazionata, il concorso dei diversi soggetti che vi hanno partecipato si concretizza con la semplice commissione di una parte di esso.
La necessità di un nesso causale si rinviene in primo luogo dall’esame dell’art. 116 c.p. laddove s’impone chiaramente che l’evento sia conseguenza dell’azione e/o dell’omissione del partecipe, nonché dagli artt. 111 e 112 c.p. che stabiliscono che colui che determina una persona non imputabile o non punibile a commettere un reato risponde della condotta che avrà una pena edittale aumentata.
Il fatto si considera, come anticipato, nella sua unicità: ciascun partecipante risponderà dell’intero reato nonostante, con la sua condotta, abbia contribuito solo “minimamente” alla realizzazione dell’evento, purché la sua azione sia diretta alla comune realizzazione della fattispecie di reato.
Il contributo di ciascun concorrente può manifestarsi come concorso materiale, posto in essere da chi esegue materialmente l’azione (o parte di essa), ovvero come concorso morale, concretizzandosi nell’impulso psicologico, qualora l’agente istighi o determini altri a commettere un reato[4].
La volontà di cooperare nel reato, quale elemento soggettivo nel concorso di persone, si rinviene nella consapevolezza di ogni compartecipe del collegamento finalistico dei diversi atti posti in essere, tutti volti alla realizzazione dell’evento criminoso.
Questo non significa che i compartecipi debbano obbligatoriamente aver concordato preventivamente di porre in essere il reato, rilevando un mero “accordo istantaneo”, generatosi nell’immediatezza del fatto.
In definitiva, è possibile affermare che è necessario, oltre alla coscienza e volizione di porre in essere la condotta, il medesimo elemento soggettivo del dolo, ovvero la stessa suitas agendi degli altri soggetti alla realizzazione del reato.
Questa particolare volizione, di concorrere alla commissione del delitto con altri soggetti, viene definita dolo di concorso[5]

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L’opera raccoglie le novità in tema di reati tributari, sistematizzando la normativa ed evidenziando le modifiche della nuova disciplina rispetto a quella precedente.In tal modo, il testo si pone quale valido strumento operativo per il professionista che si trovi ad affrontare casistiche sorte prima e dopo la riforma, nonché nel periodo transitorio.Lo studio e l’analisi sono aiutate dal raffronto tra i due quadri normativi (il vecchio e il nuovo) e dalla giurisprudenza di commento ad ogni norma analizzata.Luigi TramontanoGiurista, già docente a contratto presso la Scuola di Polizia economico-finanziaria della Guardia di Finanza è autore di numerosissime pubblicazioni giuridiche ed esperto di tecnica legislativa, curatore di prestigiose banche dati legislative e direttore scientifico di corsi accreditati di preparazione per l’esame di abilitazione alla professione forense.

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2. Cenni sulle fattispecie di cui al D.Lgs. n. 74/2000

L’intero impianto del D.Lgs. n. 74/2000, prevede che il bene giuridico tutelato dalla norma coincida con l’interesse dell’Erario alla percezione dei tributi.
La maggior parte delle fattispecie delittuose di cui al Titolo II del D.Lgs. n. 74/2000, inoltre, individuano un reato proprio, sebbene la norma utilizzi in modo frequente, il pronome “chiunque”.
Il soggetto attivo della condotta delittuosa è, per i reati dichiarativi, colui il quale è obbligato alla presentazione di una dichiarazione, ai fini delle imposte dirette o dell’IVA. Ai fini Imposte dirette il rimando è all’art.1, D.P.R. n. 600/1973, recante le disposizioni in materia di accertamento delle imposte sui redditi: “Ogni soggetto passivo deve dichiarare annualmente i redditi posseduti anche se non ne consegue alcun debito d’imposta. I soggetti obbligati alla tenuta di scritture contabili, […] devono presentare la dichiarazione anche in mancanza di redditi”[6].
Il D.lgs. 74/2000, in merito all’obbligo dichiarativo in capo alle persone giuridiche, specifica all’art. 1, comma 1, lett. e) del D.Lgs. n. 74/2000, che: “riguardo ai fatti commessi da chi agisce in qualità di amministratore, liquidatore o rappresentante di società, enti o persone fisiche, il “fine di evadere le imposte” ed il “fine di sottrarsi al pagamento” si intendono riferiti alla società, all’ente o alla persona fisica per conto della quale si agisce”[7].
Pertanto, nel caso delle persone giuridiche obbligate alla presentazione della dichiarazione, per quanto concerne i reati dichiarativi, in ossequio al principio societas delinquere non potest[8], il soggetto attivo sarà, dunque, chi ha agito in nome e per conto della società materialmente presentando la dichiarazione[9].
Tutti i reati dichiarativi si consumanonel momento della presentazione della dichiarazione fiscale”[10], tranne quello di omessa presentazione della dichiarazione, per il quale il tempus commissi delicti coincide con la scadenza del termine ultimo per la presentazione della stessa[11].
Per quanto concerne l’elemento soggettivo, l’art. 43, primo comma c.p., dispone che “ il delitto è doloso, o secondo l’intenzione, quando l’evento dannoso o pericoloso, […], è dall’agente preveduto e voluto come conseguenza della propria azione od omissione”.  Il dolo, quindi, costituisce la forma più grave di colpevolezza.
Nel corso degli anni, però, dottrina e giurisprudenza hanno elaborato una classificazione concernente le diverse “forme d’intensità” del dolo.
Il dolo diretto (o alternativo) si ha allorquando l’agente, al fine di perseguire un obiettivo, prevede l’evento come risultato certo o altamente probabile della condotta da egli posta in essere, ma ne accetta comunque conseguenze ulteriori e diverse. Sul punto, la Suprema Corte ha di recente affermato che “… deve qualificarsi come dolo diretto, e non meramente eventuale, quella particolare manifestazione di volontà dolosa definita dolo alternativo, che sussiste quando il soggetto attivo prevede e vuole, con scelta sostanzialmente equipollente, l’uno o l’altro degli eventi causalmente ricollegabili alla sua condotta cosciente e volontaria, con la conseguenza che esso ha natura di dolo diretto ed è compatibile con il tentativo”[12].
Tutte le fattispecie delittuose del D.Lgs. n. 74/2000, ad eccezione dei delitti in materia di pagamento di imposte, sono punite a titolo di dolo specifico, poiché caratterizzate dalla finalità del soggetto agente “… di evadere le imposte sui redditi o sul valore aggiunto”.
Il dolo specifico di evasione, precisa la Cassazione,”… è integrato dalla deliberata ed esclusiva intenzione di sottrarsi al pagamento delle imposte nella piena consapevolezza della illiceità del fine e del mezzo”[13].

