La responsabilità di gestione degli amministratori in caso di crisi aziendale

Gli amministratori hanno l’obbligo di agire con diligenza e correttezza per tutelare gli interessi della società e dei suoi creditori.

Elena Ceserani 07/10/25
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Gli amministratori hanno l’obbligo di agire con diligenza e correttezza per tutelare gli interessi della società e dei suoi creditori, rappresentando e gestendo attivamente l’impresa: hanno quindi l’obbligo di istituire un adeguato assetto organizzativo e contabile per rilevare tempestivamente i segnali di crisi, adottare azioni concrete e agire senza indugio per il suo superamento attraverso gli strumenti previsti dal Codice della crisi d’impresa e dell’insolvenza (CCII). Per approfondire l’argomento, abbiamo preparato i corsi “Corso abilitante e di aggiornamento per Gestore della crisi da sovraindebitamento” e Corso abilitante per Gestore della crisi d’impresa, Curatore, Commissario giudiziale, Liquidatore e Attestatore – VI edizione”

Indice

1. Adeguati assetti ed emersione della crisi


La violazione di tali obblighi – in particolare l’assenza di assetti adeguati o l’inerzia di fronte alla crisi – determina la responsabilità personale e solidale degli amministratori per i debiti della società nei confronti dei creditori. Tale responsabilità si estende anche al patrimonio personale degli amministratori ed include il risarcimento del danno derivante dalla mancata o tardiva gestione della crisi, indipendentemente dalla forma societaria adottata (s.r.l. o s.p.a.).
L’obbligo di istituire assetti adeguati riguarda tutti gli imprenditori e, soprattutto, implica il dovere di reagire in modo tempestivo e appropriato ai primi segnali di difficoltà, con l’obiettivo di preservare la continuità aziendale. Questo principio rappresenta uno degli assi portanti del nuovo CCII. Inoltre, durante l’utilizzo degli strumenti volti al superamento della crisi, la gestione dell’impresa deve orientarsi prioritariamente alla tutela degli interessi dei creditori.
Al manifestarsi della crisi, spetta esclusivamente agli amministratori – anche in contrasto con la volontà dei soci – la responsabilità di richiedere l’accesso a uno degli strumenti di regolazione della crisi e dell’insolvenza previsti dal CCII. A loro compete altresì la predisposizione e il contenuto del piano di ristrutturazione o di liquidazione, nonché la formulazione delle proposte da sottoporre ai creditori.

2. Responsabilità degli amministratori nella reazione alla crisi


Il Codice civile all’art. 2392 comma 2 prevede che “In ogni caso gli amministratori (…) sono solidalmente responsabili se, essendo a conoscenza di fatti pregiudizievoli, non hanno fatto quanto potevano per impedirne il compimento o eliminarne le conseguenze dannose”. Si tratta di una disposizione di portata ampia, generalmente riferita alle ipotesi in cui gli amministratori pongano in essere attività incompatibili con la situazione di scioglimento in cui la società si trovi, nella maggior parte dei casi determinata dalla perdita del capitale sociale.
Nel periodo dell’emergenza COVID-19 con i decreti conosciuti come Decreto Liquidità e Decreto Cura Italia venne prevista la sospensione della disciplina in tema di riduzione obbligatoria del capitale a copertura di perdite: lo scopo era quello di contenere il rischio di liquidazione delle imprese e il rischio che l’organo amministrativo fosse esposto a responsabilità per la gestione non conservativa.
Storicamente, anche prima dell’introduzione delle misure emergenziali, la responsabilità degli amministratori per una reazione tardiva o inadeguata alla crisi è stata raramente contestata, e ciò persino nei casi in cui la perdita del capitale sociale fosse già conclamata. Con la cessazione della normativa emergenziale e con la nuova impostazione del sistema dei doveri e delle responsabilità degli organi sociali, è tuttavia prevedibile un significativo aumento del contenzioso in materia: un primo segnale in questo senso proviene proprio dall’incremento delle azioni di responsabilità nei confronti degli amministratori di società finite in liquidazione giudiziale.
Il principio fondamentale è che, una volta che il passivo eccede l’attivo, il patrimonio sociale deve essere interamente destinato ai creditori. Ne deriva che, quando il valore del patrimonio netto risulta azzerato o addirittura negativo a causa delle perdite, gli ulteriori pregiudizi patrimoniali derivanti da operazioni di gestione poste in essere dagli amministratori in violazione di tale dovere, legittimano soci e creditori ad esercitare l’azione di responsabilità nei loro confronti.
Quando lo squilibrio patrimoniale è di gravità tale da rendere probabile l’emersione di uno stato di crisi ma la società è ancora in bonis (stato che si può definire di pre-crisi), l’organo amministrativo (nel cui potere di gestione rientra anche l’accesso alla composizione negoziata) è tenuto ad evitare scelte gestionali eccessivamente rischiose rispetto alle attuali condizioni dell’impresa. Restano tuttavia possibili iniziative strategiche che, coerentemente con le cause della difficoltà aziendale, siano idonee a ristabilire la continuità.
In questa prospettiva, per evitare responsabilità, gli amministratori devono presidiare tre profili fondamentali:

