Recensione a: Per un’analisi giuridico-istituzionale del fenomeno amministrativo in Italia: ‘La pubblica amministrazione’ di M. Cammelli.

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1. La Pubblica Amministrazione italiana: un fenomeno dai complessi tratti definitori. 2. L’esperienza amministrativa italiana in prospettiva storico-giuridica: “forte” volontà e “debole” realtà quali regolarità istituzionali. 3. La “stagione delle riforme”: la difficile transizione dal “Government” alla “Governance”.
 
1. La Pubblica Amministrazione italiana: un fenomeno dai complessi tratti definitori.
Molte delle nostre azioni quotidiane avvengono, in modo consapevole od inconsapevole, in un ambiente organizzato dalla Pubblica Amministrazione (d’ora in avanti: “P.A.”), che regola e dà sicurezza ai comportamenti dei cittadini in un rapporto di diritti e doveri. E’ una realtà molto estesa, dalla trama complessa ed articolata, che l’Autore del volume, il Prof. M. Cammelli[1], si propone di dipanare mettendone in luce una sorta di doppia natura: cosa la P.A. sia, come potere fra i poteri a garanzia degli interessi pubblici, e cosa la P.A. ponga in essere, come funzioni e compiti svolti. A partire dalla sua genesi, strettamente connessa alla nascita dello Stato moderno, il contributo propone un percorso puntuale dell’esperienza italiana, dall’Unità sino ai mutamenti degli ultimi cinquanta anni. La parte finale, dedicata alle importanti riforme amministrative ed istituzionali dell’ultimo decennio, aiuta il lettore a comprendere per quali ordini di motivazioni il vecchio modello amministrativo sia andato in crisi e come si vada ridisegnando, anche attraverso l’integrazione con il sistema comunitario, un nuovo sistema (amministrativo) caratterizzato da dimensioni più contenute, da un diverso rapporto tra politica ed apparati e da un forte ridimensionamento dell’amministrazione statale a favore di competenze del governo locale.
Il lavoro del Cammelli, “LA PUBBLICA AMMINISTRAZIONE” (Bologna 2004, pp. 134, Collana “Farsi un’idea”[2], n. 104, € 8,00), in estrema sintesi, si propone di descrivere, giuridicamente e problematicamente, la P.A. italiana nei suoi profili strutturali e funzionali, in un’ottica anche storico-istituzionale e con un’attenzione particolare alle più recenti modificazioni normative intervenute.
Il contributo, nello specifico, è strutturato in cinque capitoli, una Conclusione ed una Nota bibliografica ragionata (“Per saperne di più”, pp. 130-134, dal pregevole e particolareggiato contenuto di riferimento). Il primo capitolo (“Che cos’è la pubblica amministrazione”, pp. 7-16) fornisce preziosi dati concettuali descrittivi sulla P.A. italiana. Nel dettaglio, vengono analizzate le seguenti macrocategorie: “Amministrazione statale”[3]; “Governo locale”[4]; “Amministrazione per enti”[5] (“nell’insieme di queste tre aree nel 2001 lavoravano a tempo pieno quasi tre milioni e mezzo di persone… vale a dire più del 15% del totale degli occupati nel nostro paese, mentre la spesa (sia corrente che in conto capitale) delle pubbliche amministrazioni … ha raggiunto … il 48% del PIL … tutto sembra confermare, dunque, l’immagine più radicata e diffusa di una nostra P.A. mastodontica e sovradimensionata”: p. 11). Conclude la partizione una ricerca, operativa, di una fruibile definizione di P.A., rinvenuta in un modello “a geometria variabile”: “… In breve, in termini di diritto positivo, possiamo dire che la nozione di P.A. può essere rappresentata con tre cerchi concentrici: il più ristretto corrisponde ad apparati pubblici che esercitano funzioni disciplinate dal diritto amministrativo perché di natura autoritativa; il secondo, di dimensioni crescenti, che vede l’amministrazione operare in forme pubblicistiche ma di natura negoziale (accordi, intese), o addirittura con veste giuridica privatistica (come la società di capitali); il terzo, il più esterno, formato da soggetti privati che svolgono funzioni pubbliche o che si avvalgono di risorse e beni pubblici. Una base minima di principi, come la funzionalizzazione all’interesse pubblico, la trasparenza e la tutela degli utenti, il buon andamento, è comune a tutti: ma solo nel cerchio più stretto valgono anche ‘tutti’ gli altri principi, come la legalità intesa come tassatività dei poteri, il dovere di motivazione, e così via” (pp. 14-15). Il secondo capitolo (“All’origine della P.A. e dei suoi modelli”, pp. 17-45) esamina analiticamente la P.A. come “potere”[6] (evidenziando le peculiarità e le differenze fra “sistemi a diritto amministrativo”[7] e “sistemi a common law”[8]) e la P.A. come “funzione”[9] (dall’analisi dell’espansione quantitativo-qualitativa della P.A.[10] ai riflessi istituzionali di tali avvenimenti[11]). Il terzo capitolo (“L’esperienza italiana: modelli forti e pratiche deboli”, pp. 46-72) focalizza l’attenzione sulle specificità della storia istituzionale italiana, ponendo a confronto volontà e modellistiche amministrative “forti” con soluzioni e pratiche operative “deboli” e di compromesso, il tutto attraverso un’impostazione problematica delle principali vicende che hanno caratterizzato, sino agli ultimi vent’anni, la storia della nostra A.P. Il quarto capitolo (“Verso un nuovo statuto della P.A.”, pp. 73-86) esamina, anche sotto il profilo motivazionale (individuando tre macroaree esplicative, così titolate: a) “crisi del vecchio modello[12]; b) “vincoli internazionali e comunitari”[13]; c) “dinamiche interne”[14]), i più recenti e profondi cambiamenti, in primo luogo costituzionali, intervenuti nella P.A.[15] Il quinto capitolo (“La stagione delle riforme: gli anni ‘90”, pp. 87-126) completa partitamente l’analisi delle riforme intervenute negli ultimi quindici anni[16] sino a giungere alla tematica del c.d. “federalismo”[17]. La Conclusione (“Uno sguardo d’insieme”, pp. 127-129) prende atto dei più recenti mutamenti[18] e cerca di fornire delle provvisorie considerazioni – finali – sul fenomeno amministrativo italiano[19]: “… Quello che conta è che è possibile confermare il ruolo determinante della P.A. solo facendo luce sui punti chiave investiti dalle trasformazioni di cui si è detto. Altrimenti il sistema amministrativo abbandona i vecchi ancoraggi senza raggiungere i nuovi, e rischia di perdersi in un intreccio di frammentazione organizzativa e di discrezionalità funzionale che mettono a repentaglio, nello stesso tempo, l’assolvimento dei compiti assegnati e, con la legalità, la legittimazione a svolgerli. Una prova ulteriore che la P.A. è importante, molto importante. E una buona ragione, ciò che rappresentava l’intento di queste pagine, per farsene un’idea e cercare di sapere di più” (p. 129).
 
2. L’esperienza amministrativa italiana in prospettiva storico-giuridica: “forte” volontà e “debole” realtà quali regolarità istituzionali.
Di particolare interesse risultano le pagine dedicate all’analisi, condotta con una prospettiva storico-istituzionale, dell’evoluzione esperienziale amministrativa italiana. Infatti, esse pongono nel dovuto rilievo le forze di resistenza, profonde e di lunga durata, all’innovazione della P.A.: “Il sistema amministrativo cui si ispirò, subito dopo il 1860-1861, il nostro paese fu quello di forte centralizzazione derivante dal modello napoleonico. Si chiuse così sul nascere il dibattito sul se, quanto e come fosse possibile una soluzione decentrata o più autonomistica o addirittura federalistica …” (p. 46).
