Responsabilità medica: il danno iatrogeno differenziale

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Com’è noto, le sentenze della Suprema Corte di cassazione a Sezioni Unite, contrassegnate dai numeri 26972, 26973, 26974 e 26975 tutte datate 11 Novembre 2008 e meglio conosciute come sentenze di San Martino, rappresentano una innovazione del sistema risarcitorio del danno non patrimoniale soprattutto laddove si è voluto espressamente riportare che “non era proficuo ritagliare all’interno della generale categoria del danno non patrimoniale specifiche figure di danno, etichettandole in vario modo”, confermando un indirizzo del 2003. La scomparsa delle varie componenti di danno – biologico, esistenziale e morale – può considerarsi, comunque, esclusivamente nominativa, avendo mantenuto, tale distinzione, un rilievo di carattere pratico ed una valenza descrittiva importante.

Danno iatrogeno differenziale: cos’è?

Il danno iatrogeno differenziale, che soprattutto negli ultimi anni ha assunto una importanza crescente proprio nei giudizi di responsabilità medica, poi, più precisamente, rappresenta una species del danno biologico, dunque di quella figura che ha avuto espresso riconoscimento e di cui è possibile trarre una definizione normativa dall’art. 138 del Codice delle assicurazioni private (D.lgs. 7 settembre 2005, n. 209) dove, al comma 2, lett. a), è stabilito che per questo deve appunto intendersi “la lesione temporanea o permanente all’integrità psico-fisica della persona, suscettibile di accertamento medico-legale, che esplica un’incidenza negativa sulle attività quotidiane e sugli aspetti dinamico-relazionali della vita del danneggiato, indipendentemente da eventuali ripercussioni sulla sua capacità di produrre reddito”.

Ebbene, il danno in esame può essere definito come pregiudizio alla salute collegato all’aggravamento di una lesione o di una patologia preesistente, ascrivibile alla colpa di un terzo od a cause naturali, derivato dal comportamento colposo di un sanitario.

Questo pregiudizio sussiste dunque quando si verifichi la seguente successione causale:
i) presenza di una lesione della salute;
ii) l’intervento di un operatore sanitario per farvi fronte;
iii) l’errore del medico;
iv) l’aggravamento o la mancata guarigione della lesione iniziale di cui al punto i).
Deve intanto continuare a mantenersi fermo – dando per buono qui che il danneggiato agisca nei confronti della struttura sanitaria e non del medico per ragioni di mero praticismo teorico – la qualificazione del rapporto tra paziente e struttura sanitaria come di natura obbligatoria, stante il contratto atipico di spedalità stipulato al momento dell’accettazione, oltre che ormai la chiara lettera dell’ultima Legge n. 24 dell’8 Marzo 2017, all’art. 7. La responsabilità della struttura è dunque di tipo contrattuale, sicché il paziente-danneggiato deve dimostrare, al fine di ottenere il risarcimento domandato, il nesso di causalità tra l’evento dannoso (nella specie l’aggravamento della patologia) e l’azione o l’omissione dei sanitari, mentre, ove quindi il danneggiato abbia assolto a tale onere appena detto, spetta alla struttura dimostrare l’impossibilità della prestazione derivante da causa non imputabile, provando che l’inesatto adempimento è stato determinato da un impedimento imprevedibile ed inevitabile con l’ordinaria diligenza (ex art. 1218 c.c.) (vedi Cass. Civ., Sez. III, sentenza del 26 Luglio 2017, n. 18392).

In ordine al danno iatrogeno appare evidente che si pongono, innanzitutto, almeno due questioni legate all’accertamento del nesso eziologico ed alla (modalità di) quantificazione del danno ove fosse, appunto, richiesto esclusivamente in danno differenziale.

In particolare, è da notare che la lesione originaria alla salute di un soggetto, sulla quale poi si innesta il danno iatrogeno differenziale, può segnatamente dipendere i) o dal caso fortuito, da forza maggiore ovvero ancora dalla condotta di un terzo incolpevole, ii) oppure da una condotta umana colpevole ma di un terzo.

La responsabilità medica

Orbene, relativamente al primo dei problemi sopra detti, poi, è opportuno evidenziare innanzitutto come l’aggravamento della lesione preesistente avutosi per colpa del medico è, di norma, rappresentato dal consolidarsi di postumi che il danneggiato avrebbe altrimenti evitato o in quanto sarebbe guarito, ovvero perché sarebbe risanato sì con disturbi permanenti, ma di entità minore rispetto a quelli effettivamente consolidatisi. In quest’ottica si pone la questione se il medico che abbia causato l’aggravamento (o la mancata guarigione) debba rispondere dell’intero danno patito dal paziente, ovvero solo pro quota (ideale) del danno a lui teoricamente ascrivibile.

A caldo certamente sembrerebbe “giusto” concludere che l’operatore sanitario debba rispondere esclusivamente del danno direttamente riconducibile e causato dalle proprie azioni od omissioni relativamente al trattamento della patologia già tra l’altro esistente, non imputandogli l’intero danno finale subìto dal paziente, consistente nella combinazione tra la patologia originaria e l’ulteriore lesione della salute dipesa dalla condotta del sanitario. Tuttavia, già il legislatore prima e la giurisprudenza degli ermellini poi sembrano chiari e fornire un indirizzo ormai granitico, unanime e nel tempo conforme: il medico risponde del danno totale (quello ascrivibile alla lesione originaria, e quello imputabile all’aggravamento dovuto a sua colpa) sia nel caso in cui la lesione originaria sia dovuta a caso fortuito o forza maggiore, sia nel caso in cui sia dovuta a colpa di un terzo. Nel primo caso perché “qualora le condizioni ambientali o i fattori naturali che caratterizzano la realtà fisica su cui incide il comportamento dell’uomo siano sufficienti a determinare l’evento di danno indipendentemente dal comportamento medesimo, l’autore dell’azione o dell’omissione resta sollevato per intero da ogni responsabilità, non avendo posto in essere alcun antecedente dotato in concreto di efficienza causale.