  • l’individuazione dei fattori di rischio che minacciano la continuità aziendale;
  • la definizione delle soluzioni idonee a ripristinare l’equilibrio economico-finanziario e a rimuovere tali fattori di rischio;
  • l’attuazione concreta ed efficace delle misure individuate.

Non è sufficiente, dunque, che l’amministratore si attivi prontamente: è necessario che assicuri la prosecuzione delle procedure intraprese con la rapidità e la coerenza richieste dalla gravità della situazione, fino al completo superamento della crisi.

3. Responsabilità solidale di sindaci e amministratori nelle società di capitali e nuova formulazione dell’art. 2407


La normativa stabilisce che, in determinate circostanze, i sindaci possano essere chiamati a rispondere insieme agli amministratori per i danni arrecati alla società. Ciò accade quando, pur non avendo causato direttamente il pregiudizio, i componenti del collegio sindacale non abbiano esercitato un’adeguata attività di vigilanza.
Non è sufficiente, infatti, che un amministratore ponga in essere un comportamento dannoso perché si configuri automaticamente la responsabilità dei sindaci: occorre poter dimostrare che, attraverso un controllo più diligente, il danno sarebbe stato evitabile o almeno contenuto. Questo è il principio della cosiddetta “responsabilità concorrente”, disciplinata dal secondo comma dell’art. 2407 c.c.
Va precisato che i sindaci non dispongono di poteri di gestione diretta, ma hanno l’obbligo di controllo e di segnalazione. Se tali doveri vengono disattesi e l’omissione risulta causalmente collegata al danno, la responsabilità si estende anche a loro, in forma solidale con chi ha materialmente commesso l’atto.
Nelle situazioni di crisi aziendale, la responsabilità dei sindaci assume un rilievo particolare qualora essi non adempiano alla funzione di “early warning”. In particolare, possono essere ritenuti responsabili se:

  • non vigilano sul corretto adempimento, da parte degli amministratori, del dovere di rilevare e affrontare tempestivamente la crisi;
  • non utilizzano gli strumenti a disposizione per evitare l’aggravarsi delle difficoltà, una gestione meno efficace della crisi o una ridotta tutela dei creditori e degli stessi soci.

In tali contesti, se i sindaci ritengono inadeguate le iniziative degli amministratori, possono ricorrere a diversi strumenti previsti dal diritto societario: convocare l’assemblea dei soci, impugnare le delibere consiliari, promuovere l’azione di responsabilità o ricorrere alla denuncia ex art. 2409 c.c. La loro responsabilità, pertanto, ha natura omissiva e discende dal mancato esercizio dei doveri di controllo, laddove il danno non si sarebbe verificato se tali obblighi fossero stati rispettati.
La recente modifica dell’art. 2407 c.c. ha suscitato grande attenzione, poiché mira a rendere più sostenibile e attrattivo il ruolo dei sindaci, evitando esposizioni patrimoniali eccessive in caso di colpa non grave. La riforma introduce un sistema di limitazione della responsabilità civile, ancorato a un multiplo del compenso percepito, e stabilisce un termine di prescrizione quinquennale.
Il tetto massimo al risarcimento dei danni in caso di violazione colposa dei doveri è così articolato: 

  • fino a 15 volte il compenso annuo per importi fino a 10.000 euro; 
  • 12 volte per compensi tra 10.000 e 50.000 euro; 
  • 10 volte per compensi superiori.

Con questa scelta, il legislatore ha inteso superare il principio di solidarietà tra sindaci e amministratori previsto dalla precedente disciplina: il nuovo art. 2407 c.c. non lo menziona più. Tuttavia, la norma non introduce espressamente una responsabilità parziale, ma si limita a fissare un tetto massimo proporzionato al compenso dei sindaci, precisando che essi “sono responsabili per i danni cagionati alla società, ai soci, ai creditori e ai terzi nei limiti di un multiplo del compenso annuo percepito”.
In conclusione, la riforma dell’art. 2407 c.c. rappresenta un ripensamento del sistema di controlli societari. Rimane però aperto il dibattito se la riduzione della soglia di responsabilità dei sindaci sia effettivamente coerente con i principi costituzionali e con la funzione riparatoria che la responsabilità civile è chiamata a garantire.