In realtà, secondo l’Autore, ad un esame non frettoloso della materia, non era l’opzione autonomistica che avrebbe dovuto essere giustificata, ma quella opposta, la soluzione centralistica, che in termini strettamente amministrativi e funzionali sarebbe stata largamente sconsigliabile per l’eterogeneità delle condizioni socio-economiche dei regni preunitari (di cui quello piemontese, ed il recensore conviene senza esitazione con il Cammelli, “non era certo il più significativo né il più avanzato”) e per il radicamento di forme istituzionali altamente differenziate. Inoltre, oltretutto, la periferia italiana non era la “desertica provincia francese” ma una fitta rete di centri comunali medi o medio-grandi, ricchi di vitalità e tradizione, dal nord al sud. La ragione della scelta fu, ed in questo risulta notoriamente concorde la Dottrina istituzionale italiana contemporanea, tutta politica, nel senso che l’unità amministrativa divenne immediatamente un elemento fondamentale imprescindibile per la difesa ed il sostegno della fragile unità politica avventurosamente acquisita: “… In queste condizioni, nelle quali il primo obiettivo non poteva che essere la sopravvivenza, l’unità dell’amministrazione e la sua rigida centralizzazione furono concepite come uno strumento determinante per consolidare il nuovo ordinamento, dato che concentrando le leve al centro era possibile dare il massimo peso alla nuova (e limitata) classe dirigente e nello stesso tempo evitare temuti (e possibili) recuperi delle vecchie elite emarginate, ma ancora ben presenti, nelle diverse ‘periferie’ … Nasce da questo l’anomalia di un modello centralistico, ma a centro debole, che ha segnato fino ai nostri giorni l’esperienza italiana” (pp. 47-48). Il modello prescelto si ispirava, quindi, alla versione forte unità amministrativa, recependone, almeno formalmente, la strumentazione più incisiva, quale: a) il modello ministeriale[20]; b) il sistema prefettizio[21]; c) i controlli preventivi e successivi, di legittimità e di merito[22]; d) garanzie giurisdizionali fortemente limitate in sede di giurisdizione ordinaria ed attribuite ad una giurisdizione speciale[23]. Un modello di unità amministrativa così organico e compatto – quale si è appena visto – difficilmente avrebbe potuto reggere, secondo il Cammelli, in un contesto radicalmente diverso da quello originario, tanto da esserne rapidamente deformato e da condurre ad un’esperienza amministrativa del tutto peculiare. Molteplici fattori, di varia natura, contribuirono all’inversione del modello. In primo luogo si può annoverare “la debolezza parlamentare in tema di P.A.”, poiché le più importanti scelte istituzionali furono perlopiù compiute dal Governo e non dal Parlamento, che si atteggiò a mero soggetto ratificante quanto precedentemente ed altrove stabilito[24]. In secondo luogo, “il centralismo senza centro”, ovvero l’istituzionale fragilità della Presidenza del Consiglio e del Prefetto nei confronti delle più importanti forze politiche centrali e locali[25]. Aggiungasi “l’uniformità in astratto e la specialità in concreto” (ovvero le deroghe alle discipline secondo logiche settoriali o geografiche: si pensi, ad esempio, alle varie norme e strutture speciali per il Mezzogiorno)[26]. In quarto luogo, “la rivincita della periferia”, ovvero la netta prevalenza del circuito politico-istituzionale su quello amministrativo (con la figura di un Prefetto “debole” perchè spesso superato dalle relazioni dirette Ministeri – Uffici periferici e perché più politico che amministratore)[27]. In ultimo luogo “la tutela parziale del cittadino”, con l’istituzione, dal 1889 (IV Sezione del Consiglio di Stato, ed attribuzione di funzioni giurisdizionali di primo grado, in alcune materie riguardanti il rapporto di pubblico impiego, alla Giunta Provinciale Amministrativa) della giurisdizione speciale amministrativa, che disarticolò l’unicità giurisdizionale ordinaria[28].
La storia amministrativa italiana è proseguita, secondo l’Autore, con modeste modificazioni, su questa ricordata ed apparentemente contraddittoria linea o regolarità di sviluppo: con Giolitti si ebbe il c.d. “decollo amministrativo”, ovvero l’inizio dell’espansione quantitativa della P.A.[29]; la prima guerra mondiale ed il fascismo confermano la continuità organizzativa ed ordinamentale statuale, con modeste innovazioni sotto il profilo della P.A. sia centrale che locale (razionalizzazione delle multiformi discipline di settore) e degli enti pubblici (espansione della c.d. “amministrazione parallela”)[30]. Neppure il periodo di transizione costituzionale (con la riconferma del modello ministeriale) ed i primi decenni della Repubblica (con la c.d. “fuga dai ministeri”), sino alla prima e seconda regionalizzazione (anni ’70 e ’80) apportarono significative e controtendenziali novità[31], che si invece, secondo il Cammelli, hanno caratterizzato la fase più recente della nostra storia amministrativa, gli anni ’90 cioè, ovvero la “stagione delle riforme”.
 
3. La “stagione delle riforme”: la difficile transizione dal “Government” alla “Governance”.
La lettura del presente contributo desta indubbiamente l’attenzione, in un continuo raffronto fra “vecchia” e “nuova” disciplina, sulle riforme avvenute nella P.A. in quest’ultimo ventennio: in particolare, pur essendo incidentalmente considerati anche i profili attinenti al personale ed alle procedure, sulle novità in materia organizzativo-strutturale e funzionale. Ed è proprio in questa riflessione che si ritiene che sia da rinvenire la preziosità del lavoro qui recensito. L’Autore conduce il lettore, con opportuna dovizia di particolari, precipuamente giuridici, attraverso un percorso significativamente descrittivo e problematico: partendo dalla tradizionale impostazione amministrativa napoleonico-weberiana, cioè dirigistica, ovvero di “Government”, si giunge agli anni odierni, con la rappresentazione di una realtà in profonda trasformazione, dove “Public Management” e “Public Governance” ormai si affacciano, nel contesto italiano, prepotentemente[32]. Il tutto, sino ad arrivare alla configurazione di un modello istituzionale nuovo, né “forte”“debole”, ma “a rete” orizzontale e verticale, con relazioni fra gli snodi a somma positiva, volendo utilizzare una terminologia tratta dalla “teoria dei giochi”[33].
E proprio con riferimento a quest’ultimo tema della governance e delle reti inter ed infra organizzative, l’Autore propone di valutare, con deferenza scientifica, due direttrici d’innovazione, individuate nel “centro non statale” o “nuovo centro” delle Sedi di cooperazione tra livelli istituzionali[34] e delle Autorità indipendenti[35]: “Gli anni di fine secolo hanno profondamente inciso anche sul centro con effetto di portata enorme rispetto alla nostra tradizione amministrativa: la fine della necessaria corrispondenza tra la nozione di ‘centro’ e quella di ‘Stato’. Se per lungo tempo (il XIX secolo) ‘Stato’ era sinonimo di ‘pubblico’, e se (nel corso del XX secolo) con l’affermarsi del pluralismo istituzionale e amministrativo la nozione di ‘Stato’ aveva perduto l’equivalenza con ‘pubblico’ ma aveva mantenuto quella di ‘centro’ fino a diventarne l’equivalente, negli anni ’90 cade anche quest’ultima correlazione: il centro è costituito, in misura crescente e per elementi che rappresentano snodi cruciali del sistema, da sedi istituzionali e amministrative in nessun modo riferibili all’amministrazione dello Stato”[36] (pp. 112-113).
Il contributo si palesa, allora, in termini conclusivi, quale interessante analisi sull’argomento P.A., di taglio non solo giuridico ma anche storico-istituzionale, idoneo ad essere ben ricompreso nell’ampio settore degli elaborati scientifici di Scienza dell’Amministrazione.
La lettura del lavoro del Cammelli, anche per pregevolezza di sintesi, si presta ad essere fruito non solo dal tradizionale pubblico universitario (studenti, ricercatori e docenti in discipline aventi ad oggetto la conoscenza della P.A. italiana), ma anche da coloro che per ragioni lavorative o di aggiornamento (ad esempio, pubblici funzionari o politici) necessitano di rinvenire un agile ma scientificamente strutturato contributo in argomento.