Qualora, invece, quelle condizioni non possano dar luogo, senza l’apporto umano, all’evento di danno, l’autore del comportamento imputabile è responsabile per intero di tutte le conseguenze da esso scaturenti secondo normalità, atteso che in tal caso non può operarsi una riduzione proporzionale in ragione della minore gravità della sua colpa, in quanto una comparazione del grado di incidenza eziologica di più cause concorrenti può instaurarsi soltanto tra una pluralità di comportamenti umani colpevoli, ma non tra una causa umana imputabile ed una concausa naturale non imputabile” (Cass. civ., Sez. II, sentenza del 28-03-2007, n. 7577). Nel secondo caso, invece, il medico risponderà sempre e comunque in toto del danno finale perché l’art. 2055 c.c. considera, ai fini della solidarietà nel risarcimento stesso, l’unicità del fatto dannoso, non delle condotte che l’hanno originato. La disposizione, quindi, “riguarda la posizione di quello che subisce il danno ed in cui favore è stabilita la solidarietà. Pertanto l’unicità del fatto dannoso, richiesta dall’art. 2055 c.c., per l’affermazione della responsabilità solidale degli autori del fatto illecito, deve essere intesa in senso non assoluto, ma relativo al danneggiato. Ne deriva che la responsabilità solidale ricorre pur se il fatto dannoso sia derivato da più azioni od omissioni, dolose o colpose, costituenti fatti illeciti distinti ed anche autonomi e diversi, sempre che le singole azioni od omissioni abbiano concorso in maniera efficiente alla produzione del danno” (Cass., Sez. III, sentenza del 4 giugno 2001, n. 7507).

Spostandoci ora sul secondo dei problemi individuati – la modalità di quantificazione del danno nel caso in cui il creditore agisca non per l’intero bensì per il solo danno iatrogeno differenziale ovvero quando uno dei corresponsabili che abbia risarcito l’intero, agisca in regresso nei confronti degli altri coobbligati – è prassi di alcuni uffici giudiziari chiedere al C.T.U. quale sia il grado di invalidità permanente residuato al danneggiato, e quanta parte di esso sia stato causato dalla lesione originaria. Così, l’ausiliario è indotto a fornire al giudice due valutazioni percentuali: una per il danno originario, l’altra per il danno iatrogeno differenziale. Quantificate tali percentuali, si opera la differenza tra la percentuale di invalidità in cui attualmente versa il danneggiato e la percentuale di invalidità che sarebbe comunque residuata quale postumo operatorio così ottenendo la liquidazione del danno de quo.

In altre parole si procede al calcolo del danno semplicemente sottraendo dalla percentuale di invalidità permanente in concreto verificatasi a seguito dell’errore medico la percentuale che comunque si sarebbe venuta a determinare anche in assenza di malpractice dei sanitari ed associando il valore monetario derivante dall’applicazione delle tabelle alla risultante così ottenuta. Detta modalità di calcolo è da considerare errata, dovendo farsi invece riferimento alla modalità liquidatoria secondo il principio sancito dai Giudici di Piazza Cavour nella sentenza n. 6341/2014 secondo la quale “in tema di responsabilità medica, allorché un paziente, già affetto da una situazione di compromissione dell’integrità fisica, sia sottoposto ad un intervento che, per la sua cattiva esecuzione, determini un esito di compromissione ulteriore rispetto alla percentuale che sarebbe comunque residuata anche in caso di ottimale esecuzione dell’intervento stesso, ai fini della liquidazione del danno con il sistema tabellare, deve assumersi come percentuale di invalidità quella effettivamente risultante, alla quale va sottratto quanto monetariamente indicato in tabella per la percentuale di invalidità comunque ineliminabile, e perciò non riconducibile alla responsabilità del sanitario”.

In un caso recentemente risolto dalla Corte di Appello di Venezia (sentenza del 16 Ottobre 2017), il quadro clinico del creditore evidenziava un danno biologico permanente nella misura del 24%, mentre la percentuale di invalidità che sarebbe comunque residuata quand’anche la lesione fosse stata correttamente trattata – e quindi non riconducibile a malpractice medica – corrispondeva al 14%. Il paziente, quindi, ha subìto un incremento del 10% dello stato invalidante e un danno iatrogeno differenziale da ricomprendersi nella fascia dal 14% al 24%. Ebbene, ai fini della liquidazione con il sistema tabellare e alla luce del principio stabilito dalla Cassazione, l’ammontare del danno effettivamente riconducibile alla responsabilità dei sanitari, non deve farsi corrispondere al punto risultante dalla differenza tra le due percentuali – come tra l’altro proprio in quel caso disposto erroneamente dal giudice di prime cure (ovvero 24%-14%= 10%= cifra) – ma va stabilito operando la differenza tra il montante risarcitorio contemplato dalle sistema tabellare milanese per l’invalidità di cui è portatore il danneggiato e quello corrispondente all’invalidità ineliminabile e normalmente risultante dall’operazione chirurgica. Il calcolo corretto, in base alle tabelle milanesi del 2014, è il seguente: montante risarcitorio per l’attuale invalidità del 24%= Euro 103.921,00; montante risarcitorio per l’invalidità ineliminabile del 14%= Euro 40.575,00; risarcimento per danno iatrogeno differenziale = 103.921,00 – 40.575,00= Euro 63.346,00 a fronte di un risarcimento riconosciuto in primo grado di Euro 37.651,60. Appellante era inoltre lo stesso danneggiato.

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Dott. Cavaliere Armando

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