4. Continuità aziendale e interesse dei creditori nell’individuazione degli strumenti di superamento della crisi


Il tema degli strumenti volti al superamento della crisi e al recupero della continuità aziendale è stato posto al centro della legislazione già a partire dagli anni ’70, nella consapevolezza che l’impresa rappresenti un valore in sé. La liquidazione giudiziale (un tempo fallimento) comporta infatti la distruzione, talvolta rilevante, di tale valore. La regola sottesa – pur non espressamente formulata – è che le procedure finalizzate alla continuità aziendale debbano essere privilegiate rispetto a quelle di mera cessazione dell’attività.
Tale principio trova un preciso riscontro nell’art. 7, comma 2, CCII, secondo cui: “Nel caso di proposizione di più domande, il tribunale esamina in via prioritaria quella diretta a regolare la crisi o l’insolvenza con strumenti diversi dalla liquidazione giudiziale o dalla liquidazione controllata […]”. In questo passaggio normativo si coglie il mutamento di prospettiva: da un approccio inizialmente imperniato su un dovere negativo – ossia evitare l’aggravarsi della crisi – si è giunti a un dovere positivo di attivarsi concretamente per superare la crisi e, laddove possibile, preservare la continuità aziendale, in quanto fonte potenziale di ricchezza.
Il compito di avviare la regolazione concordata della crisi non spetta unicamente all’imprenditore. Anche altri soggetti hanno precisi obblighi di segnalazione, in particolare:

  • l’organo di controllo societario (collegio sindacale)
  • il soggetto incaricato della revisione legale
  • i creditori pubblici

Essi, come previsto dall’art. 25 CCII, devono segnalare al debitore “la sussistenza dei presupposti per la presentazione dell’istanza” di composizione negoziata oppure, se ne ricorrono le condizioni, invitarlo formalmente il debitore “alla presentazione dell’istanza”. Tali segnalazioni dell’organo di controllo, dei creditori pubblici qualificati e dei revisori, devono dunque riguardare la ricorrenza dei presupposti che giustifichino l’accesso alla composizione negoziata, ferma restando la possibilità che le trattative si concludano con l’adozione di uno degli strumenti previsti dal Codice della crisi o anche con “strumenti totalmente negoziali stragiudiziali”.
Spetta in ogni caso all’imprenditore scegliere con diligenza lo strumento più adatto alla propria situazione, tra quelli previsti dal Codice civile o dal CCII, valutando preliminarmente l’impossibilità di affrontare la crisi mediante un intervento di ricapitalizzazione da parte dei soci o di terzi nell’ipotesi in cui la crisi non possa essere affrontata senza nuove risorse finanziarie. Il legislatore non ha previsto una gerarchia tra gli strumenti disponibili: il debitore non è quindi tenuto a sperimentare dapprima quelli esclusivamente negoziali (accordi es art. 23, piani attestati, accordi di ristrutturazione, convenzioni di moratoria) e solo successivamente quelli con maggior coinvolgimento giudiziale (concordato preventivo, concordato semplificato, piano di ristrutturazione soggetto a omologazione). Tutti questi strumenti, infatti, consentono sia di perseguire sia il recupero della continuità aziendale, sia la tutela dell’interesse dei creditori.
Quest’ultimo, tuttavia, va inteso come prioritario ma non esclusivo. Ciò implica che il debitore debba considerare anche altri interessi, nell’ottica della corporate social responsibility. Tale approccio è coerente con l’art. 19 della Direttiva UE n. 1023/2019, che impone agli amministratori, in presenza di una probabilità di insolvenza, di tenere conto “come minimo”dei seguenti elementi:

  • gli interessi dei creditori, e dei detentori di strumenti di capitale e degli altri portatori di interessi;
  • la necessità di prendere misure per evitare l’insolvenza;
  • la necessità di evitare condotte che, deliberatamente o per grave negligenza, mettono in pericolo la sostenibilità economica dell’impresa.