 
 
Marco Rondanini
                 
Le opinioni espresse nel presente scritto sono da ricondursi unicamente all’autore dello stesso, restando impregiudicate le posizioni delle Istituzioni formative e/o lavorative di riferimento (Università Cattolica ed Agenzia delle Entrate). Eventuali errori grammaticali o sintattici, non evidenziati in sede di rilettura, sono anch’essi da attribuirsi all’autore. Il presente scritto è stato sottoposto, preventivamente, al sommario esame del Tutor universitario dottorale Prof. M. Scazzoso, che si ringrazia per le osservazioni critiche formulate in argomento.
 
 


[1] “Insegna diritto amministrativo nell’Università di Bologna. Tra le sue recenti pubblicazioni … ‘La nuova disciplina dei beni culturali ed ambientali’ (a cura di, 2000) e, C. Barbati e G. Sciullo, ‘Il diritto dei beni culturali’ (a cura di, 2003)” (dalla retrocopertina, breve profilo dell’Autore, Marco CAMMELLI).
[2] “E’ una collana che aiuta il lettore ad orientarsi nella selva di stimoli, notizie e sollecitazioni cui è quotidianamente sottoposto. Per leggere il giornale, ascoltare la radio, guardare la Tv in maniera meno passiva, per interpretare i fatti in modo più consapevole” (dalla retrocopertina).
[3] “… il cui elemento principale e tradizionale è costituito da ministeri, vale a dire da insiemi di apparati organizzati in forma piramidale affidati ad un titolare di estrazione politica (ministro) che operano stabilmente su distinte macroaree materiali o funzionali. Dopo la riforma del 1999 (d. lgs. n. 300 del 30 luglio) e le modifiche introdotte dal nuovo Governo (Berlusconi II) … L. n. 317 del 3 agosto 2001), i ministeri sono quattordici: … A fianco di alcuni ministeri operano, con funzioni tecnico-operative, le agenzie, cui sono decentrati compiti tecnici prima affidati al ministero e che ora si è ritenuto più utile affidare a tali strutture caratterizzate da una particolare specializzazione e da condizioni di autonomia gestionale. L’esempio più importante è rappresentato dalle agenzie fiscali … [la Presidenza del Consiglio] fa parte dell’organizzazione statale, ma con ovvie peculiarità legate al particolare ruolo istituzionale svolto … che la pone al di fuori del modello ministeriale e che solo di recente è stata oggetto di una disciplina organica (d. lgs. n. 303 del 30 luglio 1999)” (pp. 8-9).
[4] “Con questa espressione si comprende l’intera area delle autonomie territoriali, tradizionalmente così definite perché il territorio ne è l’elemento costitutivo e necessario, vale a dire le Regioni, le Province, i Comuni nonché le città metropolitane … In ogni caso, si tratta di 20 regioni, 106 Province … e più di 8.100 Comuni, mentre non c’è ancora nessuna città metropolitana … Questi enti godono di una particolare autonomia che negli ultimi decenni è andata rafforzandosi, tanto da godere di un apposito statuto costituzionale che, con la riforma del 2001, li ha equiparati allo Stato per rilievo e garanzie. Ciò non toglie che la loro natura sia essenzialmente amministrativa, e che dunque vadano annoverati all’interno della P.A. della quale sono anzi destinati a costituire la parte più ampia.” (p. 10).
[5] “… cioè da organismi che si occupano di specifici compiti e che per questo hanno una certa autonomia, organizzativa e funzionale Tradizionalmente gli enti si dividono in nazionali … e locali …, in base all’estensione territoriale della propria attività. Si è detto arcipelago perché si tratta di una categoria sostanzialmente residuale rispetto a quelle precedenti, caratterizzata, fra l’altro, da una forte eterogeneità. Alcuni enti (c.d. strumentali) nascono infatti per distacco dai ministeri(come si è visto per le agenzie) o dagli enti territoriali (come le 297 aziende sanitarie …), e fanno stretto riferimento alla volontà di questi ultimi. Altri enti (c.d. associativi) sono il risultato di forme spontanee di organizzazioni collettive che erano di natura privata all’origine e solo successivamente sono state pubblicizzate per il loro rilievo … Ancora, alcuni sono espressione di consolidate autonomie (funzionali) … altri enti sono invece poco più di semplici uffici comunque dipendenti dall’ente di riferimento. Si tratta di qualche migliaio di enti pubblici …” (pp. 10-11).
[6] “Se per amministrazione intendiamo il complesso di attività e di soggetti cui è affidato il ruolo di esercitare i compiti di interesse pubblico … non c’è dubbio che qualunque forma politica la società si sia data nel corso del tempo, essa ha sempre conosciuto un’amministrazione e le corrispondenti attività … Quando però parliamo di PA in senso attuale, ci riferiamo ad una vicenda più specifica e ravvicinata, che prende l’avvio con la nascita dello Stato moderno, caratterizzato dalla formazione di propri apparati amministrativi e di burocrazie professionali. Nel XVI secolo la formazione dei grandi stati nazionali dell’Europa, Francia, Inghilterra, Spagna e Austria in particolare, è il risultato di un’aspra lotta condotta dai rispettivi sovrani, alleati con le nuove elite locali (borghesie cittadine), nei confronti della frammentazione tipica dell’ordinamento feudale e basata su di un processo di progressiva centralizzazione del potere del quale elemento determinante è proprio l’istituzione di primi corpi stabili, formati da personale che opera con continuità e risponde direttamente alla Corona, destinati all’esercito e all’esazione delle imposte … restano ancora oggi identici apparati e compiti che sono espressione delle funzioni di ‘puissance’ ed anzi costituiscono il nocciolo duro del potere pubblico” (pp. 17-18). L’Autore conclude, significativamente, evidenziando due aspetti di grande importanza diacronica: “Il primo è che la storia moderna della PA è intrecciata a doppio filo con l’affermarsi di una nuova forma di potere pubblico e politico, quello del nuovo stato nazionale … Il secondo elemento consiste nel fatto che già alla nascita dell’amministrazione moderna troviamo funzioni, come quella fiscale e militare, che sono strettamente legate all’esercizio dell’autorità, mentre altre attengono allo svolgimento di attività di supporto o alla produzione di veri e propri beni o servizi. Naturalmente l’intreccio tra le due componenti, che poi si qualificheranno ‘amministrazione di regolazione’ – ‘amministrazione di prestazione o erogazione’, varia nel tempo e nello spazio, tanto che oggi il rapporto si è rovesciato a vantaggio della seconda” (p. 19).
[7] L’Autore esamina, con approccio problematico, il passaggio, in Europa, dallo Stato Assoluto allo Stato di Diritto, evidenziando i profili istituzionali di continuità e di discontinuità: “… Naturalmente anche la PA è investita dalle trasformazioni dello Stato costituzionale. La sua base di legittimazione non è più l’aderenza alla volontà dell’antico sovrano ma la scrupolosa osservanza del nuovo, la legge, che disciplina le modalità di azione della PA e costituisce il fondamento necessario dei poteri e delle prerogative che le sono affidate … Ma insieme la nuovo c’è anche un forte sapore di antico … Soprattutto, sia pure con mutate premesse, la PA mantiene il tradizionale stato di superiorità e di autorità nei confronti del cittadino, la cui posizione di fronte all’esercizio (purché legittimo) del potere amministrativo è e resta non paritaria, anzi di vera e propria soggezione … Espressione vistosa di questa ambivalenza è il diritto amministrativo: per un verso, certo, diritto dell’amministrazione e in quanto tale strumento della sua sottoposizione alla legge, ma per altro verso disciplina ‘speciale’, separata dal diritto comune che regge le relazioni fra tutti gli altri soggetti, connotata da propri principi, regole, giudici. Un regime speciale, insomma, sospeso tra il tradizionale privilegio dell’autorità in quanto tale e la nuova giustificazione dell’essere al servizio degli interessi pubblici prescelti dal legislatore” (pp. 20-23).