3. Il concorso del consulente fiscale nelle fattispecie di cui al D.Lgs. n. 74/2000

Dopo questa breve disamina degli elementi costitutivi del reato, con particolare riferimento ai reati dichiarativi, è chiaro che la responsabilità del consulente, con riguardo all’attività professionale da egli svolta[14] potrà soltanto essere concorsuale, come stabilito da costante orientamento della giurisprudenza, secondo il quale il contributo del consulente tributario può manifestarsi “… attraverso forme differenziate e atipiche della condotta criminosa non solo in caso di concorso morale ma anche in caso di concorso materiale, fermo restando l’obbligo del giudice di merito di motivare sulla prova dell’esistenza di una reale partecipazione e di precisare sotto quale forma essa si sia manifestata, in rapporto di causalità efficiente con le attività poste in essere dagli altri concorrenti”[15].
Il concorso può palesarsi, quindi, come concorso morale, consistente nell’istigazione all’evasione da parte del consulente, ovvero come concorso materiale, costituito, ad esempio, dalla materiale redazione, da parte del consulente, della dichiarazione infedele/fraudolenta.
La Cassazione ha evidenziato più volte che il professionista deve comunque agire con coscienza e volizione sia di commettere l’illecito penale tributario, sia di aver consapevolmente ed intenzionalmente dato un contributo causale, materiale o morale, alla realizzazione del reato da parte del proprio cliente.
La prova del concorso del professionista nei reati tributari deve, pertanto, risultare dal contributo concreto, consapevole e ispiratore della frode del consulente[16].
È esclusa la responsabilità del professionista qualora la condotta sia meramente colposa[17], per errori dovuti a negligenza, imprudenza o imperizia dello stesso, poiché la responsabilità della presentazione della dichiarazione ricade direttamente sul contribuente e non si trasferisce sui professionisti incaricati alla trasmissione[18].
Casi di responsabilità, in concorso, del consulente fiscale, rilevati dalla giurisprudenza, sono copiosi e diversificati. Ad esempio, la Corte di Cassazione[19] ha ritenuto che il professionista si sia reso responsabile del concorso nel reato di cui all’art. 2 D.Lgs. n. 74/2000, avendo materialmente proceduto alla predisposizione e l’inoltro delle dichiarazioni fiscali fraudolente ed avendo costantemente realizzato attività di supporto agli imputati finalizzata a “sistemare ad hoc” la documentazione, in realtà viziata da gravi incongruenze accettate consapevolmente dal consulente che, per la sua professionalità, avrebbe dovuto rilevare.
Un’altra importante pronuncia giurisprudenziale della Suprema Corte afferma che risponde di concorso nel reato di dichiarazione fraudolenta mediante uso di fatture per operazioni inesistenti, il commercialista che contabilizza nelle dichiarazioni del cliente fatture che sapeva essere false o per le quali avrebbe “quanto meno dovuto sospettare del carattere fittizio”[20].
In generale, dalla giurisprudenza analizzata si evince che il commercialista è sanzionabile sul presupposto che, in presenza di un meccanismo di frode, egli avrebbe quantomeno dovuto sospettare che la condotta posta in essere dal cliente fosse penalmente rilevante, concetto ribadito più volte dalla stessa Cassazione[21].
La Cassazione[22] ha affermato la configurabilità di una responsabilità concorsuale del consulente fiscale, anche in relazione alla ipotesi di indebita compensazione di crediti Iva inesistenti, ex art. 10 quater. Per i giudici, costituiscono elementi indiziari della corresponsabilità del consulente fiscale la sistematica creazione di crediti Iva fittizi con successivo utilizzo degli stessi in compensazione, la totale inattendibilità della documentazione contabile tenuta nello studio del professionista, il diretto e personale coinvolgimento di questo nella gestione della società beneficiaria delle illecite compensazioni. Irrilevante è il fatto che la materiale compilazione o trasmissione del modello F24 contenente le indebite compensazioni sia avvenuta ad opera del solo contribuente.
Il terzo comma dell’art. 13 bis del D.Lgs. 74/2000, prevede una circostanza aggravante  quale responsabilità del professionista.
Analizzando tale disposizione si conferma, anzitutto, che la responsabilità del professionista, dunque, non può che essere concorrente[23] a quella del reo.
Come anticipato, dunque, nei casi di commissione del delitto in concorso con un professionista nell’esercizio dell’attività di consulenza fiscale, attraverso l’elaborazione o la commercializzazione di modelli di evasione fiscale, questi sarà responsabile (sempre a titolo di concorso con il contribuente), qualora sia provata la serialità della condotta posta in essere[24].
Tale principio, di derivazione giurisprudenziale[25], è desumibile dalla locuzione “… elaborazione o commercializzazione di modelli di evasione…”, poiché questo rappresenta l’abitualità e ripetitività della condotta incriminata, finalizzata proprio alla facilitazione dell’evasione fiscale da parte di un terzo soggetto (il quale, infatti, fonda la propria condotta evasiva specificatamente sulla base di tali modelli).
Proprio la difficoltà d’individuazione di questa serialità, provata scientemente (quasi) esclusivamente grazie ad attività d’indagine ad hoc[26], facilita l’elaborazione a tavolino di modelli d’evasione, anche transnazionale.
L’applicabilità della circostanza aggravante è condizionata alla sussistenza di un duplice presupposto:

–        soggettivo, concernente la qualità dell’agente. In ordine a tale presupposto, si specifica che la norma circoscrive l’ambito (soggettivo) di operatività dell’aggravante al professionista o all’intermediario finanziario o bancario, dovendosi attribuire alla nozione più generale di professionista, in assenza di richiami specifici, un significato sostanziale, ricomprendendovi cioè chiunque svolga attività di consulenza fiscale nell’esercizio della sua professione;
–        oggettivo, riguardante la tipologia della condotta contestata. L’art. 13-bis, comma 3, del D.Lgs. n. 74 del 2000 individua un ben definito modello comportamentale, che si estrinseca nella“elaborazione o commercializzazione di modelli di evasione fiscale”.
La locuzione proposta evoca dunque il presupposto della “serialità” di un determinato modus agendi[27]
Il concetto “modelli d’evasione” è “… riferibile alla creazione e all’utilizzo per finalità di illecito profitto di schemi procedimentali volti all’elusione degli obblighi fiscali”[28].
 
La sentenza della Cass. nr. 36212/2019, in ultima istanza, specifica come “ai fini della configurabilità della circostanza aggravante, non è tanto il numero delle operazioni compiute, ma la loro serialità, dovendosi cioè allargare la prospettiva non solo alle attività già realizzate, ma anche a quelle potenzialmente realizzabili in futuro mediante l’applicazione del medesimo schema operativo”[29].

4. Conclusioni

Il tema del concorso del consulente fiscale nei reati tributaria rappresenta una “vexata quaestio” la cui risoluzione è, però, centrale per reprimere i macro fenomeni evasivi.
Il Legislatore, come ricostruito nel presente lavoro, ha colto questa esigenza ed ha introdotto nel Decreto Legislativo nr. 74/2000, il terzo comma dell’art. 13-bis, proprio al fine di tipizzare penalmente l’apporto del professionista e garantire il principio di tassatività che regge l’impianto penale.
Con tale articolo il Legislatore ha, al contempo, riconosciuto il ruolo di filtro che il “professionista” svolte nella sua diuturna ed importante attività di consulenza, un filtro servente, se funzionante, non a reprimere i reati tributari ma ad evitarne ab origine la commissione.
Il consulente, infatti, con la globalizzazione dei mercati economici e le nuove opportunità garantite dalla digitalizzazione dei flussi finanziari, avrà sempre più un ruolo chiave nel “consigliare” le strategie aziendali al contribuente.
In tale nuovo contesto appare evidente come il contributo del professionista, in caso di reati tributari, possa sempre più tipizzare una condotta “concorsuale”, sia per la natura e l’importanza dell’apporto fornito sia per il proprio livello di conoscenza e consapevolezza della fraudolenza dei dati aziendali.  

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