5. Il rapporto tra la CNC e gli altri strumenti di gestione della crisi


Il Codice della crisi si fonda su due principi cardine: la priorità tendenziale della composizione negoziata, quale strumento che meglio garantisce la continuità aziendale, e la residualità della liquidazione giudiziale, pur potendo quest’ultima accompagnarsi all’esercizio provvisorio.
Se ricorrono i presupposti per l’accesso alla composizione negoziata e il debitore non vi ricorre, occorre fornire una motivazione ragionevole. Ciò anche perché soltanto attraverso la composizione negoziata si può accedere al concordato semplificato, strumento che si distingue profondamente dal concordato preventivo liquidatorio e risulta più favorevole, in quanto:

  • consente la liquidazione aggregata dei beni (e cioè la cessione dell’azienda);
  • non prevede la soglia minima del 20% di soddisfazione dei creditori chirografari richiesta dalla legge fallimentare, né quella rafforzata prevista dal Codice della crisi.

Il rapporto tra composizione negoziata e gli altri strumenti di gestione della crisi non è, dunque, di alternatività, ma di tendenziale consequenzialità. Ciò emerge sia dall’art. 2, lett. m-bis), CCII, secondo cui gli strumenti di regolazione della crisi e dell’insolvenza “possono essere preceduti dalla composizione negoziata”, sia dall’art. 18, comma 4, CCII, che vieta al tribunale di pronunciare la sentenza di apertura della liquidazione giudiziale o di accertamento dello stato di insolvenza fino alla conclusione delle trattative avviate in sede di composizione negoziata, salvo revoca delle misure protettive o mancata omologazione del concordato semplificato.
Ne consegue che la soluzione liquidatoria deve essere perseguita dall’imprenditore solo quando ogni altra alternativa risulti impraticabile, lesiva per i creditori o infruttuosa.
Nella fase in cui la società si trova in stato di crisi o di insolvenza reversibile – ossia prima della scelta definitiva dello strumento di regolazione – le decisioni dell’organo amministrativo devono essere rivolte:

  • alla conservazione dell’integrità del patrimonio sociale, destinato prioritariamente ai creditori e, in via subordinata, ai soci;
  • al superamento della crisi e al ripristino della continuità aziendale, laddove ciò risulti ragionevolmente possibile.

La scelta dello strumento più adeguato dipende da diversi fattori, tra cui:

  • la tipologia di intervento di ristrutturazione ritenuto idoneo al risanamento dell’impresa;
  • la tipologia dei creditori, la cui valutazione è necessaria all’individuazione della tecnica di gestione della crisi che più si adatta alla effettiva situazione debitoria dell’impresa;
  • la struttura dell’attivo patrimoniale e la sua liquidabilità;
  • il grado di protezione che lo strumento è in grado di offrire.

Quanto ai creditori, è ben diversa la posizione di un’impresa fortemente esposta verso gli istituti di credito rispetto a quella che deve confrontarsi con una pluralità di piccoli creditori, generalmente meno inclini ad accettare soluzioni di ristrutturazione. Rilevante è anche la natura del debito: privilegiato, ipotecario, fiscale (in quanto non tutti gli strumenti consentono la transazione tributaria), verso i lavoratori o assistito da garanzie personali, come fideiussioni.
Con riferimento all’attivo, muta la prospettiva tra chi dispone di beni facilmente liquidabili e chi, al contrario, possiede asset non prontamente cedibili. È decisivo valutare se sia possibile procedere alla liquidazione, totale o parziale, oppure se risulti necessario continuare a utilizzare i beni nell’ottica di una prosecuzione, diretta o indiretta, dell’attività.
Infine, un ruolo centrale è ricoperto dalla possibilità di accedere alle misure protettive del patrimonio, della possibilità di richiedere l’adozione di provvedimenti cautelari, della sospensione degli obblighi di ricapitalizzazione di cui agli artt. 2446 e 2447 c.c. e delle relative cause di scioglimento, dell’attivazione delle misure premiali di carattere tributario, dell’esenzione da revocatoria e da responsabilità penale in caso di successiva apertura della liquidazione giudiziale.