[8] In tali contesti, secondo l’Autore, che si richiama a studi del D’Alberti, è possibile evidenziare gli elementi distintivi del forte ridimensionamento del potere amministrativo (“… operato in virtù dei principi della ‘supremacy of law’, vale a dire l’esclusione di poteri discrezionali troppo estesi in capo all’amministrazione e, del ‘rule of law’, cioè della sottoposizione di ogni persona, indipendentemente dal proprio stato sociale, alla legge e alla giurisdizione ordinaria, e dunque ‘ad un unico diritto e ad un unico giudice, che vale tanto per i soggetti privati che per le autorità pubbliche’”, p. 24) e di Parlamenti legiferanti ed amministranti (“… consiste nell’intestare direttamente al Parlamento il compito di legiferare ed amministrare insieme, con il risultato che già nel Settecento le leggi inglesi erano una congerie di ‘provvedimenti assai particolari, contenenti disposizioni di dettaglio relativi a fatti o situazioni specifiche’ , p. 24): “Per il resto ci si attiene alla più stretta osservanza del principio di legalità, anche quando la necessità di garantire la soddisfazione di finalità pubbliche porterà … ad affidare con legge tali compiti a compagnie o soggetti privati operanti con il diritto comune” (p. 24).
[9] “… Si tratta del profilo più evidente ancorché spesso trascurato (Massimo Severo Giannini non ha mai cessato di ricordarci che prima vengono i compiti assegnati, poi le attività da porre in essere e, infine, e solo da ultimo, l’organizzazione) … Se si prescinde dalle funzioni c.d. d’ordine quelle cioè corrispondenti al nucleo tradizionale dei compiti statali e relative amministrazioni (difesa, affari esteri, giustizia, finanze, sicurezza e ordine pubblico), in qualche modo costanti e comunque presenti in ogni fase dell’evoluzione delle forme di stato, per gli altri macrosettori d’intervento, corrispondenti allo sviluppo economico, ai servizi alla persona e alla comunità (servizi sociali in senso lato), nonché agli interventi legati al territorio (lavori pubblici, trasporti, politiche territoriali ed urbanistiche, ambiente), non c’è dubbio che gli ultimi due secoli abbiano registrato ovunque una prodigiosa espansione delle attività affidate alle amministrazioni pubbliche … In breve, a parità di interessi da soddisfare, … la quota di attività addossata all’amministrazione è inversamente proporzionale (anche) al grado di sviluppo della società circostante, e alla conseguente possibilità che quest’ultima ne assuma direttamente l’intera responsabilità (sussidiarietà orizzontale) o la semplice gestione (esternalizzazione). Dunque, più una società è evoluta, più in linea di principio è limitato, o almeno meno necessario, l’intervento diretto e operativo della PA.” (pp. 30-31).
[10] Secondo l’Autore, le ragioni principali della crescita delle Amministrazioni Pubbliche sono da ricondursi a due processi maturati nel XX secolo e tra loro connessi: l’interventismo statale nelle attività economiche (“In ogni caso, il principio del laissez-faire viene profondamente ed esplicitamente rivisto dopo la depressione seguita alla grande crisi avviata nel 1929 dal crollo di Wall Street, perché da quel momento e fin quasi alla fine del secolo scorso, il principio dominante è quello opposto della necessaria cooperazione tra autorità pubbliche e mercato”, pp. 32-33) e l’affermazione del welfare state, cioè dello Stato Sociale. A tali fattori aggiunge, residualmente, ma con dovizia di particolari esplicativi, anche che “esigenze un tempo soddisfatte dal singolo privato o da istituzioni della società civile … progressivamente sono state trasferite all’amministrazione pubblica” ed il “… declino della percezione dei doveri e delle virtù civiche” (pp. 34-35).
[11] L’Autore evidenza, fra i riflessi istituzionali dei cambiamenti ricordati, due profili di estremo interesse sistemico: 1) il trasferimento crescente di quote di potere decisionale dalle assemblee parlamentari alla P.A. (causato “… [d]all’incessante aumento di interessi pubblici immessi all’interno del circuito istituzionale dall’avvento dello stato pluriclasse e dal conseguente affacciarsi di classi e gruppi sociali portatori di visioni contrapposte e desiderosi di innovazioni radicali, di promozione economica e sociale, in breve di miglioramento delle condizioni di vita realizzabile solo … grazie all’attivo intervento pubblico … Ne è sovraccaricato il parlamento … ne è colpita la legge … e con la legge entra in crisi l’intero modello del processo decisionale … La conseguenza è l’aumento di deleghe di potere decisionale dal Parlamento ad altre sedi, tra cui quelle giurisdizionali, e soprattutto all’amministrazione … La quale … assume un rilievo tale da giustificare la qualificazione di ‘Stato amministrativo’ “, pp. 35-37); 2) l’aggiungersi alla tradizionale Amministrazione d’ordine di una vasta Amministrazione di prestazione con modalità organizzative, regole e relazioni con i destinatari fortemente differenziate (“… oltretutto, diametralmente opposta è la natura degli interessi dei destinatari: classicamente ordinati lungo la sequenza autorità-libertà quelli del primo tipo, cd. ‘oppositivi’; volti invece non già a respingere ma a invocare l’intervento pubblico i secondi, cd. ‘pretensivi’. In questa categoria si collocano i diritti sociali”, p. 40). Conseguenza vistosa, pienamente compresa dalla parte più sensibile della Dottrina, è che “… ormai, non di amministrazione pubblica e di diritto amministrativo si deve parlare, ma di amministrazioni pubbliche e di diritto delle medesime, del quale la disciplina pubblicistica è ormai soltanto una parte, sia pure prevalente”, p. 40).
[12] “Per quanto … la necessità di riforme non si traduca di per sé nella capacità di porle in essere, non c’è dubbio che l’amministrazione statale si è presentata [agli anni ’90 del secolo scorso: “il decennio delle riforme”… schiacciata dall’effetto combinato del sovraccarico, dovuto all’enorme aumento di funzioni, e dalla crescente difficoltà di provvedervi,in ragione dei mutamenti intervenuti e dell’incapacità di farvi fronte con riforme organiche … vanno poi aggiunti fattori di primaria importanza che minavano i postulati del modello originario. Prima di tutto l’integrazione europea, la creazione di un sistema amministrativo multilivello, basato cioè sulla compresenza di un livello superiore (quello comunitario) e di uno decentrato (quello regionale e locale) … Con un’implicazione profonda … il venir meno, o comunque il drastico ridimensionamento, del rapporto di esclusività e di compenetrazione che ha legato fin dall’origine … la PA e lo Stato … A tutto ciò va aggiunto il rapporto ravvicinato con la società e gli interessi coinvolti dai propri provvedimenti, che rende impraticabile lo schema dualistico originario del rapporto pubblico-privato e apre la strada a forme nuove e diverse che portano la PA … ad un diretto ruolo di mediazione inevitabilmente bisognoso di strumenti, principi e regole del tutto nuove” (pp. 73-74).
[13] “L’integrazione comunitaria, infatti, non avviene solo in via normativa …, ma anche in via amministrativa perché gli apparati di ogni paese (al pari dei giudici) sono chiamati a darne diretta applicazione operando, in questi casi, come organi della Comunità. Ne è derivato l’innesto all’interno del nostro ordinamento amministrativo di principi spesso inediti per la tradizione italiana” (p. 74). L’Autore, quindi, introduce i temi del “Patto di stabilità” ed il “principio di non discriminazione fra PA ed imprese”, qualificandoli quali fattori determinanti del mutamento. Con attenzione al primo fenomeno, “… [il Patto] impone rigorosi limiti al avanzo pubblico e al debito pubblico che non debbono superare, rispettivamente, il 3 e il 60 % del Pil. Ciò ha impedito o almeno reso difficoltoso alla PA, per la prima volta nella nostra storia amministrativa, di finanziare le proprie disfunzioni scaricandole, praticamente senza limiti, sulla spesa pubblica … Il che smentisce il principio ancora assai diffuso, che la disponibilità di risorse faciliti le riforme amministrative. Al contrario, si può certo affermare che se è vero che le riforme costano ed esigono risorse, soprattutto nella fase di avvio, è altrettanto vero che la dura necessità di fare i conti con mezzi decrescenti disarticola interessi consolidati, dà ai gruppi dirigenti la forza di superare ostacoli altrimenti insormontabili e costituisce, dunque, per quanto riguarda le riforme amministrative … più una risorsa che un vincolo” (pp. 75-76). Con riferimento al secondo ricordato fattore: “L’altro fattore di innovazione concernente il rapporto tra PA e imprese, in entrambe le accezioni che tale rapporto può assumere. La prima riguarda la disciplina comunitaria europea, ormai diretta, dei contratti tra l’una e le altre nei settori più significativi (appalti pubblici, lavori, forniture) … La seconda accezione … In un mercato come quello europeo, unificato dalla libertà di circolazione e di concorrenza e dal divieto di discriminazione tra operatori, sotto forma di ostacoli alle imprese concorrenti con azioni di sostegno (contributi, incentivi, sgravi fiscali, ecc.) alle imprese nazionali, c.d. aiuti di Stato, il terreno di competizione tra soggetti non si limita ai soli fattori produttivi e alla loro organizzazione ma si estende a tutto ciò che, pur situato all’esterno, finisce in un modo o nell’altro per risolversi in un costo, e dunque in una componente del prezzo … diventa un problema strategico per le associazioni degli imprenditori e per tutti coloro (comprese le stesse organizzazioni dei lavoratori) che operano nelle aree dell’economia aperte al mercato” (pp. 76-77).   