6. Le fasi della vita dell’impresa e la diversa responsabilità dell’amministratore


Le fasi di vita in cui una impresa può trovarsi possono essere così identificate:

  • normalità
  • crisi reversibile
  • insolvenza o crisi irreversibile

Per quanto riguarda la fase di normalità tra i doveri giuridici derivanti da vere e proprie regole di diritto c’è quello, di primaria importanza, di curare l’assetto organizzativo, amministrativo e contabile della società in modo adeguato alla natura ed alla dimensione dell’impresa (i cosiddetti adeguati assetti).
Quando l’impresa entra in uno stato di crisi, l’art. 2086 del Codice civile stabilisce che l’imprenditore debba “attivarsi senza indugio per l’adozione e l’attuazione di uno degli strumenti previsti dall’ordinamento per il superamento della crisi e il recupero della continuità aziendale”. Se gli amministratori non hanno adottato misure per evitare l’aggravamento dello stato di crisi, sicuramente incorrono in responsabilità (quantomeno) civile. L’imprenditore deve quindi passare da uno standard di diligenza parametrato al massimo profitto, alla diligenza richiesta in una situazione in cui deve agire per conservare, nell’interesse prioritario dei creditori e dei soci, l’integrità ed il valore del patrimonio sociale.
La valutazione della irreversibilità dello stato di insolvenza è particolarmente delicata e responsabilizzante per l’imprenditore e i suoi consulenti. Se emerge l’assenza di concrete prospettive di risanamento, può risultare opportuna o addirittura doverosa un’istanza di liquidazione giudiziale in proprio. Infatti, mantenere artificialmente in vita un’impresa priva di serie prospettive di risanamento aggraverebbe il dissesto, con conseguente danno per i creditori.
Da questo quadro discendono due principali ipotesi di responsabilità dell’amministratore:

  • mancato rilievo della crisi: quando l’amministratore, per difetto di adeguati assetti organizzativi, non ha colto l’insorgere o l’aggravarsi della crisi, arrecando danno ai creditori.
  • ritardo nella reazione: quando, pur avendo assetti idonei, l’amministratore non ha utilizzato correttamente gli strumenti di monitoraggio a disposizione, o ha ignorato/trascurato i segnali di difficoltà.

Poiché il debitore è tenuto ad assumere tempestivamente le iniziative idonee alla rapida definizione delle procedure (art. 4, comma 2, lett. b), CCII), non può escludersi la responsabilità dell’imprenditore che abbia impedito il rapido svolgimento delle procedure intraprese. Il legislatore specifica che la durata delle procedure non deve essere lunga anche per non pregiudicare i diritti dei creditori: l’interesse di questi ultimi alla tempestiva risoluzione della situazione di crisi o d’insolvenza torna ad essere il parametro principale al quale va misurata la correttezza del comportamento del debitore
È responsabile anche il debitore che artificiosamente abbia avviato un percorso alternativo al solo fine di ritardare la liquidazione giudiziale, così aggravando il dissesto.
All’amministratore, poiché la proposta di ristrutturazione deve contenere una “soluzione adeguata per il superamento delle condizioni di cui all’articolo 12, comma 1…”, possono essere imputati anche l’inadeguatezza dello strumento prescelto, se tale inadeguatezza poteva essere valutata al momento della scelta, o l’errorenell’opzione della procedura concorsuale, quando  questo errore abbia portato alla dichiarazione di inammissibilità o di revoca o di non omologazione dell’accordo o del concordato.

7. Conclusione


Riassumendo può essere contestata la responsabilità dell’amministratore che:

  • non abbia curato l’assetto organizzativo, amministrativo e contabile della società in modo adeguato alla natura ed alla dimensione dell’impresa;
  • abbia causato o tardivamente rilevato la perdita della continuità aziendale;
  • non abbia elaborato tempestivamente un idoneo piano di risanamento, adottando misure per evitare l’aggravamento dello stato di crisi;
  • abbia avviato un percorso alternativo al solo fine di ritardare la liquidazione giudiziale, aggravandone il dissesto;
  • abbia scelto uno strumento di risoluzione della crisi inadeguato, se tale inadeguatezza poteva essere valutata al momento della scelta;
  • abbia portato la società verso la liquidazione giudiziale senza aver intrapreso un possibile percorso di regolazione concordata della crisi di impresa quando ve ne sarebbero state invece le condizioni e si possa dimostrare che ciò avrebbe meglio salvaguardato i valori del patrimonio sociale, la continuità aziendale e l’interesse dei creditori;
  • abbia attuato operazioni di grave imprudenza per ritardare l’apertura della liquidazione giudiziale;
  • per il cattivo esito di domande di concordato preventivo o di omologazione di accordi di ristrutturazione o di piani attestati se ciò sia dipeso dalla scorretta tenuta delle scritture contabili, da altri fatti derivanti da cattiva organizzazione dell’impresa o da altre illegittimità dolose o colpose del debitore;
  • abbia avviato e coltivato il “percorso” della composizione negoziata nonostante il difetto di ragionevoli prospettive di risanamento.

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Elena Ceserani

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