[14] Tra le dinamiche interne il Cammelli individua le aspettative più elevate dei cittadini nella P.A., originate da un alto sviluppo sociale (cui non è seguita una contestuale e pari modernizzazione della P.A.), il fenomeno “mani pulite” (che ha concorso alla separazione fra politica ed amministrazione, sotto il profilo normativo: vedasi, ad esempio, la L. n. 29 del 1993) e l’opzione intervenuta per un sistema politico bipolare (pp. 78-81).
[15] “La forza dei processi che si sono richiamati ha portato, dopo una secolare immobilità, a quello che può definirsi a ragione il decennio delle riforme amministrative (1990-2000) …” (p. 80): l’Autore considera, dunque, il c.d. “Statuto costituzionale della P.A.”, alla luce dell’enumerazione di alcuni profili di continuità e di rottura con la Costituzione del 1948, dei rapporti con i principi dell’ordinamento comunitario (“In particolare, va segnalato il crescente coordinamento tra i due sistemi e le implicazioni che discendono dal principio di sussidiarietà in ordine alle materie concorrenti … la conseguenza inevitabile è l’incremento della cooperazione tra amministrazione nazionale e comunitaria”, p. 83), sino a giungere ad una sommaria analisi delle riforme costituzionali degli anni 1999-2001. In particolare, con attenzione a quest’ultimo tema, “… due leggi costituzionali, la 1999 n. 1 (sullo statuto e la forma di governo regionale) e la ben più ampia 2001 n. 3 (di completa riscrittura del Titolo V Cost.) hanno tratteggiato un quadro istituzionale che, pur non privo di lacune … appare potenzialmente in grado di collocare l’intera PA su basi costituzionali significativamente diverse da quelle fin qui conosciute. La nuova versione del Titolo V Cost., infatti, disegna un sistema che indipendentemente dalla ripartizione delle funzioni legislative (distribuite fra Stato e Regioni) riconosce in linea di principio solo ai Comuni una competenza amministrativa generale. Tutti gli altri livelli istituzionali (Province, Regioni e Stato) risultano perciò titolari delle sole funzioni amministrative loro spettanti in base al principio di sussidiarietà c.d. ‘verticale’, in base al quale esigenze di differenziazione, adeguatezza o condizioni unitarie di esercizio legittimano la riserva di funzioni amministrative a sedi istituzionali di dimensione più ampia (art. 118 Cost.). Le implicazioni che ne discendono sono più d’una: [a] … chiara scelta in favore di un pluralismo istituzionale tendenzialmente paritario … [b] il definitivo tramonto del binomio ‘unità amministrativa=unità politica’ … [c] la pubblica amministrazione in Italia è essenzialmente un’amministrazione decentrata e ispirata al criterio della differenziazione” (pp. 85-86). Il discorso si conclude, allora, con la considerazione che “… la tenuta del sistema non è più assicurata dall’omogeneità dei modelli organizzativi (la cui definizione è affidata all’autonomia regionale e locale) ma da altri mezzi quali il rispetto di standard e indicatori sulle prestazioni (dal ‘che cosa’ fa, dal risultato, insomma, più che sul ‘come’ lo si fa)” (p. 86).
[16] Premesso che “… il decennio che va dal 1990 al 2000 è indubbiamente il periodo di maggiore impegno riformatore della pubblica amministrazione italiana a partire dall’Unità” (p. 87), l’Autore raggruppa, con singolare sforzo sintetico, le riforme di tale periodo in quattro ambiti tematici, rispettivamente così denominati: 1) “azione amministrativa”; 2) “organizzazione amministrativa”; 3) “amministrazione statale”; 4) “Regioni ed autonomie locali”. Nel primo gruppo ricomprende: a) “la legge generale sul procedimento amministrativo” (L. n. 241 del 1990 e succ. mod. ed integr.: pp. 89-91); b) “la conferenza di servizi” (art. 14 della L. n. 241 del 1990, pp. 91-93); c) “l’uso del diritto privato” (con particolare attenzione al fenomeno delle c.d. “privatizzazioni formali”, pp. 93-95). Nel secondo ambito tematico enumera: a) la “sussidiarietà” (“Nella versione attuale tale principio comporta il carattere eventuale (sussidiario, appunto) delle competenze (amministrative, nel nostro caso) di un soggetto pubblico, o perché tale funzione ( e il relativo interesse pubblico) può essere meglio soddisfatto da un’altra amministrazione pubblica collocata ad un livello istituzionale diverso (sussidiarietà c.d. ‘verticale’) o perché, allo stesso livello, sono presenti soggetti economici o sociali (imprese, associazioni, ecc.) in grado di garantire, nel proprio autonomo operare, un risultato analogo (sussidiarietà ‘orizzontale’)”, pp. 96-98); b) le “privatizzazioni formali e sostanziali” (dove l’Autore propone una dettagliata analisi del processo di privatizzazione in Italia, esaminando anche il tema della correlata nascita delle Autorità di settore: pp. 98-102); c) la “privatizzazione del pubblico impiego” (pp. 102-104); d) la “dirigenza amministrativa” (“… momento in cui si afferma il principio della separazione fra politica ed amministrazione … La riforma del ’93 e la messa a punto operata qualche anno più tardi (d. lgs. n. 80 del 1998) delineano un sistema nel quale al ministro ( e più in generale alla politica, perché la riforma vale come principio anche nell’ordinamento regionale e locale) spetta ‘parlare prima’ (con le direttive annuali, sull’attività, e con le nomine, sulla scelta dei dirigenti) e ‘dopo’ (controllo dei risultati, eventuale revoca o mancata conferma), ma ‘deve tacere sul resto’ (la gestione, in senso lato) che è riservato ai dirigenti generali, insieme ai poteri organizzativi sulle strutture a questi affidate, che ne rispondono pienamente”, pp. 104-108). Nell’ultimo gruppo di riforme, afferenti all’amministrazione regionale e locale, l’Autore evidenzia le novità (“Dunque, anche solo limitandosi ai dati quantitativi, è chiaro che nessun discorso sulla PA può fermarsi all’amministrazione statale, le cui dimensioni sono destinate a contrarsi ulteriormente con l’applicazione del nuovo Titolo V Cost. … “: p. 108) in materia di: a) “dirigenza locale” (con le innovazioni, fra le altre, in materia di Segretario comunale e di Direttore generale: pp. 109-110); b) “liberalizzazioni e privatizzazioni” (ad esempio, la riforma del commercio e dei servizi pubblici locali: pp. 110-112). Conclude l’analisi delle novità normative del decennio una sommaria ricognizione della riforma dell’amministrazione statale attuata dalla L. n. 59 del 1997 e dai Decreti Legislativi nn. 300 e 303 del 1999 (pp. 117-120): “Le linee guida, per l’amministrazione statale, sono costituite dal recupero della residenza del Consiglio al ruolo strategico dell’indirizzo e del coordinamento dei ministeri liberandone il funzionamento dalle eterogenee funzioni di gestione accumulatesi nel tempo; dalla razionalizzazione della distribuzione di competenze tra i ministeri (spesso frammentate fra apparati diversi); dalla riduzione del numero dei ministeri e la messa a punto della relativa organizzazione interna, centrale e periferica” (p. 117).
[17] “Dal punto di vista istituzionale, ed ancor più da quello amministrativo, infatti, il vero dibattito è stato ed è tuttora tra i sostenitori del modello unitario, sia pure con le dovute innovazioni, e i fautori del pluralismo istituzionale, e del policentrismo amministrativo: i primi, convinti che il modello unitario sia l’unico credibile presidio a garanzia degli interessi pubblici indivisibili e della solidarietà e dell’equità sociale, e che le necessità di diversificazione siano già assicurate a sufficienza dall’ordinamento locale esistente; i secondi, persuasi che le cerniere del sistema siano ormai altrove (v. Unione Europea) e diverse (reti, sistemi informativi, ecc.) e che un ampio reticolo di autonomie istituzionali e amministrative sia l’unico modo per corrispondere alla diversità dei contesti territoriali e condizioni socio-economiche, recuperando così l’aderenza tra assetto legale e dinamiche reali, da tempo pericolosamente in tensione” (p. 123).
[18] “Intanto, dopo più di un secolo di forte stabilità e continuità, la P.A. sta cambiando in modo accelerato ed appare destinata a mutare in modo ancor più marcato. Siamo dinanzi ad una vera e propria discontinuità con il passato generata da profonde dinamiche che investono tutte le relazioni fondanti de sistema amministrativo: i rapporti centro-periferia (meglio: centro-autonomie), quelli pubblico-privato e quelli emersi lungo l’asse potere politico-amministrazione-società. Si tratta di una trasformazione rispetto al passato destinata a consolidarsi, perché collegata a processi che oggi appaiono di lunga durata, come l’integrazione europea, il rilievo dei sistemi locali, la crisi della legittimazione politica e della legge, l’innesto degli interessi e il coinvolgimento dei relativi portatori, la crisi fiscale e il ripensamento della taglia degli apparati. E tuttavia, va subito notato, i punti di approdo restano ancora assai incerti e dunque scarsamente prevedibili gli esiti che ne deriveranno” (pp. 127-128).
[19] “… abbiamo altrettanto chiaramente una conferma: la P.A. è destinata a mantenere un ruolo cruciale nel sistema politico, economico e sociale delle istituzioni contemporanee e ancor più è chiamata a farlo in determinati contesti. In una società come la nostra, che la secolarizzazione ha privato dei tradizionali valori religiosi e ha lasciato sospesa nella terra di nessuno tra il tentativo di reinterpretarli e l’approdo ad una compiuta etica civile, l’amministrazione (in senso ampio, ovviamente) mantiene un peso ed un ruolo decisivo” (p. 128).
[20] “… una struttura organizzativa di forma piramidale, normalmente operante su due livelli (centrale e periferico, quest’ultimo di ambito provinciale o più raramente regionale) il cui titolare è di estrazione politica (ministro) e con competenza generale su di un determinato macrosettore, materiale (agricoltura, trasporti, istruzione, ecc.) o funzionale (finanze, bilancio, difesa, ecc.) o istituzionale (giustizia, affari esteri, PA, ecc.). nella sua forma più tradizionale, il ministero al suo interno si basa su burocrazie reclutate e formate (perlopiù sul campo) in modo specialistico e si suddivide per sottosettori definiti per competenze funzionali (nell’istruzione: scuola elementare, scuola superiore, università, ecc.) o organizzative e di supporto (affari generali, personale, patrimonio, ecc.) e le diverse sedi sono tra di loro in relazione gerarchica, in modo che in ogni settore quella di livello inferiore è tenuta a conformarsi alla volontà di quella superiore” (pp. 48-49).
[21] “… una vera e propria ‘reductio ad unum’ fondata sulla totale preminenza dell’ordinamento statale al quale solo spetta, se e nella misura in cui lo ritenga utile, accordare rilievo alle altre realtà istituzionali … Elemento chiave di tali relazioni in tutti gli ordinamenti di derivazione napoleonica è il prefetto, rappresentante del governo in sede locale e autentico punto di snodo tra amministrazione ed enti territoriali” (pp. 50-51).
[22] “La chiusura del sistema, infine, è assicurata da un ampio e articolato sistema di controlli sulla legittimità di ogni singolo atto, sia interno (sistema delle ragionerie, segretari comunali) che esterno (Corte dei conti, prefetto, Comitato di controllo), perlopiù preventivo (vale a dire prima della produzione degli effetti del provvedimento), cui è assegnato il compito di verificare l’effettiva osservanza delle normative (sostanziali, procedurali e contabili) cui sono sottoposte tutte le pubbliche amministrazioni” (p. 51).
[23] “… garanzie giurisdizionali, fortemente limitate in sede di giurisdizione ordinaria e, anche per questo, consegnate in misura progressivamente crescente ad una giurisdizione speciale, quella amministrativa, più penetrante per i poteri di annullamento dell’atto illegittimo che le sono riconosciuti e per la conoscenza specialistica degli affari amministrativi di cui dispone, ma segnata da una tradizionale e compromettente contiguità con il potere esecutivo e con l’amministrazione che ne imporrà, nel tempo una riconsiderazione ancora non compiutamente operata” (p. 51).
[24] “In realtà il Parlamento è sovente rimasto tagliato fuori dalle scelte strategiche in materia, ed è particolarmente significativo che ciò sia avvenuto anche in momenti cruciali, basti pensare alle scelte istituzionali di fondo dell’unificazione italiana, cioè su quale modello optare e come rapportarsi alle esperienze non piemontesi: è estraneo alle leggi Rattizzi del ’59-’60 (codici, amministrazione, ordinamento giudiziario); rimane largamente estraneo alla stessa opera di unificazione legislativa (codice civile, codice di procedura civile, codice del commercio) e di definizione dei fondamenti del sistema amministrativo (legge comunale e provinciale, pubblica sicurezza, Consiglio di Stato, contenzioso amministrativo, opere pubbliche e sanità pubblica), la cui approvazione in blocco sotto forma di allegati ad un’unica, brevissima, legge (2248/1865) tronca il dibattito parlamentare su tutti i punti destinati a rimanere cruciali per tutta la storia amministrativa italiana … Non è un caso isolato. La stessa cosa avviene per i provvedimenti istituzionali del regime transitorio 1943-48 (destinati a pesare enormemente sul periodo successivo), per l’attuazione dell’ordinamento regionale degli anni ’70, affidata a decreti legislativi dell’esecutivo, per l’intero decennio di riforme amministrative 1990-2000. In breve, quando le scelte sono davvero generali e riguardano la PA nel suo complesso, il tema coinvolge direttamente il Governo e salvo limitate eccezioni (v. legge generale sul procedimento amministrativo del 1990 n. 241) viene affrontato e risolto in questa sede … così che al Parlamento, quando interviene, non resta che ratificare quanto precedentemente, e altrove, stabilito” (pp. 52-53). 
[25] “… Il centro non è (solo) un luogo geografico: per essere davvero tale, oltre all’astratta titolarità di poteri decisionali, deve essere innanzitutto provvisto in concreto di strumenti capaci di incidere in profondità sull’ordinamento e l’organizzazione del complesso degli apparati, almeno per quanto riguarda gli aspetti principali, vale a dire il coordinamento, la formazione della burocrazia e dei suoi vertici, la cura delle strutture tecniche del relativo personale, la provvista e la circolazione delle informazioni, il controllo delle risorse, la possibilità di verificare quanto avviene. Ebbene, fino ai nostri giorni … tali strumenti sono mancati o ci si è limitati alla loro semplice previsione normativa senza effetti concreti” (p. 55). Il Cammelli prosegue specificando le criticità che hanno determinato questo “centralismo senza centro”, rappresentando particolarmente il ruolo “fragile” della Presidenza del Consiglio e del Prefetto: “Se si escludono limitate eccezioni, come il ruolo giocato dalla ragioneria generale dello Stato in sé e mediante il controllo esercitato (dal 1923) sulle ragionerie centrali di ciascun ministero, o la funzione di referente unitario (quantomeno per le questioni giuridico-amministrative) svolta dal Consiglio di Stato in sede consultiva, ogni altro aspetto è rimasto affidato alle amministrazioni di settore e dunque, quando esercitato, declinato in una logica per lo più autoreferenziale e, comunque, parziale. Particolarmente gravi risultano … il generalizzato venir meno fin dai primi anni dell’Unità delle attività di vigilanza svolta attraverso forme ispettive attrezzate e continuative, e, soprattutto, la mancanza di centri unitari di formazione della dirigenza amministrativa paragonabili, come efficacia e prestigio, alle grandi scuole dell’esperienza francese … al centro … la tradizionale fragilità della Presidenza del Consiglio e degli apparati di supporto, frutto del ruolo istituzionale (di mediazione più che di guida) affidato dal sistema politico al titolare della carica e della tradizionale funzione residuale della Presidenza, come sede cioè in cui collocare provvisoriamente apparati e compiti di cui fosse incerta, o controversa, la dislocazione ottimale (ROTELLI). A livello decentrato altrettanto avviene per il ruolo e la funzione del prefetto la cui vocazione forte di monopolio istituzionale delle relazioni centro-periferia alla francese è da subito messa in discussione, e fortemente ridimensionata, non dai Comuni o dal sistema locale ma dalle altre amministrazioni periferiche dello Stato (provveditorati scolastici ed intendenze di finanza) che fin dagli anni immediatamente successivi all’Unità rivendicano ed ottengono relazioni dirette (dunque non intermediate dal prefetto) con i rispettivi centri ministeriali, così come accadrà poco dopo per i grandi servizi pubblici a rete (genio civile, poste e telegrafi) e i restanti apparati (corpo forestale)” (pp. 55-56). Realistica è la conclusione tratta dall’Autore, dopo aver razionalmente, e con l’ausilio di sensibile Dottrina, esaminato la vicenda: “… nell’esperienza italiana la soluzione dei problemi del centralismo senza centro e della correlativa debolezza delle sedi a competenza generale si scontra con il paradosso rappresentato dal fatto che chi dispone della forza sufficiente per introdurre innovazioni organiche non ne ha bisogno, potendo conseguire gli stessi risultati più direttamente e incisivamente grazie al proprio peso politico, e chi ne è sprovvisto non è in grado, proprio per questo, neppure di porsi il problema” (p. 57).  
[26] “I dieci anni successivi all’Unità bastano a disarticolare l’omogeneità del modello ministeriale ed è sufficiente che la macchina amministrativa innesti la marcia dello sviluppo economico, come avverrà con il ‘decollo’ giolittiano all’inizio del secolo, per aprire il capitolo delle deroghe, delle eccezioni, dei regimi (e delle soluzioni) speciali … La cosa è particolarmente evidente per il Mezzogiorno …” (p. 57).
[27] “Il risultato è un altra peculiarità nelle relazioni centro-periferia in Italia: la netta prevalenza del circuito politico-istituzionale su quello amministrativo … Così, al di là delle forme, il sistema locale acquista un peso notevole, che smentisce il ruolo marginale cui formalmente lo si vorrebbe relegare, perché è in grado di condizionare (o almeno di negoziare) buona parte degli interventi statali operati sul territorio. I ministeri, invece, pagano la debolezza di cui essi stessi hanno posto le premesse respingendo le forme più elementari di coordinamento e razionalizzazione, mentre il prefetto vede il peso della propria mediazione politica accompagnarsi al ridimensionamento del proprio ruolo amministrativo” (p. 61). 
[28] “… Il problema è un altro, e consiste nel fatto che una delicata funzione giurisdizionale viene riconosciuta ad una sede parzialmente sprovvista di quel carattere di terzietà che ne costituisce il presupposto indefettibile … la situazione, già critica [l’Autore ha sommariamente ripercorso, nelle pagine precedenti, l’istituzione delle sezioni giurisdizionali CDS, delle GPA e dei TAR], è venuta ulteriormente aggravandosi in ragione della nuova formulazione dell’art. 111 (l. cost. n. 2 del 1999, c.d. ‘principio del giusto processo’), che ha rafforzato la necessità di un ‘giudice terzo e imparziale’, e di recente pronunce della Corte Europea dei Diritti dell’Uomo (1195, 2000 e 2003) che hanno censurato tali profili e l’insufficienza delle garanzie assicurate, per questo aspetto, dal giudice amministrativo” (p. 63).
[29] “Nel 1861 le funzioni svolte sono limitate ai compiti essenziali (ordine pubblico, giustizia, esteri, istruzione, fisco, opere pubbliche), tra i quali vanno annoverato gli interventi di base indispensabili per l’avvio dello sviluppo economico (opere pubbliche, rete ferroviaria) … la taglia organizzativa è correlativamente ridotta (9 ministeri) e il personale amministrativo è di 2.859 unità, certo destinato a crescere ma che ancora nel 1878, dopo il trasferimento della capitale a Roma, supera di poco il numero di 11.000, collocando il rapporto tra burocrazia e popolazione italiane a livelli molto più ridotti di quelli degli altri paesi …L’inizio del Novecento, e in realtà tutto il primo ventennio del secolo, segna uno dei momenti a più accelerata trasformazione in evidente coincidenza con l’esaurirsi della fase di puro consolidamento dell’Unità e con l’avvio di quello che fu definito il ‘decollo amministrativo’. Si tratta di aspetti ben noti e studiati di questo periodo, dominato dal riformismo giolittiano e dalle prime e dirette risposte istituzionali alla domanda di nuove politiche pubbliche emersa con lo sviluppo del processo di industrializzazione e l’avvento dello Stato pluriclasse, dalla legge sull’assunzione di servizi pubblici locali da parte dei Comuni all’istruzione elementare obbligatoria” (pp. 64-65). Seguono alcune interessanti riflessioni in materia di aumento della spesa pubblica, di nascita (o rinascita, secondo lo scrivente recensore, se guardiamo all’esperienza piemontese preunitaria) dei primi enti pubblici e delle prime aziende autonome, di prima definizione organica dello statuto dei pubblici dipendenti (pp. 65-66).
[30] L’Autore ripercorre, per gli anni 1915-1923, il forte aumento dei dipendenti pubblici intervenuto negli anni 1915-1921, l’ingresso generalizzato del lavoro femminile nelle P.A., la nascita dei Ministeri “tecnici” e la forte regolazione pubblica delle attività economiche (pp. 66-67). “In termini di amministrazione statale, in realtà, il ventennio 1923-1943 è unanimemente considerato espressione di un sostanziale continuiamo: si è già detto dei modesti esiti delle ipotesi De Stefani, nel primo decennio, e dell’assestarsi del sistema nell’equilibrio tra fascistizzazione formale e ‘governo della burocrazia’ nel secondo … La continuità … non riguarda le funzioni svolte (enormemente accresciute) né il ruolo svolto (ormai non solo ‘interventista’ ma ‘dirigista’ …), ma l’organizzazione e l’ordinamento dell’amministrazione statale … Si comprende in tal modo perché le innovazioni investano, e profondamente, gli altri due ambiti della PA, quella locale e quella degli enti pubblici. La prima, con l’istituzione del podestà nei Comuni (1926) e [del preside] nelle Province (1928) e completata con la statizzazione dei segretari comunali (1928) e il testo unico sulla finanza locale(1931), cancellava l’autonomia degli enti locali d’inizio secolo trasformandoli in appendici del potere centrale. Il grosso delle nuove funzioni assunte dallo Stato totalitario fu così indirizzato verso il fronte delle amministrazioni parallele, gli enti pubblici, la cui struttura (consigli di amministrazione, nuove burocrazie, sistemi di finanziamento settoriali) permetteva … il diretto controllo politico ed amministrativo del Governo. Non può meravigliare perciò la crescita esponenziale di questi apparati … senza contare l’attrazione alla sfera pubblica (mediante il riconoscimento statale) di una pletora di associazioni professionali e di categoria operanti nel campo della mutualità” (pp. 67-68).
[31] “L’esperienza amministrativa repubblicana, fino alla fine degli anni ’80, è segnata da occasioni mancate e dall’accentuarsi delle dinamiche già emerse in precedenza” (p. 69). Fra le occasioni mancate il Cammelli annovera, con rappresentazione di particolari di sintesi, il periodo di transizione costituzionale (1943-1948), alle pp. 69-70, l’attuazione delle Regioni (1970-1976), alle pp. 70-71 e, quale occasione a suo avviso spesso omessa dalla dottrina storico-istituzionale, il disegno di decentramento burocratico della metà degli anni ’50: “Accanto a queste occasioni vistosamente mancate ne va ricordata un’altra che viene invece spesso, ed ingiustamente, omessa. Si tratta del disegno di decentramento burocratico, cioè non agli enti territoriali ma agli organi periferici dello Stato (prefetture, intendenze, provveditorati, ecc.), che fu tentato a metà degli anni ’50 con la legge delega n. 150 del 1953 e una serie di decreti delegati poi denominati ‘Lucifredi-Coletti’ dal nome di coloro che ne furono i proponenti. L’aspetto più peculiare della proposta, che nella sua versione originaria era decisamente più ampia, consisteva nel praticare una soluzione intermedia tra l’ormai insostenibile sovraccarico della centralizzazione e l’impraticabile attuazione dell’ordinamento regionale, che pure era costituzionalmente dovuta. Infatti, pur confermando il modello ministeriale, il provvedimento distingueva un livello di governo (centrale9 e un livello operativo (periferico), decentrando a quest’ultimo funzioni e risorse. Si trattava, con quasi quarant’anni d’anticipo, della via poi effettivamente imboccata in Francia con la ‘loi d’orientation’ del 6 febbraio 1992 con cui si è dato vita al sistema di ‘parallelismo razionalizzato’, vale a dire della contemporanea presenza sul medesimo territorio di enti locali e di organi periferici statali (parallelismo) e della riserva a questi ultimi della massima parte dei compiti operativi, fermo restando il mantenimento ai vertici ministeriali delle scelte strategiche e di indirizzo. Ma anche di questa soluzione, che pure lasciava interamente nelle mani dell’amministrazione statale ogni funzione fino a quel momento esercitata, non se ne fece niente.” (pp. 71-72).
[32] Per un primo approccio all’argomento, di estrema attualità scientifica, ma di altrettanto ampia trattazione e diffusione, si cfr., a mero titolo esemplificativo: A. Natalini, “Il tempo delle riforme amministrative”, Bologna 2006 [alle pp. 11-80], M.S. Righettini, “Elementi di scienza dell’amministrazione”, Roma 2005 [pp. 7-52], E. Gualmini, “L’amministrazione nelle democrazie contemporanee”, Roma –Bari 2003 [alle pp. 3-30, “La teoria comparata della burocrazia”] (tutti e tre, con varia differenziazione, dal taglio politologico, storico-stituzionale e giuridico); E. Borgonovi, “Principi e sistemi aziendali per le amministrazioni pubbliche”, Milano 2006 [partitamente alle pp. 183-205], e L. Hinna – M. Meneguzzo – R. Mussari – M. Decastri, “Economia delle aziende pubbliche”, Milano 2006 [specificamente alle pp. 1-144 e 331-380, cioè i contributi di Meneguzzo,“La strategia e la governance delle amministrazioni pubbliche”, e di Decastri,“Amministrazione pubblica e stereotipi: alla ricerca della burocrazia perduta”] (più attenti ai profili economico-istituzionali); S. Cassese, “Oltre lo Stato”, Bari-Roma 2006 (ovviamente notoriamente sensibile al dato storico-giuridico, come nei suoi apprezzati precedenti contributi in argomento: Id., “La crisi dello Stato” ed Id., “Lo spazio giuridico globale”, rispettivamente del 2002 e 2003, eodem loco).
[33] “LA TEORIA DEI GIOCHI … è uno strumento per studiare le decisioni in situazioni di conflitto, in particolare quelle in cui la migliore linea d’azione di ogni partecipante dipende dalle aspettative che egli ha delle azioni degli altri partecipanti … In un gioco a somma zero tra due giocatori, ciò che è vinto dall’uno è perso dall’altro: rientrano quindi in questa categoria la boxe, il tennis, la campagna elettorale di due candidati per un seggio uninominale. In un gioco a somma diversa da zero, invece, non sempre ciò che un giocatore guadagna viene perso dall’altro: la somma dei guadagni e delle perdite, in breve, non è necessariamente eguale a zero. Questi giochi implicano quindi non solo la competizione, poiché entrambi gli attori possono capitalizzare qualche vittoria; vi è, al contrario, uno spazio contrattuale, ossia un ventaglio di esiti possibili, positivi o moderatamente negativi, più graditi di un mancato accordo …”: G.J. Ikenberry – V.E. Parsi (a cura di) “Manuale di Relazioni Internazionali”, Roma-Bari 2001, pp. 256-257. Di estremo interesse sistemico risultano anche le considerazioni successive, rinvenibili sempre nel citato contributo, riferite alla strategia dominante, all’equilibrio di Nash, al dilemma del prigioniero, al gioco del coniglio, alle cooperazioni Pareto-ottimali: strumentario economico-istituzionale ormai diventato di dominio scientifico comune anche per i giuristi e gli studiosi della P.A. in genere.
[34] “… l’ ‘invenzione’ delle Conferenze permanenti (Stato-Regioni, Stato-Città e Conferenza unificata) … alle sedi decisionali collocate al centro ma condivise in vario modo con Regioni ed autonomie locali per l’obiettivo intreccio di funzioni svolte: dalle agenzie governative, v. art. 8.1 del d. lgs. n. 300 del 1999, all’imponente sistema di ‘microrappresentanze di settore’ presso singoli apparati o ministeri. In quest’ultimo caso si tratta di commissioni, comitati, collegi amministrativi … queste dinamiche incidono visibilmente sulla stessa collocazione della Presidenza del Consiglio, il cui ruolo amministrativo dovrebbe trasformarsi da ‘centro del centro’ (cioè mediano rispetto ai diversi ministeri) a ‘centro del sistema’, e dunque tendenzialmente equidistante rispetto a Regioni, autonomie locali, enti pubblici e apparati ministeriali. Ciò che infatti traspare dalla riforma della presidenza operata con il d. lgs. n. 303 del 1999” (pp. 113-115).
[35] “In ogni caso, il ruolo delle autorità indipendenti e la stessa tendenza a ricorrervi non possono dirsi ancora stabilizzati. In Italia, cioè un paese che anche in ragione della crisi politica degli anni ’90 più di altri vi ha fatto ricorso, accanto all’obiettiva necessità di dare ordine ad una pluralità di regimi per molti aspetti ingiustificatamente differenziati si è fatta avanti di recente la tendenza a rivedere la materia e a riportare all’esecutivo, e alla responsabilità politica di quest’ultimo, parte dei compiti attualmente assegnati alle autorità indipendenti …” (p. 116).
[36] “Tutto ciò è dovuto al fatto che il policentrismo e la complessità del sistema, non solo delle relazioni fra livelli istituzionali o tra sedi amministrative ma anche tra pubblico e realtà economiche e sociali, riservano al centro esigenze (appunto) sistemiche del tutto nuove e definibili più per il ruolo assolto e i compiti assegnati che per il soggetto istituzionale, spesso mancante, di riferimento. Le conseguenze sono molteplici: una, strettamente concettuale, è che da questo momento in poi la necessità di un’allocazione centrale di una funzione non si traduce automaticamente in una competenza statale; l’altra, più operativa, in ragione della quale l’estendersi di organismi centrali ma non statali e i nuovi compiti affidati all’amministrazione centrale statale pongono l’indifferibile esigenza di ripensarne strutture e modalità d’azione” (p. 113).

Rondanini Marco

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